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La visione delle lingue nell'esilio di Lorenzo Hervàs y Panduro

Diego Poli

Università di Macerata

     La mia posizione si rivelerà polemica nei confronti della storiografia linguistica che, oltre a sottovalutare gli interessi dimostrati dai Gesuiti verso la retorica e la grammatica, ha ignorato le segnalazioni che studiosi �non sospetti� (si pensi a Leibniz e a von Humboldt) ebbero a fare in merito alle specifiche competenze acquisite da alcuni membri dell'Ordine. E'infatti solo recentissima la presa di coscienza di un filone inesplorato di una linguistica definita �missionaria� (Marazzini 1987) che tuttavia è ancora rappresentata come episodica e ininfluente rispetto al panorama della cultura contemporanea.

     Inoltre, lo sviluppo della branca etnologica nella linguistica ha cominciato a prendere in serio conto la possibilità di vagliare le raccolte inedite di dati provenienti dai territori di missione e conservate negli archivi romani. In particolare, viene riconosciuta l'istanza empirica che portò i Gesuiti a servirsi delle fonti dirette là dove la linguistica filosofica del Settecento privilegerà gli stereotipi sulle lingue dei popoli altri (Cardona 1976: 37-47). Infatti la registrazione regolare dei rapporti era un esercizio comandato ai Gesuiti da un insegnamento retorico con cui si mirava a equilibrare l'applicazione di mnemotecniche formative nell'educazione dell'individuo (Yates 1966) con la fissazione affidata alta scrittura di fatti che erano giudicati utili per l'informazione collettiva. Come conseguenza, l'Europa si trovò a conoscere per la prima volta un sistema che, proponendo l'apertura verso le culture etniche, sensibilizzava a un approccio che cogliesse gli aspetti antropologici e pragmatici dell'analisi.

     L'impegno mostrato dai Gesuiti nel curare l'insegnamento linguistico si palesava nella dinamica della comunicazione che caratterizzava il toro zelo missionario. Nei Collegi, le tecniche di apprendimento glottodidattico erano finalizzate all'apostolato attivo che sapesse adeguarsi alle singole situazione e ricalcasse l'exemplum pentecostale, come viene anche sancito dalla Exhortatio [114] XI di Coimbra del p. Jerónimo Nadal (Nicolau 1945): �imitando pues [a] los Apóstoles, a los cuales dio el Señor donum linguarum y la profecía y el doctorado en la Iglesia, y esto por don y milagros, esperemos en el Señor que nos dará gracia para ello, que seremos profetas, hoc est, interpretes Scripturarum, y sabremos las lenguas para lo poder nos bien hacer�.

     Il testo delle Constitutiones (MHSI 1938) entra nel merito del curriculum stabilendo che, alle lingue classiche e all'ebraico, si affianchino l'arabo, il caldeo, l'indiano o qualunque altra lingua che sarà ritenuta opportuna (Declaratio B in cap. X11): �sic de aliis dicendum, quaxe esse possent aliis in regionibus ob similes causas utiliores�. L'omologazione delle lingue �altre� alle lingue classiche e teologiche era implicita nell'insegnamento evangelico che riconosce il �prossimo� come persona mediata da Cristo. L'innovazione portata dalla Compagnia consiste nell'aver collocato la predicazione in una dimensionestorica che, proponendo una nuova ottica, avrebbe aiutato a superare la contrapposizione concettuale �civilizzato� vs. �barbarico�.

     Strumentale a tale linea pedagogica divenne la elaborazione di una retorica che mirava a interpretare la realtà adeguando gli schemi tràditi ai condizionamenti culturali (Poli 1989-90). Dal ridimensionamento delle categorie universali conseguirono la valorizzazione di procedure induttive nella descrizione grammaticale delle lingue altre e la contrapposizione all'impostazione razionale della Grammaire fornita dai Signori di Port-Royal. La polemica dottrinaria dei Gesuiti nei confronti del Giansenismo rientrava, quindi, in uno schema ideologico globale.

     Rispetto alla teoria logico-grammaticale di Port-Royal, che si riallaccia alla tradizione del razionalismo classico (Tsiapera, Wheeler 1993), la ricerca dell'antropologia attraverso la retorica e le tecniche di approccio al dato culturale perseguita dai Gesuiti risulta possedere aspetti pionieristici, al punto che solo molto di recente è stato possibile rivalutarla. Certamente non è stato di poco nocumento il coinvolgimento che la Compagnia ebbe nelle vicende politiche contemporanee. La diffusione della rete dei Collegi gesuitici e, quindi, il ruolo esercitato da questo sistema educativo (de Dainville 1978) s'interromperanno bruscamente allorquando una serie di circostanze storiche porterà alla rottura con i sovrani dell'Europa cattolica. Oltre a ciò, gli idéologues del'700 francese, che saranno gli eredi e i continuatori delle concezioni pedagogico-grammaticali di Port-Royal, contribuiranno a scavare il solco fra il pensiero da loro sviluppato, e destinato a trionfare con la Rivoluzione, e le dottrine dei Gesuiti che oramai saranno stigmatizzate come retrograde.

     Schiacciata fra le reazioni realiste e i fermenti illuministici, la posizione della Compagnia divienne insostenible e perse rapidamente quel rilievo politico e culturale che era riuscita rapidamente a guadagnarsi. Eppure, ancora durante la diaspora gesuitica causata dalle promulgazioni dei bandi di espulsione, vediamo maturare i frutti del costante impegno sul campo svolto dai membri dell'Ordine che erano portati a conoscenza comune attraverso i canali di diffusione della rete. [115]

     La situazione di grave disagio psicologico causato dall'esilio del 1767 non incise sulla disciplina del p. Lorenzo Hervás y Panduro (Horcajo de Santiago 1735, Roma 1809) che si applicò alla realizzazione di un progetto scientifico di taglio enciclopedico mirato a cogliere la presenza sulla terra dell'uomo come soggetto attivo nel denotare verbalmente le innumerevoli differenze del creato. I 21 volumi dell'Idea dell'Universo (Cesena, per i tipi di Gregorio Biasini, 1778-1787), che contengono la storia dell'umanità, della terra e del cosmo, si concludono con l'ampia trattazione, descrittiva, tipologica, storica, che permetterà di ridurre a classificazione le lingue disperse dalla confusione babelica. Hervás y Panduro titola i cinque ultimi libri: Catalogo delle lingue conosciute e notizia della loro affinità e diversità (1784), Trattato dell'origine, formazione, meccanismo ed armonia degli idiomi (1785), Aritmetica di quasi tutte le nazioni conosciute (1786), Vocabolario poligloto (1787), Saggio pratico delle lingue (1787). Una versione spagnola in sei volumi, uscita con il titolo Catálogo de las lenguas de las naciones conocidas y numeración, división y clases de estas según la diversidad de sus idiomas y dialectos (Madrid 1800-1805), risulta meno sistematica e coerente (Coseriu 1978:48).

     Un fugace accenno alla sua opera figura nella storia della linguistica tratteggiata dal Thomsen (1927:40) dove, tuttavia, Hervás y Panduro viene considerato assieme a Pallas e ad Adelung un Polyglottsammler pur riconoscendolo dotato di una capacità investigativa che gli faceva superare il livello del mero confronto lessicale. Di recente, le istanze teoriche e metodologiche sviluppate da Hervás y Panduro sono state finalmente esaminate dalla Tonfoni (1988) e dal Sarmiento (1990). Resta comunque il fatto che l'assunto basilare cui rimandano le sue richerche propone il profondo radicamento delle lingue nella storia dell'umanità e si pone in alternativa al deduttivismo della grammatica di Port-Royal rivelandolo, in tal modo, in lui un precorritore del comparativismo ottocentesco. La posizione di Hervás y Panduro che appare, infatti, insolita se viene ricondota a quegli schemi di riferimento trova il suo luogo ideale di maturazione nel contesto della tradizione scolastica gesuitica da dove, per altro egli, deve anche avere tratto l'interesse a cogliere l'aspetto linguistico delle problematiche.

      Nel quadro europeo di una cultura di stampo empirico che mirava ad accumulare notizie sulle lingue per elaborare progetti scientifici (Auroux et al. 1992; Nowak 1994), la linguistica gesuitica trova, dunque, un suo ruolo non secondario. D'altra parte, la prova che stretti legami siano esistiti fra l'Ordine e gli studiosi del '600 e '700 dimostra che le speculazioni dei Gesuiti erano orientate nella stessa direzione che le Società e le Accademie stavano assumendo in quegli anni. Nei suoi scritti anche Hervás y Panduro annota in più luoghi la conoscenza di ambienti laici; si vedano, per tutti, i contatti epistolari con il celtista anglo-irlandese Charles Vallancey.

     Comunque, prima ancora che Friedrich Schlegel e Franz Bopp interpretassero gli universali metodologici corne universali storici, l'analisi documentaria di Hervás y Panduro concepì le lingue come elaborati della storia prodottisi nei [116] secoli e, pertanto, come immagini degli accadimenti realli. Rispetto alla teorizzazione della unicità della grammatica, Hervás y Panduro prospetta la possibilità di una pluralità di grammatiche che rispecchino le visioni della realta elaborate dai vari popoli che, anche grazie all'opera de Gesuiti, sono stati conosciuti sullo scenario europeo. Nell'insegnamento di Hervás y Panduro, la lingua di ciascuno merita di essere assunta quale testimonianza delle diverse stratificazioni socio-culturali che hanno lasciato l'impronta nell'evoluzione di ogni specifica etnia.

BIBLIOGRAFIA

     AUROUX S. et al. 1992: �La question de l'histoire des langues et du comparatisme�, in Europäische Sprachwissenschaft um 1800, vol. III, Münster, pp, 123-133.

     CARDONA, G. R. 1976: Introduzione all'etnolinguistica, Bologna.

     COSERIU, E. 1978: �Lo que sabemos de Hervás�, in Estudios ofrecidos a Emilio Alarcos Llorach, vol. III, Oviedo, pp. 35-58.

     DE DAINVILLE, F. 1978: L'education des Jésuites, Paris.

     MARAZZINI, C. 1987: �Linguistica in Vaticano: Missionari e sanscrito nel secondo Settecento�, in Le vie di Babele, Milano, Casale Monferrato, pp. 57-64.

     MHSI 1938: Monumenta ignatiana. Constitutiones, ser. tertia, vol. III, Roma.

     NICOLAU, M. 1938: Pláticas espirituales de P. Jerónimo Nadal, S.I., en Coimbra (1561), Granada.

     NOWAK, E. 1994: �From the unity of grarnmar to the diversity of languages�, in Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft, 4/1, pp. 1-18.

     POLI, D. 1989-90: �Politica linguistica e strategie della comunicazione gesuitiche in Matteo Ricci� in Annali della Facoltà di Lettere e Fílosofia (dell'Universitá di Macerata), 22-23, pp. 459-483.

     SARMIENTO, R. 1990: �Lorenzo Hervás y Panduro (1735-1809): entre la tradición y la modernidad� in Papers from the fourth international conference on the history of the language sciences, Trier 24-28 August 1987 (HHL 51), vol. II, Amsterdam-Philadelphia, pp. 461-482.

     THOMSEN, V. 1927: Geschieitte der Sprachwissenschaft, Halle/Saale.

     TONFONI, G. 1988: �Problemi di teoria linguistica nell'opera di Hervás y Panduro� in Lingua e stile, 23/3, pp. 365-381.

     TSIAPERA M., WHEELER G. 1993: The Port-Royal grammar. Sources and influences, Münster.

     YATES, F. A. 1966: The art of memor.y, London. [117]



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Francisco Pla: un ex-jesuita proyectista en la Italia del siglo XVIII.

Jesús Pradells

Universidad de Alicante

     Si atendemos a un concepto de cultura en sentido lato, resulta indudable que las relaciones hispano-italianas ofrecen un amplísimo panorama a lo largo del siglo XVIII. Sin embargo, conforme señalaba el P. Batllori, �no hay duda de que el centro de esas relaciones de cultura comparada y convivida lo ocupan, a partir de 1767, los jesuitas, y luego los exjesuitas exilados�(241).

     El propio P. Batllori puso de relieve, especialmente en su obra sobre La Cultura hispano-italiana de los jesuitas expulsos, los máximos exponentes de lo que podríamos llamar la Cultura con mayúscula. Ahí están las aportaciones de Juan Andrés, del lingüista y filólogo Hervás y Panduro, del Abate Lampillas de Masdeu, las del polifonista Joaquín Pla, y un largo etcétera, a la cultura universal(242).

     Sin embargo, esta élite consagrada por la magnitud de sus obras no representa más que la punta de un iceberg. Los más de 5.000 jesuitas españoles e hispanoamericanos que residieron en diferentes lugares de Italia ofrecen un panorama de producción y comunicación cultural en otros campos del pensamiento, la ciencia y la técnica que de ningún modo puede despreciarse. Pero es este el momento, ni es posible en una exposición tan reducida, explicitar la larga lista de jesuitas, secularizados o no, que acabaron por ofrecer sus aportaciones intelectuales a la Corona buscando, por lo general, un aumento de pensión, o la reconciliación con el gobierno carolino. [118]

     Uno, entre otros muchos personajes, es el abate Francisco Pla, que rescatamos ahora del olvido como un ejemplo más de los muchos que manifestaron vocación de proyectistas, o que ejercieron funciones de �mediación cultural�; una labor que resulta menos luminosa que la de las grandes figuras, pero que cumplen en segunda instancia una misión imprescindible de divulgación en el medio social.

     De los antecedentes personales del P. Francisco Pla y Ferrusola sabemos poco. Natural de Mataró, donde nació en 1734(243), ejercía en 1767 una de las cátedras de Teología en el colegio de Belén en Barcelona cuando, como consecuencia de los decretos de expulsión, comenzó su forzado peregrinar hacia Italia tras ser embarcado en el puerto de Salou a bordo de la saetía San Antonio, compartiendo desde aquel momento la incertidumbre, la zozobra y las privaciones que caracterizaron los primeros compases de aquella pugna diplomática hispano-romana, de la que fueron víctimas los expulsos, y que ha sido puntualmente descrita por el Dr. Giménez en diversos artículos(244).

     Francisco Pla fue uno de los muchos jesuitas que optaron por la secularización -generosamente fomentada con primas económicas por el Gobierno- y que, tras haber fijado su residencia en Génova, no pasaron muchos años sin que procurase hacerse grato a los sucesivos secretarios de Estado, primero al patricio genovés Girolamo Grimaldi (1763-1777), y posteriormente a José Moñino, Conde de Floridablanca (1777-1792), ambos excelentes conocedores de las realidades italianas. Este último había servido en la legación española en Roma desde 1772 hasta 1776, con la misión específica de procurar la supresión de la Compañía de Jesús; mientras Grimaldi, tras abandonar el cargo de Secretario de Estado, vivió su retiro en la Embajada en Roma desde 1777 hasta 1783.

     La vocación proyectista del P. Pla comienza a manifestarse en 1783, pues, con ocasión del sitio de Gibraltar, remitió a Floridablanca una Disertación sobre el Dominio de Mar,(245) un breve tratado sobre los intereses comerciales y la política mercantil desarrolladas por las naciones europeas, que, al igual que otros ofrecimientos, no mereció por entonces más que el agradecido acuse de recibo por parte del Ministro(246).

     Mejor fortuna empezó a acompañar a Francisco Pla desde 1783, después de quince años de permanencia en Italia, de los que once habían trascurrido ya en Génova. El 5 de septiembre de aquel año escribió a Floridablanca [119] manifestándole que esta era: �la quarta vez que ten [ía] la honra de ofrecer a la Patria [sus] Escritos de Política�, obra para la que imploraba �humildemente la poderosa protección i amparo� del Secretario de Estado, �por cuia dignación solamente podrá merecer algún aprecio de sávios�. Se trataba deuna obra cuyo primer volumen acababa de ser publicado en lengua italiana en Génova, con la protección del Dux, que aceptó la dedicatoria de la obra. �[S]in embargo -añadía Pla- �esta obra se puede llamar con toda razón española, no solo por el Autor, i abundante materia, que a ella suministran las excelentes máximas i acciones de nuestros españoles; pero mui especialmente por ser toda ella una continuada confirmación de su sávia legislación en el antiguo y moderno govierno�(247).

     La curiosidad e interés de Floridablanca por los más variopintos proyectos y obras de economía y política, puesto de relieve de forma patente en el Índice de los papeles (...) que existían en el gabinete y librería del Señor Conde de Floridablanca(248), le llevó a anotar de puño y letra en la minuta para la respuesta: �Deseo ver esta obra�, pero pasaron algunos días, sin que fuera localizada hasta la noche del 25 de septiembre, pues, al parecer se había traspapelado en la Secretaría, junto con una carta de Juan Cornejo, fechada el 8 de septiembre, en la que el Ministro de España en Génova remitía el primer tomo de la obra redactada por el P. Pla.

     D. Juan Cornejo es un curioso personaje, cuya mediación y recomendaciones resultaron en ocasiones importantes para inclinar el ánimo de Floridablanca en favor o en contra de las peticiones de los exjesuitas residentes en aquella �Ligústica Dominante�. Ministro de España en Génova desde 1766 hasta 1789 tenía sobrada experiencia y conocimiento acerca de los escenarios de la península italiana, donde prácticamente se había criado(249). Cornejo se hizo famoso en la Secretaría de Estado por su estilo epistolar barroco, rebosante de hipérboles, retruécanos y superlativos, que alcanzaba cotas líricas en las minuciosísimas descripciones de los fastos sociales genoveses. Una de sus muletillas epistolares serviría de chacota entre los propios covachuelistas madrileños, Floridablanca incluido, quienes, cuando recibían correspondencia vacía de contenido, solían parafrasear a Cornejo diciendo: �nada hay en esta Ligústica Dominante que merezca la extrangera curiosidad�(250). [120]

     Don Juan, en virtud de su puesto diplomático, actuó como correa de trasmisión e intermediario de muchos de los pedimentos y solicitudes de los jesuitas y ex-jesuitas que se establecieron en Génova, y entre ellas de las del abate Francisco Pla, con quien mantenía cordiales relaciones, y a quien presentaba como uno de los ex-jesuitas españoles �a quien estimo particularmente por su experimentada modestia, y mansedumbre�(251).

     La obra fundamental de Francisco Pla fueron las Lezioni di Politica, In cui si propone al Pubblico un facile, e giusto metodo de instruire la nobile giuventù nei principi, e nei diversi impieghi, e doveri del governo politico. Dedicate al Serenissimo Giambatista Ayroli, Doge della Serenissima Reppublica di Genova. Dall'Abate Francesco Pla(252), cuyos tres primeros volúmenes se publicaron en Génova entre 1783 y 1786.

     La correspondencia de Pla con el Ministro de Estado, Conde De Floridablanca, viene a confirmar la opinión de Sommervogel, desmintiendo la duda que Palau Dulcet expresaba acerca de no haber aparecido nunca más que el primer tomo publicado en 1783(253).

     Pla remitió el primer volumen de su obra a Floridablanca el 5 de septiembre de l783(254) y, pocos meses más tarde, el 20 de noviembre, escribía el abate Francisco:

     �Antes de dar a luz el segundo tomo de mi obra, que trata del Comercio Político, es de mi obligación hacer presente a V.E., a tenor de la carta con que acompañé los libros, que en lengua castellana tuve la honra de presentar a V.E., que el ejemplar italiano, siguiendo el método de la obra, tratará solamente de la Práctica del Comercio, bajo de principios generales, y sin individualizar los resultados, que convienen en particular a cada una de las naciones; de cuyas miras, y fines en esta parte (... ) se verán con todo en este libro más claramente los verdaderos principios, y su origen�(255), suplicando de nuevo al Ministro su protección, tras dedicarle los preceptivos y rimbombantes panegíricos como principal [121] impulsor de �las sábias disposiciones, que en estos últimos años ha tomado S.M. a influxo de V.E. para que en ella florezcan las buenas artes�.

     El objetivo declarado por el autor para este segundo libro -además del patriótico �deseo grande que tengo de contribuyr, en quanto llegan mis cortas fuerzas, al bien público�- era el de proponer �a nuestros jóvenes los sólidos Principios de economía que conducen al poder y grandeza de las naciones; los quales si bien les han sido ya explicados por personas doctas, y graves de nuestra nación, no parecerá inútil los vean aora de nuevo confirmados por otro, no con la recomendación de la dignidad y doctrina, que para ello se requiere, sino con sola la de la sinceridad, y buen deseo, y la que lleva consigo aver vivido por espacio de once años en una plaza de comercio de las más célebres de Europa. Esto me ha facilitado el poder hacer algunas observaciones importantes fundadas en las especulaciones y planes de comercio de los más acreditados negociantes de todos Estados�(256).

     Sin embargo, Floridablanca tampoco prestó en esta ocasión la protección económica que el padre Pla le demandaba implícitamente, y éste tuvo que correr también con el peso de la edición del segundo volumen, que salió finalmente de las prensas genovesas en el verano de 1784.

     El 2 de agosto, don Juan Cornejo remitió el segundo tomo de la obra política del P. Pla, junto con una carta del abate, quien, tras agraceder �la benignidad� con que Floridablanca había honrado el primer volumen de sus Lecciones de Política, le hacía presente �la estrechez y circunstancias de [su] estado�, a la par que solicitaba, ya de forma expresa, alguna ayuda de costa que le permitiese continuar la obra �en utilidad de la juventud�(257).

     El 7 de febrero de 1785, Pla anunciaba al Secretario de Estado que se disponía a imprimir ya el tercer volumen de su obra, �que trata del Govierno Civil�, pero que la empresa sobrepasaba sus posibilidades, puesto que solo gozaba de la pensión simple que se les había asignado a los jesuitas expulsos desde 1767.

     Floridablanca consultó entonces con el Director de las Temporalidades, Juan Antonio Archimbaud y Solano, quien, en abril de 1785, informó en contra de la conveniencia de otorgar al P. Pla doble pensión por las dificultades de tesorería, porque sería necesario consignar un capital de 16.666 reales, 22 mrvs, que al 9 % de interés, producirían los 1.500 reales anuales que representaba duplicar la pensión. Sin embargo, Archimbaud, consideró que, puesto que �sus tareas literarias le hacen acreedor a los benignos efectos de la clemencia de S.M.�, podría socorrérsele con 4 o 6.000 reales por �una vez�, para que concluyese el tercer tomo de su obra(258). [122]

     Floridablanca le concedió 3.000 reales de ayuda de costa, por una sóla vez, pero con calidad de ser una concesión provisional �por ahora�, y Pla se apresuró a agradecer cumplidamente la dádiva el 13 de mayo de 1785.

     No había trascurrido un año cuando Cornejo remitió el tercer tomo de las Lizioni�(259). En el memorial, más que carta, que adjuntaba de F. Pla se encomendaba el tomo recién publicado a la �benignidad de S. M�, se hacía referencia a la �penosa enfermedad, y debilidad extrema� que había padecido durante tres meses, y se comunicaba que, recobradas las fuerzas, estaba dando ya �la última mano para la impresión de los otros [tomos] que se siguen, de los quales el primero trata de la Religión y Educación de los pueblos; y el segundo de la Razón de Estado, los quales ya desde ahora postro rendidamente a los pies de V.E. suplicándole humildemente se digne admitirlos bajo su poderoso amparo (...) y a éste fin publicar quanto antes pueda el otro libro, que prometo en el Discurso Preliminar desta Obra, y contiene la Descripción Política del Govierno de España desde los Reyes Católicos hasta el presente reynado�.

     También se cuidó Pla de hacer patente al Ministro que, en la nota 175 del tercer tomo, hacía referencia expresa al papel protagonista desempeñado por Floridablanca en las �las extraordinarias, importantes empresas, conque en estos últimos años se ha hecho tan célebre nuestra España por todo el Mundo; así en él ofrece un dilatado campo a la memoria y gratitud nuestra las savias providencias, cuydados y desvelos, con que V.E. le ha procurado tan singular gloria�(260).

     Esta vez, Floridablanca sí correspondió a la tenacidad de Pla al ordenar se le concediese doble pensión, a percibir desde el 1 de mayo de ese mismo año 1786.

     Pero la actividad de Pla no quedo sólo en la dimensión teórica relacionada con su obra Lezioni di Politica, ni en su proyecto acerca de escribir una Descripción Política del Govierno de España desde los Reyes Católicos hasta el presente reynado�(261).

     Al principio de la exposición hicimos ya referencia al opúsculo remitido en 1778, en que analizaba comparativamente los intereses mercantiles de las potencias europeas. Pero el ánimo proyectista del abate Francisco se extendió también a una de las cuestiones centrales de la teoría y acción políticas de la España de Carlos III: la repoblación del reino y fomento de su agricultura. [123]

     De acuerdo con su propio testimonio, en 1775 había comenzado el exjesuita a elaborar un Plan de la Población General de España, que, desempolvó en 1786 con él anirno de contribuir al bien del Estado y, particularmente, como muestra de agradecimiento por la concesión de la pensión doble(262).

     Los planos y proyectos de repoblación cuentan con una larga historia en la España del siglo XVIII(263). Con todo, el arquetipo -el buque insignia- de la política carolina en este sentido fueron los faraónicos planes de Sierra Morena capitaneados inicialmente por Pablo de Olavide, bajo la protección del Conde de Campomanes. Planes bien concebidos, que se basaban en magnos procesos de ocupación territorial mediante la construcción de pueblos enteros.

     El Plan de la Población General de España presentado ahora por el abate Pla era, en realidad, un breve proyecto de apenas 14 páginas, en el que se proponía una alternativa al principal modelo gubernamental. Defendía su autor la conveniencia de llevar a cabo una colonización del territorio mediante el diseño de un hábitat disperso, que podría corresponder a la idea arquetípica de la campiña catalana o, como el propio Pla comentaba en su proyecto, podía estar inspirado en los modelos que él mismo había observado en Saboya, el Genovesado y las regiones alpinas(264).

     Partiendo de concepciones económicas muy próximas a los principios tradicionalmente atribuidos a los fisiócratas(265), proponía, en definitiva, apostar por la colonización del territorio mediante el establecimiento de �casas de campaña�. Imbuido de la convicción de que la �población por medio del establecimiento de las casas de campaña es siempre, en general, la más fácil, segura y permanente�, consideraba que era un error demostrado por la experiencia �juzgar que las tierras estériles se pueden poblar construyendo en ellas muchas habitaciones unidas y que formen un lugar�, por los enormes gastos que al Estado acarreaba llevar a la práctica ese tipo de programas, como parecía demostrarlo, aunque sin mencionarla de manera expresa, la polémica empresa de Sierra Morena. [124]

     Sentados estos principios, o �máximas�, Pla resumía en apenas ocho artículos, profusamente anotados, su modelo repoblador. El proyecto del abate estaba dirigido fundamentalmente a la repoblación de tierras de naturaleza árida y que estuviesen en manos de grandes propietarios, basado en el supuesto del interés mutuo, y confiando en una idílica colaboración entre éstos últimos y las familias colonizadoras. Consideraba el abate que, en caso de optar por un régimen de cesiones en arrendamiento debían prevalecer las formas acostumbradas en cada región o, en caso contrario, establecer un régimen de partición de cosechas que fuese beneficioso para los colonos más pobres.

     Pla atendía más a los detalles técnicos y urbanísticos que al fondo jurídico y económico de los problemas que presentaron otros planes de colonización basados en la confianza en la iniciativa privada.

     Así, por ejemplo, señalaba el P. Pla que, en aquellas tierras que se desease colonizar, se deberían construir casas que estuviesen �distantes una de otra en su formación a lo menos un quarto de legua; porque una vez que estén bien establecidas las familias, se multiplicarán e unirán insensiblemente entre sí�. Cada una de ellas estaría dotada de �una cisterna capaz para la comodidad de las personas y de los animales que han de estar en ella y una pequeña balsa al descubierto rodeadas de los árboles más frondosos, que crían las tierras�.

     En consecuencia con estos planteamientos anteriores, proponía que �los tejados sean muy rápidos y en donde las huviere cubiertos con pizarras�, o que se realizaran las obras necesarias de construcción de canalizaciones para aprovechar la escorrentía de las aguas en las montañas o colinas próximas, como era una práctica habitual en los territorios semiáridos de clima mediterráneo. También se preocupaba Pla por prevenir que las fachadas principales se orientasen bien hacia el Levante, o bien hacia el Poniente, con el fin de evitar las impetuosas borrascas del Norte y el Mediodía, facilitando su ventilación y que tuviesen �todo el día una luz viva y moderada�.

     A los propietarios de las tierras correspondería sufragar los gastos de estas construcciones, instalar en cada casa una pareja sana, cuya edad no superase los treinta años, y proporcionarles �4 gallinas y un gallo, y un cerdo pequeño (...) [y] los instrumentos y animales de labranza, según la calidad del terreno, como los granos y simientes correspondientes al mismo en la forma que nos conviniere�(266) [125]

     Los propietarios tendrían derecho a percibir los gallos que fueran naciendo, mientras a las familias tocaría el aprovechamiento de los huevos y la propiedad de �las pollas�. También deberían percibir la mitad de los productos del cerdo al llegar el tiempo de la matanza, o a la mitad de las crías en el caso que se les hubiese proporcionado una pareja de porcinos.

     Igualmente, si la familia establecida �fuere tan pobre, que ni aún tuviere el sustento necesario para pocos días, será indispensable que el propietario le adelante lo necesario para su mantenimiento, y cobrará su importe con cuenta y razón de la cosecha� (...) �de manera que se satisfagan los propietarios de poco en poco, en consideración de las cosechas, y de la necesidad de las familias�.

     Respecto a la concepción de los servicios urbanísticos, el Plan consideraba imprescindible la construcción de un núcleo central, a no más de media legua de la casa más distante, en el que se agruparían las habitaciones del cura, del alcalde y un mesón. Al obispo diocesano correspondería la construcción de la casa del cura y de un oratorio, quedando obligado el sacerdote a �decir misa todos los días, asistir a los enfermos, administrar los sacramentos, instruir las familias y adoctrinarlas(267)�, quedando los feligreses exentos de canones eclesiásticos por bautizos, matrimonios, entierros, etc.

     Al rey correspondería atender a la construcción de la casa del alcalde �que administre la justicia en cada una de las poblaciones�, así como la de los mesones -es decir, de las tiendas de vituallas- en caso de no hacerse cargo de ello los propietarios de las tierras. Para el primer supuesto, proponía un régimen de arriendo a �personas industriosas�, cuyo importe contribuiría a resarcir a la real hacienda del empeño, pues a su mantenimiento futuro consideraba debían consignarse parte de �los depósitos de las iglesias antiguas del reyno, cuyo fin se ignora, o con varios pretextos no se cumple�.

     Preveía, así mismo, la conveniencia de construir casas en las riberas más salubres de los ríos y lagunas, �haciendas [que] serán de indecible utilidad al Estado; así porque la comodidad de travesear todo el día por las aguas inclinará a los niños a la navegación, y a la pesca; como más principalmente porque la continua observación de los ríos sugerirá a sus habitantes las industrias necesarias para utilizarse de las aguas�.

     Por último, se refería sucintamente a un mecanismo de control de las obligaciones de los propietarios que recaería sobre �las ciudades de cuya jurisdicción fueren�, teniendo éstas facultad para �suplir el defecto dellos, y percevir el producto de las cosechas�.

     En resumen, nos encontramos ante un esbozo de proyecto voluntarista, inspirado probablemente en el paisaje del norte de Italia, del genovesado o de [126] Cataluña, pero desconocedor de las realidades de los procedimientos colonizadores. La benigna confianza en el carácter benefactor de los propietarios se vió con frecuencia desmentido por las draconianas condiciones que pretendieron imponer a los colonos en otros planes de repoblación, basados, bien en el fuero alfonsino, como ha puesto de relieve el profesor Primitivo Pla(268), bien en prácticas especulativas de grandes empresas comerciales, como recientemente ha demostrado el profesor Enrique Giménez(269). No puede extrañar, por consiguiente, que el Ministro Floridablanca anotase en el margen del interesante, pero ingenuo, proyecto de Pla: �Para divertirse en San Ildefonso�.

APÉNDICE DOCUMENTAL.

Plan de la Población General de España.

     Siendo muy difícil la erección de grandes poblaciones en algunos territorios por los grandes gastos que ocasiona su establecimiento, o por la aspereza y situación de las tierras en que se fundan, o por una cierta combinación de circunstancias, que hace de ordinario inútiles y sin fruto la más próvidas y prudentes deliberaciones, me ha parecido será útil en esta parte dar una nueva forma, y añadir algunas observaciones al Plan de la Población del Reyno por medio de casas de campaña, que proyecté en el año 1775, y tengo la honra de presentar con la mayor veneración y rendimiento a V.E.

     Y a fin de que mejor se conozca la solidez de los principios en que se funda, pongo aquí algunas másimas fundamentales de economía, las quales, aunque las saben bien todos los políticos, servirán para facilitar mucho su inteligencia, y al mismo tiempo para dar mayor fuerza a los resultados. Las másimas de que hablo son las siguientes:

     1�. -Las tierras despobladas, y por consiguiente sin cultivo, sirven de carga, y no son de utilidad al Estado. La razón es que, porque ellas igualmente que las otras, requieren un gran número de personas para su govierno, adminis//tración y defensa; y en nada contribuyen por falta de hombres y de producciones a los gastos, que para su mantenimiento ha de hazer el Estado (a(270)). [127]

     2�. -En los grandes reynos, en los quales hay muchos propietarios que poseen territorios dilatados y distantes del lugar donde ellos residen, es del todo necesario el establecimiento de las casas de campaña, no sólo para su población, sino también para su cultivo.

     3�. -El camino más breve, fácil y seguro para que los Estados cuya situación abraza grande extensión de fértiles y abundantes tierras lleguen al mayor poder y fuerza es sin duda su población y cultivo (b(271)). //

     4�. -Es un perjuicio en punto de economía persuadirse que la industria y el comercio son el origen en dichos Estados de la población y agricultura. Es verdad, que aquellas cosas las fomentarán siempre y mantendrán vigorosas; pero la experiencia nos enseña que la fertilidad de las campañas atrae y multiplica los hombres. La población al paso que va creciendo excita más la industria; y quando llega a ser tal que los habitantes no pueden ya vivir con comodidad en las tierras donde han nacido, buscan sustento en las poblaciones vecinas; y no hallándolo en ellas, buscan en otro elemento países distantes, en donde saciar sus deseos (a(272)).

     5�. -No hay territorio por áspero e inaccesible que parezca, el qual no pueda suministrar la habitación y alimento necesario para una o algunas familias industriosas. Esto deben confesar todos los que hayan observado las habitaciones regulares que se hallan en muchas partes de la Saboya, del Genovesado y de los Alpes. //

     6�. -La población por medio del establecimiento de las casas de campaña es siempre, en general, la más fácil, segura y permanente (a(273)). Y esto por tres razones. La l� porque no ocasiona gastos a los goviernos en su fundación y mantenimiento. La 2� porque es de grande utilidad a los propietarios de las tierras y a las familias que en ellos se establecen. La 3�porque aumenta notablemente las producciones. Esto supuesto, y que prueva la necesidad de la mayor población posible en el Estado, y en la forma más conveniente, y provechosa; como es muy difícil, y aún tal vez dañoso a los habitantes mismos de la población continua por medio de grandes lugares, será siempre la mejor la que se forma de casas separadas entre sí con una moderada distancia de tal manera que compongan una continuada habitación de un lugar a otro; no hallándose por este medio//territorio en el qual no se encuentre a un quarto de legua de distancia lugar, población o casa. Y siendo fácil que ellas se construyan en las tierras abundantes y fértiles, no [128] hablaré en este Plan sino de aquellas que, de ordinario, se tienen por ásperas, estériles e inabitables. A este fin, para facilitar más los conocimientos e industrias necesarias para su execución ciño a pocos artículos su establecimiento y práctica.

Artículo 1�

     En las tierras en que se desea un mayor cultivo y población, se construyan casas para algunas familias que las habiten y cultiven en la forma que parecerá más conveniente para su comodidad, y para los trabajos que dichas tierras requieren. Las referidas casas estarán distantes una de otra en su formación a lo menos un quarto de legua; porque una vez que estén bien establecidas las familias, se multiplicarán e unirán insensiblemente entre sí (a(274)).

Artículo 2�

     En cada una de dichas casas se fabricará una cisterna capaz para la comodidad de las personas y de los animales que han de estar en ella (a(275)) y una pequeña balsa al descubierto (b(276)) rodeadas de los árboles más frondosos, que crían las tierras. Los propietarios de dichas tierras costearán todo lo referido a tenor de lo que se dirá en el siguiente artículo.//

Artículo 3�

     Fabricadas en la forma dicha la casa, cisterna y balsa, tocará al propietario de las tierras poner en cada habitación un marido y muger, que no pasen de la edad de 30 años, a los quales proverá de 4 gallinas y un gallo (a(277)), y un cerdo pequeño (b(278)) y de los instrumentos y animales de labranza, según la calidad del terreno, como los granos y simientes correspondientes al mismo // en la forma que nos conviniere (a(279)). [129]

Artículo 4�

     Si la familia que se estableciere de nuevo en las tierras fuere tan pobre, que ni aún tuviere el sustento necesario para pocos días, será indispensable que el propietario le adelante lo necesario para su mantenimiento, y cobrará su importe con cuenta y razón de la cosecha (b(280)).

Artículo 5�

     A media legua de la habitación más distante en la forma expresada en el plan adjunto se formarán tres casas unidas, en las quales tendrán su residencia un cura, un Alcalde y un //

Casas para la habitación de las familias.

Casas para la habitación del cura, del Alcalde y del mesonero. [130]

mesonero con este arreglo. Al Obispo diocesano tocará la fábrica de la casa de dicho párroco en la forma dicha en el artículo 2�, y de un oratorio anexo a ella, en la qual se hallen los utensilios necesarios para celebrar la Santa Misa, y administrar los sacramentos. El referido párroco tendrá la obligación de decir misa todos los días, asistir a los enfermos, administrar los sacramentos, instruirlas familias y adoctrinarlas (a(281)). S.M. tendrá a bien pagar los gastos necesarios para la casa del Alcalde, que administre la justicia en cada una de las poblaciones. Por lo tocante a los mesones (b(282)), si los propietarios de las tierras no quisieren costearlos, ni mantenerlos por su cuenta, podrá S.M. con la misma benignidad hacerlos construir, y arrendarlos a personas industriosas, // que asistan y provean de quanto fuere necesario a las familias.

Artículo 6�

     Todos los que poseen tierras en la vecindad de ríos (a(283)) y lagunas (b(284)) fabricarán casas a una parte y otra de sus orillas en la forma y distancia expresadas en el plan. Lo mismo practicarán los propietarios de los terrenos situados en las embocaduras de los montes y colinas; y generalmente en todos aquellos lugares en los quales es fácil recoger las aguas (c(285)).//

Artículo 7�

     En todas las tierras vecinas a los caminos, en especial a los de mayor tránsito, se construirán casas en la forma dicha; y quando éstas fueren muy distantes de la población grande, o lugar de mercado, se procurará que en alguna, o algunas dellas, se hallen las cosas más necesarias a la vida, y a la mayor comodidad de los que las habitan; y alivio de los caminantes, según queda dicho en la nota al Artículo 5�.[131]

Artículo 8�

     Si alguno de los propietarios fuere omiso en la fábrica de las cosas, o cultivo de sus tierras, podrán las ciudades de cuya jurisdicción fueren suplir el defecto dellos, y percevir el producto de las cosechas en la forma expresada en los artículos 3� y 4�.

     Y a fin que se ponga en práctica quanto queda dicho con mayor provecho de los propietarios y de las familias, se abrirán primero las zanjas para las cisternas y balsas en los lugares destinados, y se plantarán al mismo tiempo los árboles y las simientes que requiere el terreno. Practicadas estas diligencias, se empezará // la fábrica de las casas, procurando que todas, en quanto lo permite la situación, tengan las fachadas principales acia el Levante o Poniente; porque esta formación de edificios es la que más conviene para que ellos sean más permanentes, cómodos y saludables; pues muestra la experiencia, que las borrascas, lluvias y vientos, que tienen su origen de la parte del Mediodía y del Norte son más violentos e impetuosos que de la del Levante y Poniente. Lo que procede del movimiento de las aguas del mar, las quales tienen su curso del Norte al Mediodía, como lo pruevan las mareas, especialmente las de las Antillas y de la Baya de Hudson; la situación de los principales continentes y promontorios y las observaciones hechas sobre éste punto en Suecia en el año 1747. A más desto la dicha formación de casas sirve mucho para que ellas se mantengan siempre enjutas, y sean bien ventiladas. Como también para que tengan todo el día una luz viva y moderada.

     Omito otras observaciones, que se podrían hacer en orden a facilitar la introducción de las familias en las // nuevas poblaciones, y la mayor comodidad dellas; por ser notoria la benignísima dignación, con la qual nuestro Augusto Monarca, que Dios guarde, se sirve mirar con paternal benéfico ánimo entre sus principales cuydados el mayor bien de sus pueblos. [133]



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El modelo italiano en la formación de las academias literarias españolas del primer barroco: los �nocturnos� como paradigma

Ángel L. Prieto De Paula

Universidad de Alicante

     El funcionamiento de las instituciones culturales, y la propia articulación social en tiempo de los Austrias, evidencian cómo, al avanzar el siglo XVI, va disminuyendo el policentrismo cultural característico de buena parte de la centuria. La ciudad de Madrid, sede de la corte desde 1561, tardaría en constituirse en la capital �efectiva� del Estado. Finalmente lo hizo en 1606, por decisión del tercero de los Felipes, tras el paréntesis vallisoletano. A partir de ese momento, se acentúa el proceso social aludido, que supone, simplificadamente, el tránsito de un sistema policéntrico a uno concéntrico en torno a la corte.

     El modelo que se abandona se basaba en la existencia de núcleos urbanos relacionados inter pares, cuya especificidad cultural era compatible con la comunidad espiritual del Humanismo, constituido en verdadero concepto de �patria�, por cuanto hermanaba a un humanista de Baeza con uno de Alcalá o de Nápoles. Frente a ello, el sistema emergente propone un canon unitario -y no comunitario-, con la corte como referente fijo para las diferentes ciudades. Funcionan éstas como satélites que, a su vez, reproducen una estructura de dependencia orgánica -satélites de satélites- en la que todo termina remitiendo a su centro. El absolutismo político se proyecta en el terreno social, con la consiguiente recreación en las urbes, y en los cenáculos culturales que en ellas florecen, de los moldes jerárquicos de la corte. La ciudad recoge las señales de una cultura progresivamente �municipalizada�, pues la cultura barroca, según José Antonio Maravali, irradia desde el núcleo urbano hacia los pueblos, y no a la inversa, como frecuentemente se ha afirmado(286). [134]

     A la postre, la dependencia cortesana se traduce literariamente en la absorción por parte de Madrid de muchos ingenios de otros lugares, que recalan en la corte en busca del eco que sólo en ella podían conseguir. Son los casos, entre otros, de Cervantes, de Rioja, de Góngora o de Guillén de Castro. Este desembarco madrileño obligó a muchos a pasar por las horcas caudinas del servilismo ante los nobles protectores que podían proporcionarles empleos, beneficios o canonjías. La proliferación de motivos que parecen sugerir un menosprecio de corte no se corresponde con el hecho evidente de que las ciudades, y Madrid desde luego, atraen a los escritores, lo cual provoca el sin sentido de que, al mismo tiempo que aparecen como enemigos de un statu quo que dicen repudiar, actúan como panegiristas de quienes lo sostienen. Tópicos como el beatus ille, la aurea mediocritas o la vanitas mundi, caracterizados por un encogimiento fetal psíquico y, en sus casos más radicalizados, por el rechazo del contacto con otros hombres, son sólo una reactiva �huida hacia delante� que confirma lo anterior. Así ha de interpretarse, pienso, esa especie de �ermitañismo� literario en escritor tan cortesano como Quevedo, autor de los sonetos que empiezan �Dichoso tú, que humilde en tu cabaña� o �Encerrado en la paz de estos desiertos�, poema el último en que el desdén por los contemporáneos se contrapone a la fruición con que �escucha con sus ojos� -nos dice- a los clásicos de la Antigüedad.

     En este contexto ha de entenderse la constitución de grupos literarios llamados �regionales�, aunque, a mi entender, más que regionales son específicamente ciudadanos. Estas agrupaciones, que por un lado revelan una resistencia a la aludida absorción cultural, creando islas intelectuales respecto a la corte, por otro nos remiten a ese mismo sistema áulico. La diversidad regional es más bien -en un sentido etimológico- �diseminación�: el modelo central se ramifica automiméticamente, en una suerte de horror vacui espiritual que, si en lo social supone la propagación de un sistema cortesano, en lo literario propende a la reiteración artística y a la fosilización retórica.

     Entre las realidades culturales que ejemplifican el proceso referido, ocupan lugar destacado las academias literarias(287). El término �academia� es conceptualmente muy difuso. Referido a la Edad de Oro, tiene fundamentalmente dos acepciones, superpuestas a veces y relacionadas siempre. La primera identifica academia con justa poética organizada circunstancialmente por una tertulia o parnasillo con motivo de algún festejo. La segunda acepción, más restricta y apropiada, entiende por academia aquella agrupación de escritores [135] que, bajo una presidencia acatada o elegida, se rige por unos estatutos que fijan sus actividades, orientación intelectual, calendario de reuniones y cuantas características tengan a bien determinar sus miembros. La identificación terminológica entre justas y academias en sentido estricto se produce mediado el siglo XVII, debido acaso a que para entonces la organización de tales certámenes era ocupación fundamental de las academias. Las auténticas academias literarias comenzaron a extinguirse a mediados del Seiscientos, pese a excepcionales pervivencias. En cambio las justas, más populares por menos selectas, se mantuvieron con algún retoque hasta mucho más tarde. Ni siquiera puede hablarse de desaparición absoluta de las justas, sino de absorción por entidades análogas, como los juegos florales de Barcelona, que, en el marco de la Renaixença del XIX, emulaban los certámenes trovadorescos medievales(288).

     A las justas, con algún eco de los �puys� provenzales, concurrían los más señalados ingenios de la urbe, que competían por un cintillo de oro, un mondadientes de plata, un agnus dei o un guante de ámbar. Los nobles, a menudo, lo hacían �por la devoción� (o sea: sin entrar en liza), para no exponerse a quedar malparados, o para no dar pábulo, en caso de ganar, a las frecuentes acusaciones de favoritismo, e incluso de hacerse con los servicios de poetas que vendían mercenariamente sus versos. Habitualmente, el secretario de las justas redactaba el �cartel� convocador, el �vexamen� y la �sentencia�. El vejamen llegó a constituir una modalidad literaria propia, consistente en pullas burlescas o festivas a los participantes, relacionado quizás con los �gallos� universitarios y los vejámenes que sufrían los candidatos en el ceremonial de la colación de grado(289).

     En la acepción más precisa, las academias son un fenómeno genéticamente renacentista e italiano, con el lejano precedente del jardín de Academos donde filosofaba Platón, a orillas del Cefiso(290). Pero también en España existen asociaciones [136] literarias previas a la eclosión renacentista, que modelan un cierto espíritu académico: los talleres de Toledo y Sevilla en el reinado del rey Sabio; el consistorio barcelonés de la Gaya Ciencia a fines del Trescientos, que recrea los juegos florales organizados, a partir de 1324, por la Sobregaya companhia dels set trobadors de Tolosa; los parlaments o col�lacions de Valencia(291), reflejados en obras contemporáneas como Spill, de Jaume Roig; y las academias arábigo-andaluzas o las tertulias aristocratizantes de la corte de Juan II o del Magnánimo, estudiadas por Cotarelo al fijar precedentes de la R.A.E.(292) Renacentistas son ya las reuniones estudiantiles en las escuelas de jesuitas para fomentar la disputa intelectual y el arte del razonamiento, aunque, por razones cronológicas, no deben ser consideradas modelo de las academias españolas(293).

     El modelo inmediato de estas reuniones se forjó, como se ha dicho, en las academias italianas del Quatrocientos. Entre ellas destaca la Napolitana, fundada bajo los auspicios del Magnánimo por Beccadelli el Panormita, a cuya muerte le sucedió en la dirección Giovanni Pontano, de donde tomaría el nombre de Pontaniana. Autores como Eneas Silvio Piccolomini (el futuro Pío II), Lorenzo Valla, o, más tarde, Iacopo Sannazzaro o Pietro Bembo, entre otros, señalan la importancia de la misma. La literatura española, por lo demás, debe a algunos de sus miembros mucho de lo que aprendiera Garcilaso en su destierro napolitano. La Accademia Fiorentina de Marsilio Ficino y Pico della Mirandola, constituida bajo la protección de Cosme de Medicis a mediados del XV, supuso la fijación del primer modelo académico, predominantemente filosófico y sin rigidez normativa. Las academias de la primera mitad del XVI instauran el modelo de las academias regladas, o segundo modelo académico, con prolijos estatutos, cargos presidenciales -cuyos nombres pasarían a las academias españolas-, preterición de la discusión filosófica y, en fin, dedicación preferente a los juegos intelectuales de salón, a las gratuidades de la casuística y a los chispazos del ingenio. Entre las numerosísimas y generalmente irrelevantes academias italianas del XVI -Insipidi de Siena, Insensati de Perugia, Gelati de Bolonia...-, la de la Crusca o �furfuratorum�, de Florencia (fundada [137] en 1582), realizó una extraordinaria labor en pro de la pureza de la lengua, en la dirección que seguirían la Academia Francesa, en el XVII y la Real Academia Española, en el XVIII.

     El dechado académico italiano se difundió en España a través de Il cortegiano, de Castiglione, que encontró en Boscán un espléndido y temprano traductor(294). Enseguida proliferaron las academias en los núcleos urbanos importantes y aun en otros de entidad menor (considérese la irónica función de los académicos de Argamasilla al final de la primera parte del Quijote), y muy pronto atraviesan el Atlántico. Las primeras academias conocidas están en la divisoria entre el conciliábulo natural y la reunión organizada. Dicho de otro modo: antes de que existieran academias reglamentadas había espíritu académico, alimentado en el gusto por la conversación, como se refleja en obras construidas a modo de tertulia literaria a lo largo del siglo XVI(295).

     Son numerosas las tertulias del XVI no formalizadas estatutariamente. Aludo, entre otras, a la salmantina Academia Doméstica, del Duque de Alba, o a la sevillana de Hernán Cortés, hacia 1545, o a los grupos también sevillanos de Mal Lara, Conde de Gelves, Francisco Pacheco el tío o Juan de Arguijo... De fines del XVI, momento en que el modelo académico aparece ya constituido, es la madrileña Academia Imitatoria (1586), de la que deja constancia Juan Rufo en Seiscientos apotegmas, la misma a la que seguramente se refiere Cervantes en El coloquio de los perros (1613) con el nombre de Academia de los Imitadores. Madrileñas son, también, la Academia de los Humildes de Villamanta (1592), y, ya del XVII, la del Conde de Saldaña y la Academia Selvaje. Numerosas fueron asimismo las academias en Aragón, y en Zaragoza particularmente; citemos la Academia de los Anhelantes, de fines del XVI; o la Pítima contra la Ociosidad (1608). Toledana era la del Conde de Fuensalida (1602), granadina la dirigida por Barahona de Soto. A las academias valencianas, la de los Nocturnos en especial, me referiré más adelante. Fuera del marco peninsular, Lupercio Leonardo de Argensola fundó la napolitana Academia de los Ociosos (1611), bajo protección del Conde de Lemos, virrey de Nápoles. A la misma afluyeron, además de los Argensola, Guillén de Castro, Saavadra Fajardo y Villamediana(296). [138]

     Capítulo aparte merecen las llamadas por José Sánchez �academias ficticias�, recreaciones literarias efectuadas por autores del XVIII(297). Willard F. King alude a la muy fecunda relación entre academias y prosa novelística, como lo indican los nombres de Salas Barbadillo, Suárez de Figueroa, Castillo Solórzano, Juan de Zabaleta, Antolínez de Piedrabuena, Gabriel del Corral, Francisco Santos, Polo de Medina, Pedro de Castro... y, ocasionalmente, Cervantes, Vicente Espinel o Gracián(298).

     El interés principal de las academias radica en que nos presentan una imagen abreviada del mundo de la época. El espíritu académico se relaciona con una cultura ciudadana, en que los caracteres gremiales se imponen sobre los específicos de cada autor. En este sentido, prima lo gregario. De ello provienen los juicios negativos -a veces fronterizos entre lo negativo y lo positivo- que se han vertido contra las academias, desde entonces a hoy; diversos autores del momento (Cristóbal de Mesa, Salas Barbadillo, Vicente Espinel, etc.) señalaron, a más de las deficiencias artísticas, la proclividad de tales reuniones a las envidias, murmuraciones y mezquindades. Pero ello no significa que los grandes escritores -Lope, por citar sólo uno- diesen generalmente la espalda a tales instituciones.

     En los años de formación, las academias canalizaron diversos estímulos intelectuales, y tuvieron cierta capacidad resolutiva en la política cultural. El trato y conversación de hombres ilustrados complementaban la tarea de las universidades -más vertical: de maestro a discípulos-, o la sustituyeron donde éstas no existían. La función de las academias tiene que ver con la alimentación endogámica de los núcleos literarios urbanos, en un momento de creciente profesionalización de los escritores. Al mismo tiempo, reflejan la inserción del micromundo cultural en el universo ciudadano y suponen, en fin, un modo de diversión honesta y de distracción del ocio. Para la profesora Aurora Egido, la academia �se convierte en un habitat en el que refugiarse, complementarse, reconocerse entre iguales�(299).

     Pero no creo procedente hablar de sistema académico como si tratásemos de una realidad ucrónica o estática. El propio sucederse de las academias marca las fases de un proceso biológico con diferencias perceptibles. Las primitivas tertulias aparecen inclinadas, según el modelo italiano, al saber filosófico (muy contaminado de neoplatonismo) y a la armonización dialogística de las discrepancias. A fines del XVI las academias se rigen ya por unos estatutos que las [139] conducen a la ritualización, aunque excepcionalmente se perciba aún la pretensión de un saber unitario e integrador. Las reuniones del XVII muestran el fin de un proceso en que el espíritu académico termina ahogándose en su compleja liturgia: cargos, pseudónimos, disfraces, divisas, aplausos... El fervor humanístico del comienzo cede paso al bizantinismo erudito o a la banalidad como sistema. Cuando la estética manierista hace que el petrarquismo encalle en su misma obviedad, la actividad literaria quedará abocada a un acucioso furor ingenii. En tal situación, las academias presentan una estructura intelectual anquilosada y a veces trivial, supeditada al poder político y asfixiada en el formulismo inherente a su envarado funcionamiento. Es éste el momento en que tales agrupaciones evolucionan temáticamente hacia campos distintos, como la física, la medicina o las ciencias ocultas.

     Aunque la progresiva burocratización de estas tertulias no llegara en España al extremo de la estatalización del régimen académico, como en la Francia del cardenal Richelieu, sí existe un proceso de sometimiento cultural. Sólo excepcionalmente se observan algunos atisbos de crítica social, muy atenuados por el alambicamiento formal y la presentación elusiva o enigmática. También en lo religioso prevalece la ortodoxia, dentro de un contrarreformismo de ostentación litúrgica, como se desprende del vínculo entre academias y fiestas eclesiásticas. Resulta significativa la concepción del ejercicio literario como una técnica que, en cuanto tal, era moralmente neutra, y admitía aplicación a cualesquiera tesis que se quisieran defender. Muchas de las composiciones leídas en las sesiones tienen una doble dirección temática o moral, lo que indica su arbitrariedad �esteticista�. Lo importante, como en la sofística, es el virtuosismo del razonamiento y la agudeza verbal con que éste se expresa. Así pues, bajo la sumisión acrítica a la ideología dominante se percibe un relativismo interior y un perspectivismo moral que convierten los poemas en revestimiento de tópicos tanto más precisados del ingenio de los autores cuanto mayor fuera su grado de lexicalización.

      Lo dicho se relaciona con el carácter de divertimento y ludismo intelectual que impera en las academias, donde cobran carta de naturaleza criptogramas, emblemas, charadas, empresas y enigmas, en el marco de la relación clarividentemente estudiada por Aurora Egido entre poesía y artes plásticas, teatralidad barroca y emblemática(300). Los medios de transmisión convencionales de la poesía áurea, que estudiara Rodríguez-Moñino(301), se combinan con procedimientos murales y visuales, casi caligramáticos: poesía, en suma, para ser leída en sucesión, pero también contemplada en simultaneidad como un cuadro, y, por supuesto, para ser oída. El arte literario es, antes que literario, arte. El ejemplo de Alciato, a quien comentó Mal-Lara, cuajó con fuerza en España. En la confluencia de lo literario y lo pictórico, la emblemática presentaba [140] un tejido de acertijos y metáforas a cuya verdad central había que acceder desde los supuestos de un saber topificado.

     El análisis de una academia en concreto, la de los Nocturnos valencianos, permite conocer caracteres fácilmente extrapolables a otras academias. Pero haré antes algunas consideraciones socioculturales sobre la realidad valenciana que posibiliten el entendimiento del marco en que funcionó.

     Tras la política mediterránea de Alfonso el Magnánimo, Valencia había suplantado a Barcelona como piedra angular de la corona y sede del último fulgor de las letras catalanas, que entran en un proceso vertiginoso de declinación. Martí Grajales da una fecha como epílogo de la literatura en valenciano: 1532, año en que se celebró en la iglesia de Santa Catalina Mártir el último certamen poético de cierta importancia en esa lengua, organizado por Jerónimo Sempere, futuro autor de La Carolea, en castellano por cierto(302). Nadie lo hubiera predicho en 1490, fecha de publicación en Valencia del Tirant, de Joanot Martorell. No considero casual que la primera edición de Ausiàs, cuñado de Martorell, en 1539, se acompañara de versión castellana de Baltasar de Romaní.

     En este ámbito de castellanización valenciana, Valencia gozó, con Zaragoza y Barcelona, de extraordinaria pujanza editorial en la Corona de Aragón. Allí se había impreso, en 1511, el luego reeditadísimo Cancionero general. En Valencia había florecido buena parte de la épica renacentista, civil y sobre todo religiosa. Notoria resulta también la profusión editorial valenciana de las novelas de pastores, firmadas por Montemayor, Alonso Pérez, Gil Polo, Gaspar Mercader o Suárez de Figueroa, en una evolución del bucolismo neto a un bucolismo espurio, mera prolongación de lo cortesano. Gran interés tienen las dos promociones dramáticas valencianas -parcialmente coincidentes con la nómina de los Nocturnos-: la primera, que no recibió plenamente la influencia de Lope, quien durante su período valenciano maduraba aún su fórmula dramática, nucleada en torno a Rey de Artieda y Cristóbal de Virués; la segunda, que llegó a tiempo de convertirse al �arte nuevo de hacer comedias�, formada por coetáneos de Lope, como Gaspar de Aguilar o Guillén de Castro; como puente entre ellas, Tárrega. El Apologético de las comedias españolas (1616), de �Ricardo de Turia�, testimonia el arraigo de una fórmula que, excluido Madrid, encontró en Valencia el impulso territorial más importante.

     Al constituirse la Academia de los Nocturnos, Valencia, a la sazón de unos sesenta mil habitantes, se engalanaba asiduamente con celebraciones y justas, en perfecta simbiosis entre religión, política y literatura(303). Los motivos sobraban: en 1600, la llegada de una costilla y un trozo del sudario de San Vicente Ferrer; en 1602, la canonización de San Raimundo de Peñafort; en 1599, del 18 [141] al 25 de mayo, las bodas de Felipe III con doña Margarita de Austria, entre fuegos de artificio, toros, encamisadas, juegos de cañas y decorados concebidos como una auténtica máquina de asombrar(304).

     De los vates valencianos, protagonistas de estas fiestas, dan cuenta esos �poemas sobre poetas� del gusto de la época. extensos ringleros de nombres muchos de ellos hoy olvidados: �Canto de Turia� de Gil Polo, inserto en su Diana enamorada; �Laurel de Apolo�, de Lope de Vega; el cervantino �Canto de Calíope�, incluido en La Galatea; o el también cervantino Viaje del Parnaso, cuyo capítulo III da cuenta de la florescencia poética valenciana, y ofrece una nómina casi exhaustiva de los Nocturnos: Luis Ferrer, Guillén de Castro, Cristóbal de Virués, Rey de Artieda, Gaspar de Aguilar (a quien Cervantes llama erróneamente Pedro de Aguilar)... Ironiza Cervantes sobre la hiperabundancia poética valenciana, cuando afirma que Mercurio cerró las puertas de la galera al �tropel de gallardos valencianos�, y da la razón a seguido: �Y fue porque temió que no se alzasen, / siendo tantos y tales, con Parnaso, / y nuevo imperio y mando en él fundasen�.

     Muestra de la riqueza aludida es la Academia de los Nocturnos, que celebró en total ochenta y ocho reuniones, entre el 4 de octubre de 1591 y el 13 de abril de 1594, en tres períodos sucesivos: de octubre de 1591 a mayo de 1592; de octubre de 1592 a marzo de 1593; de octubre de 1593 a abril de 1594. Nocturnos, pues, e invernales. En la liturgia de sus reuniones se percibe el afán de poblar una soledad provinciana con actividades que tienen que ver con el poema circunstancial, el virtuosismo técnico o la ostentación erudita.

     La Academia de los Nocturnos mantuvo a lo largo de su funcionamiento un rigorismo burocrático que acaso oprimiera la espontaneidad creadora, pero [142] que nos ha permitido tener acceso a sus intimidades, gracias a que las intervenciones habidas, sesión tras sesión, quedaron escrupulosamente fijadas en sus correspondientes Actas, por mano del Secretario. Cierto es que a veces de alguna composición queda la sola constancia de que se encargó, sin que se recoja la literalidad de la misma, quizás porque nunca se compuso o no se leyó en la sesión correspondiente, o a la censura del Presidente. Precisamente éste enmendó parcialmente el manuscrito cuando, en 1603, solicitó privilegio de edición de las Actas junto a las Justas poéticas hechas a devoción de D. Bernardo Catalán de Valeriola. Pero ha habido que esperar hasta nuestros días para que se afronte la primera edición crítica de las Actas, a cargo de los profesores José Luis Canet, Evangelina Rodríguez y Josep Lluís Sirera(305).

     Las Actas se inician con unas �Instituciones� en que se registran los estatutos de funcionamiento. A la cabeza de las mismas figura el siguiente párrafo, en que aparece la consabida y tópica receta horaciana del utile dulci:

                No está tan olvidada la virtud en los coraçones de los hombres que, en el verano de su juventud, no produzga alguna vez el fruto de los buenos exercicios, y assí nosotros, siendo los ingenios medianos d'esta çiudad, queremos instituhir y fundar una particular Academia, que havido buen acuerdo y consejo, la determinamos llamar de los Nocturnos, donde se cultiven los entendimientos de todos, procurando así en las ordinaciones como en el exercicio d'ellas mesclar lo dulle con lo provechoso...(306)           

     Las aludidas �Instituciones� muestran la organización jerárquica de la Academia, en cuyo estrato superior está la nobleza. Los Nocturnos se reunían una vez por semana, los miércoles por la noche normalmente. El noble en cuya casa se celebraban las sesiones es el Presidente de la Academia, don Bernardo Catalán de Valeriola (1568-1608), personaje de gran importancia en el bullebulle [143] cultural de Valencia a finales del XVI, antes de su marcha como corregidor a León, donde permaneció hasta su muerte. Un Consiliario nombrado por el Presidente le ayudaba a distribuir las tareas y recibir o despedir académicos. UnPortero tramitaba las solicitudes de ingreso ante el Presidente, que decidía tras escuchar al Consiliario y a todos los académicos, quienes votaban ad aurem. El Secretario, como se ha señalado, registraba las intervenciones en el libro de la Academia, custodiado en casa del Presidente. Éste podía nombrar su sustituto ocasional por ausencia propia, dar o negar el visto bueno a las composiciones que habrían de leerse, así como resolver las llamadas en las �Instituciones� �cosas de menos importancia� (aunque en rigor no careciesen de ella); así lo especifica el capítulo X de las mismas:

                Item, por cuanto no será bien que el señor Presidente, para las cosas que son de menos importancia, como son: mudar ex causa los días de la Academia, nombrar Consiliario, Secretario y Portero, tenga necessidad de consultallo con los demás académicos, le otorgamos entero poder y facultad para que lo pueda ordenar y hazer como su gusto fuere, y mudar los dichos officiales a su voluntad, sin consulta ninguna y, faltando alguno de ellos, poner en su lugar a quien fuere servido(307).           

     Cada uno de los miembros de la Academia de los Nocturnos tenía un nombre poético alusivo a la hora y circunstancias de las reuniones: �Silencio� (Bernardo Catalán, Presidente), �Miedo� (el canónigo Francisco Agustín Tárrega, Consiliario), �Descuydo� (Francisco Desplugues, Secretario), �Sosiego� (Miguel Beneyto, Portero), �Sombra� (Gaspar de Aguilar), �Relámpago� (Gaspar Mercader), �Secreto� (Guillén de Castro), �Centinela� (el capitán Rey de Artieda), �Recelo� (Carlos Boyl), �Norte� (Luis Ferrer), etcétera. No todos los citados se incorporaron en el momento fundacional; algunos (Boyl, Mercader, Guillén de Castro, Rey de Artieda, Luis Ferrer...) lo fueron haciendo sucesivamente, cuando ya las primeras sesiones habían tenido lugar. Los más de ellos sólo interesan en cuanto que elementos integrantes de la Academia. Otros, en cambio, son de gran importancia tanto por su labor dramática, dentro del rico panorama de la comedia áurea, como por su poesía. Sin duda el canónigo Tárrega es uno de los nombres de mayor trascendencia, en su vertiente de comediógrafo y de ambientador cultural de la ciudad, como secretario habitual de justas y certámenes.

     De una sesión para otra el Presidente nombraba lector a uno de los académicos, el cual había de preparar una disertación en prosa sobre el asunto que se le encomendase. Esta lección solía ser de carácter erudito, con abundancia de citas y referencias clásicas, y con orientación expositiva y doctrinal. Del abrumador culturalismo de que hacían ostentación estos �ejercicios� dan fe casi todos ellos; sirva como ejemplo el que leyó en la sesión decimoséptima �Estudio� (nombre literario de Jerónimo de Virués), en que, con objeto de alabar la medicina, trae a colación, con oportunidad o sin ella, a Jensio, Lisímaco de Macedonia, Climeno, al rey Juba de Mauritania, Telefo de Misia, [144] Alcibíades, al rey Atalo de Pérgamo, a los reyes de Arabia Evax y Sabiel, Arquelao de Capadocia, Masinisa de África, Hermes de Egipto, Sabor y Giges de los medos, etcétera, etcétera, en un jugoso revoltillo de nombres cuyo denominador común es el haber sido descubridores de inciertos venenos, triacas o potingues medicinales. Además de la lección erudita, se efectuaban otros encargos en verso, en torno a la decena.

     Es estrictamente imposible reproducir aquí la amplia panoplia temática de esta academia, además de la dudosa eficacia que tendría esa relación. Más interesante es, me parece, señalar las líneas de orientación -no solamente temática- de los poemas y discursos. Buena parte de las composiciones desarrollan la tópica renacentista, mediante el ejercicio de la imitatio respecto a un modelo grecolatino o contemporáneo -muchas veces grecolatino pasado por el cedazo de lo renacentista-. Por aportar un ejemplo, los poemas de ruinas se escriben sobre una falsilla moderna, por ser las ruinas un motivo que se forma como un precipitado histórico proyectado desde la cultura clásica hacia la contemporaneidad: Cetina (�Excelso monte, do el romano estrago�) y, más atrás, Castiglione (�Superbi colli...(308))�. A Troya, Roma o Cartago le sucede aquí Sagunto, por razones que explica el profesor J. Lara Garrido(309). Ya en la sesión primera, según aparece en las Actas, se encarga a �Descuydo� (Francisco Desplugues) �Que relate la destrución de Sagunto�, aunque en las Actas no consta composición alguna que responda a ese encargo. En la sesión trigésima leyó �Recogimiento� (Manuel Ledesma) un �Soneto a las ruinas de Sagunto�. Sus dos primeros cuartetos son una bastante descarada imitación, casi una copia, del de Cetina; los tercetos introducen la novedad, pues en ellos aparece Sagunto, �cabeça d'esta tierra�, como modelo ético y nacionalista del estoico resistir hasta la autoinmolación: �desecha en fuego pero no vencida�. Discrepa más de sus modelos el �Soneto a las ruinas de un pensamiento�, que leyó en la sesión vigesimoquinta �Sombra� (Gaspar de Aguilar).

     El precedente próximo del carpe diem, por su parte, es garcilasista: en la sesión vigesimoctava �Soledad� (Evaristo Mont) dio a conocer su �Soneto a una morena de buen donayre�, que remite inmediatamente al soneto XXIII del toledano, en la versión de Herrera: �Esse rostro moreno más gracioso / que si fuera de rosa y de azucena [...] y juntamente enciende y le refrena / su divina belleza y su reposo�...(310) La autoridad de Garcilaso anula a quienes le sirvieron, a su vez, de modelo, de Ausonio a Bernardo Tasso. Incluso en la sesión cuarta se le encarga a �Fiel� (Francisco Pacheco) un discurso sobre el soneto XXIII al que acabamos de referirnos. [145]

     En el tratamiento literario de estos y otros topoi (brevedad de la rosa, beatus ille, etc,) escasea la ingenuidad expresiva, ultraconscientes como son estos autores de que manipulan motivos automatizados. A veces aluden irónicamente a ello, como cuando, en la sesión vigesimonona, �Miedo� (el canónigo Tárrega) denuesta a los poetas que afirman que sus damas tienen �el cuello de cristal, los dientes de perlas, el pecho de marfil, los labios de coral, las manos de alabastro o nieve y los cabellos de oro�(311).

     En diversos poemas y lecciones el interés radica, no en la razón, sino en el razonamiento lógico y ergotista, con una manifiesta arbitrariedad moral; de este modo han de entenderse los discursos �alabando la vida del pícaro� o �en alabanza de la injusticia�. A veces puede el Presidente proponer la redacción de composiciones a favor y en contra de un mismo tema. Así, se le encargan a �Recogimiento� (Manuel Ledesma), para la decimosexta sesión de la Academia, �Dos sonetos, el uno en alabança del amor, y otro en su vituperio�. Algo similar se observa en las sesiones vigesimoprimera y vigesimocuarta; en aquélla, se le propone a �Temeridad� (Maximiliano Cerdán) �Un soneto alabando la vida de corte�, en que el autor ha de contravenir el tópico de la alabanza de aldea; por el contrario, en la sesión vigesimocuarta, se encargan sendas composiciones a �Sombra� (Gaspar de Aguilar) y a �Consejo� (Francisco de Castro), tituladas, respectivamente, �A la vida solitaria� y �Tercetos contra la vida de palacio�.

     Se observa una frecuente actitud singularizada por el juego alusividad / elusividad, en que las sinuosidades expresivas, los velos perifrásticos y los juegos de ambigüedad permiten mantener la tensión entre lo lícito y lo vedado. Ello es especialmente visible en las ocasionales críticas, apenas perceptibles, de tipo político (solapadas a veces bajo los elogios a la vida solitaria), o en las más frecuentes incursiones por territorios eróticos. Para la sesión vigesimoctava el Nocturno �Cuidado� (Pelegrín Cathalán) hubo de hacer un �Soneto a una dama que salió de la cama a la ventana desnuda a ver su galán a la calle�, sorteando el compromiso a fuerza de elusiones y abstracciones. Cuando no ocurría así, por falta de maestría retórica o por sobra de espontaneidad, seguramente actuaría la censura del Presidente; pudo ser eso lo acaecido en la sesión decimoctava, por ejemplo, en que se encarga a �Sosiego� (Miguel Beneyto) un �Soneto de un galán que hizo un niño cristiano con su dama�, en las Actas consta, en efecto, el título, pero no el poema(312).

     Diversas composiciones se caracterizan por la trivialización temática, en las cuales es el virtuosismo del autor, y en ocasiones su capacidad para atenuar la trascendencia de los motivos tratados o para, en sentido contrario, dar empaque irónico a asuntos baladíes, lo que constituye el mérito principal. Un juego de perspectivas impide percibir la dimensión objetiva de los temas [146] poetizados: circunspección y seriedad aplicadas a lo inane; frivolidad y gracejo a lo importante. Así, existen composiciones declaradamente intrascendentes (sobre la alabanza a los perrillos de falda o a las mulas de los médicos, sobre la causa de que los perros huelan a sus congéneres el nacimiento de las colas), de un culturalismo árido (sobre si fue o no fue casta Lucrecia, sobre la venganza de Vulcano cuando atrapó con su red a Marte y a Venus), de una mundanidad erótica o picante, adobada a veces de misoginia (sobre la facilidad de una viuda, sobre los afanes de casamiento de una dama) o, en otros casos, de una religiosidad epidérmica (sobre la circuncisión de Jesucristo, sobre el buey y la mula del pesebre donde nació Jesús).

     La banalidad, el pie forzado de los temas, y las constricciones métricas o de otro tipo que el presidente establecía, obligaban a exprimir ingeniosamente las posibilidades del lenguaje, convertido muchas veces en objeto de sí mismo. Era frecuente que se fijara el número de versos que había de tener una composición de tema también obligado, o que se exigiese que la misma presentase versos en varias lenguas, o que se propusiera para la lección en prosa, a fin de incrementar la dificultad, el elogio de lo indefendible (la mentira, la ceguera, los celos). Lo anterior explica el que surgiera una literatura que, por su carácter circunstancial y la dificultad compositiva, abundó en arborescencias sintácticas, perífrasis, retruécanos, encorsetamiento metafórico y otros caracteres propios de la estética protobarroca. Y ello independientemente de que muchas academias protestaran contra los excesos culteranos, antes de la eclosión gongorina de 1611, esto es, en el marco de la rivalidad entre Góngora y Lope en la última década del XVI. Se generaba así un mundo literario cuya ingravidez ideológica se orientaba a la fiebre culturalista y a los infecundos rizos formales.

     No es éste el lugar donde considerar la calidad de las producciones expresamente creadas para las reuniones. Mimetismo y emulación son conceptos que obligaban al artista a retrotraerse hasta el espíritu clásico, que si abruma por lo general a la mayor parte de los autores, los estimula otras veces al forzarlos a descubrir su voz personal bajo el amparo de los modelos escogidos. Cualquier valoración que se haga de estos poetas deberá tener en cuenta dicha particularidad. En ocasiones asomó la verdadera poesía en las reuniones académicas. El 2 de marzo de 1594 leyó Tárrega el soneto �A un desengaño�, ese que empieza con el endecasílabo �Llevó tras sí los pámpanos octubre�. El soneto es una obra mayor de la poesía de la época, sin duda; más dudosa es la autoría de Tárrega, pues José Manuel Blecua se lo adjudica a Lupercio Leonardo de Argensola, en cuyo caso se lo apropiaría trapaceramente el canónigo, siguiendo un uso frecuente en tales reuniones.

     La Academia de los Nocturnos fue referente obligado para otras academias valencianas, sobre las que proporciona información J. E. Serrano y Morales(313), [147] reproducida luego por diversos estudiosos. Omitiré los nombres de casi todas ellas. Al filo del XVII, el caballero Carlos Boyl, sólo un muchacho cuando ingresó en la Academia de los Nocturnos, fundó y presidió la de los Adorantes, claro remedo de la anterior. La misma añoranza de Boyl movió al �Secreto� de los Nocturnos, Guillén de Castro, a fundar la Academia de los Montañeses del Parnaso, de la que fue presidente. En Valencia ocurre igual que en otras ciudades: los mismos nombres pasan de una academia a otra, participan en cuantas justas o festejos se les requiere, y mantienen, en suma, una vinculación con la vida oficial, desde su posición de lo que hoy llamaríamos �animadores culturales�. Para entonces, sin embargo, el fenómeno académico comenzaba a confundirse con otros de orientación no estrictamente literaria, aunque se mantuviese el ritual sin modificaciones ostensibles.

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