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Relaciones culturales entre Italia y España: Leopardi y España

Ángel L. Prieto de Paula, Juan A. Ríos (Eds.)

VI Encuentro entre las universidades de Macerata y Alicante (noviembre, 1998)



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La edición de este libro ha contado con una ayuda de la Conselleria de Cultura, Edició i Ciència de la Generalitat Valenciana (Convocatoria de 1998.)



© de los textos: sus autores.

© de esta edición:

DEPARTAMENTO DE FILOLOGÍA de la Universidad de Alicante y Editorial AGUACLARA (Tato, 6 / 03005 Alicante. Tfno.: 965 12 16 75. Fax: 965 12 59 22).



Impreso por: INGRA, S. L. (Avda. Del Zodíaco, 15 / 03006 Alicante).



I.S.B.N.: 84-8018-155-9

Depósito legal: A-128-1999.



Impreso en España

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Prólogo

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     El acuerdo marco de intercambio científico entre las universidades de Macerata y Alicante firmado en 1991 ha propiciado la celebración de seis seminarios en los que un total de casi cincuenta investigadores han tenido la oportunidad de presentar diversos estudios. Todos ellos han sido publicados en las correspondientes actas y abordan el amplio tema de las relaciones culturales, históricas y literarias entre Italia y España.

     El sexto seminario, cuyas actas aquí presentamos, estuvo dedicado preferentemente a la figura de Giacomo Leopardi con motivo del segundo centenario de su nacimiento, haciendo especial hincapié en sus relaciones con España y su literatura. La colaboración del Centro de Estudios Leopardianos de Recanati ha sido fundamental para desarrollar esta tarea en la que participaron los profesores Luigi Banfi, Gabriele Morelli, Giulia Mastrangelo, Carlos Alberto Cacciavillani, Belén Tejerina, Ángel Luis Prieto de Paula, Pedro Luis Ladrón de Guevara, José Carlos Rovira y Antonio Moreno. Todos ellos se reunieron en la Universidad de Alicante durante los días 19 y 20 de noviembre de 1998 en un seminario organizado por el Departamento de Filología Española y coordinado por los profesores Ángel Luis Prieto de Paula y Juan Antonio Ríos Carratalá.

     Estas actas recogen parte de las ponencias presentadas, y han sido publicadas gracias a la subvención facilitada por la Conselleria de Cultura, Educació i Ciència de la Generalitat Valenciana dentro de su programa de ayudas para la celebración de congresos y reuniones científicas. [7]

     Damos las gracias a las instituciones que han colaborado para la realización del seminario y la presente publicación, que sigue una línea de cooperación entre dos universidades que ya ha permitido asentar un importante trabajo de investigación dedicado a las relaciones entre Italia y España.

Los editores

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Pensieri sulla Spagna nello Zibaldone

Luigi BANFI

Università degli studi di Macerata

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     Nell'avvicinarci al mondo prepotentemente poetico della personalità leopardiana, dopo la folgorante esperienza lirica degli idilli (L'infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, ecc.), il lettore è come sorpreso, perché, improvvisamente, la sua poesia tace. Chiuso, come ora sembra, al mondo seducente dell'immaginazione e della fantasia, quasi spento il mondo coinvolgente delle sue ricordanze, che tante immagini e palpiti dettavano in noi, il mondo spirituale di Giacomo Leopardi non si chiude, però, nell'aridità intellettuale, quasi al non aver più nulla da dire a noi, perché quella sua volontà di esprimersi si attualizza nell'affascinante mondo dello Zibaldone. Qui, abbandonando il mondo della poesia, quella vera, quella esternata nei singoli componimenti, anche se sui problemi più ampi del fare poetico sentiamo percorrere per infiniti rivi tutte le pagine di questa sua opera, il Leopardi si chiude in se stesso, si piega sul suo intimo, e, attraverso la riflessione sul doloroso destino dell'uomo, egli raggiunge la sua maturità sentimentale ed espressiva, nella quale fermenterà il mondo delle Operette morali, dei Canti succesivi e dei Pensieri.

     È, infatti, proprio in quegli anni in cui la sua grande lirica tace, dal 1822 al 1828, che il Leopardi intensifica le pagine dello Zibaldone, che, per la ricchezza intellettuale che trasuda, costituisce l'opera da cui si attingono gli elementi, pur se esposti in modo frammentario -e a volte anche apparentemente contradittorio-, della sua riflessione, e quindi del maturare della sua personalità di scrittore. Qui, sotto l'impatto delle sue letture (ogni [11] lettura è sempre un colloquio con qualche altro, con le sue idee, i suoi pensamenti), nelle considerazioni tra il suo mondo interiore e quello degli altri, tra le sue posizioni ideologiche e quelle che serpeggiavano fra i suoi contemporanei, emergono i suoi pensieri filosofici, le sue osservazioni critiche e letterarie, le sue osservazioni e ricerche sulla lingua, spunti autobiografici, abbozzi, anche, di componimenti poetici, per cui il suo estro si rileva non completamente latente, ma ancora vivo, pur se non concretamente impegnato, tutti elementi che tradiscono la formazione culturale leopardiana ed il mondo spirituale ed artistico, in cui nasce e si consolida la sua poetica. Ma su tutto, proprio nello Zibaldone, emergono e si maturano in una analisi attenta ed, a volte, esasperata di quelle amare e angoscianti intuizioni del suo pessimismo, che se si presentano a noi in quella sua opera, frammentariamente, noi sentiamo che, da quell'emergere dalla pagina, egli cerca di proiettare verso di noi tutta la propria esperienza individuale, ma tradotta su un piano di considerazioni universali, attraverso le quali, se egli non riesce a lenire il suo doloroso esistere, né dare al suo spirito quella serenità in cui quelle sue esperienze potrebbero trovare un lenimento, tuttavia, proprio nel considerarle come un momento essenziale della natura, lo portano pure a una considerazione più pacata e distaccata di quella sua incolmabile infelicità. Si ricordi uno dei suoi ultimi pensieri, anteriore al 16 settembre 1832, il terzultimo dello Zibaldone: «Due verità che gli uomini generalmente non credono mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte»(1).

     Fra i tanti argomenti che nello Zibaldone si affacciano alle considerazioni del pensatore recanatese, uno che a noi oggi interessa, e che faceva parte della speculazione settecentesca, era quello dei rapporti tra il clima e la formazione dei caratteri degli individui, o, meglio, delle caratteristiche delle nazioni; argomento sul quale egli ritorna ripetutamente, anche se, non sempre, le sue considerazioni appaiono a noi sempre fondate, pur tuttavia ammettendo che nelle linee generali esse conservano una loro validità, anche se, nascendo il pensiero leopardiano da considerazioni [12] personali, sicuramente sorprendenti, non nascevano, queste, da un ampio contatto con la vita, ma da conoscenze letterarie, da ciò che altri avevano scritto, e che lui aveva letto, per cui ciò' che ci trasmette è un alcunchè di mediato, su cui poi si era formato il suo pensiero. E, in fatto di uomini, di usi e costumi, di indoli e di sentimenti, forse, generalizzare, porta a considerazioni a volte stereotipate. Al di là di ciò, che per la profondità del pensiero leopardiano ben poco incide sulla loro validità, il concetto fondamentale che Leopardi esprime è che per la particolare natura del clima, i popoli meridionali sono portati «naturalmente» verso l'immaginazione, la fantasia, mentre i settentrionali, sempre per lo stesso motivo, verso la meditazione, la filosofia.

     In un pensiero senza datazione, ma sicuramente del 1819, riprendendo una annotazione della Staël a proposito di «una della cagioni del gran contrasto delle qualità degli abitanti del mezzogiorno», scrive:

                                    è che il clima meridionale essendo il più temperato, e la natura quivi (come dice la stessa più volte) in grande armonia, essa si trova più spedita, più degagèe, più sviluppata, onde siccome le circostanze della via son diversissime, così trovandosi i caratteri meridionali per la detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili d'ogni impressione, ne segue il contrasto delle qualità che si dimostrano nelle contrarie circostanze, e il rapido passaggio ec. Laddove negli altri climi la natura trovandosi meno mobile più inceppata a dura, il violento difficilmente mostra pacatezza, e l'indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità dominante, domina più assolutamente e tirannicamente diquello che faccia nel mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le qualità dominanti nel tale e tale individuo, ma che in proporzione lascino più luogo alle altre qualità, alla varietà loro ec. (Zib. 74-75, I, pp. 94-95).

     É su questa linea, per ciò che riguarda il confronto tra settentrionali e meridionali, che si muove poi sempre il pensiero leopardiano, proprio per quel suo modo di ricercare un «sistema» a cui ancorare il suo pensiero e la sua meditazione. Si pensi, per esempio, al giudizio sulla disparità fra gli antichi e i moderni, espressa in un pensiero del 12 aprile 1821, in cui cerca di fissare sempre questa disparità fra immaginazione e filosofia [13]

                                    La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, tra i popoli meeeridionali e i settentrionali (Zib. 931, I, p. 582).

     Se l'Italia e la Grecia erano allora la patria e il luogo del bello e dell'immaginazione, e se quei tempi non fossero comunque «adatti alla profondità dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne'Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità» (Zib. 932, I, p. 562). Da ciò dipende anche la voglia di attività o di inazione delle nazioni, perché se «gl'italiani [...] come una volta per il loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda, erano attivissimi», ora invece sono inattivi per quella «stessa immaginazione ugualmente ricca e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge senza che s'avvedano in una specie di rêve, come i fanciulli quando son soli» (Zib. 176, I, p. 173), mentre i settentrionali, «non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono attivissimi» (ibid.). Anche il concetto di felicità e infelicità contrappone le due diverse nazioni.

                                    Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni umane le settentrionali, più forti di corpo, men vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici (Zib. 3924, II, p. 2079),

dove, pero', il passaggio dalla nazione all'individuo sottolinea quella pregnanza che ha sempre per lui la sua personale infelicità, che marca costantemente il suo approccio delle cose.

     Interessante è la considerazione sul piano politico o civile delle due nazioni. Il 3 settembre 1823 scrive:

                                    La stagione e il clima freddo dà maggior forza di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza del presente, inclinazione all'ordine, al [14] metodo, e fino all'uniformità. Il caldo scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi della noia, intolleranti dell'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e dei presente (Zib. 3347, II, p. 1752).

     Da ciò le conclusioni:

                                   I settentrionali hanno bisogno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi, a cercar novità: ma mossi che sieno, non sono facili a racquietare. [...] Sopportano facilmente la tirannia, finch'ella non gli spinge à bout, come gli Svizzeri. Ubbidiscono volentieri, e comandati travagliano (anche eccessivamente) più volentieri che se operassero spontaneamente. Vedesi nella loro milizia (Zib. 3347-3348, II, p. 1753).

     Di contro «i meridionali sono facili e pronti e frequente a muoversi, rivoltosi, poco tolleranti della tirannide, poco amici dell'ubbidire, ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ritornare in riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi di novità politiche, incapaci di mantenerle; vaghi di libertà, incapaci di conservarla» (Zib. 3348, II, pp. 1753-1754).

     Entro queste considerazioni, o meglio, entro queste posizioni assunte dal suo «sistema», si colloca per Giocomo Leopardi il discorso sulla Spagna, le idee cioè che la posizione di questa nazione ha avuto o assunto e presenta al suo tempo. È ovvio che, proprio per la sua concezione che il tempo felice per l'umanità è quello dell'età antica, così come per l'uomo sta nell'età della faciullezza -i due mondi che si corrispondono nel suo pensiero perfettamente-, e quindi della piena vitalità dei popoli meridionali di quel tempo. E proprio partendo da un passo di Floro, osserva:

                                    Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli [...] considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo [...], dopo, dico, tutto questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa meraviglia che Ploro chiami l'indole e l'ingegno degli Spagnuoli promtius in pacis partes [= inclini alle soluzioni pacifiche]. Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli [15] scrittori filosofici moderni, massime stranieri [...] Così negli Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell'ultimo secolo, e fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così, anticamente bellicosissimo, o certo valorossimo in difendersi fino ad Augusto, e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente en el principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima (Zib. 621-624, I, pp. 415-417).

     Vi è, senza dubbio, in questo pensiero, un tono di sostenuta ammirazione per il popolo spagnuolo, ma ciò che sorprende noi è di avere solo accennto a una guerra «spontanea», certo nazionale, e vivissima e generale, ed atrocissima, semplicemente per la loro meridionalità. Qualcosa di più profondo animava lo spirito degli spagnuoli, un qualcosa di più viscerale, che non aveva nella loro meridionalità la sua essenza. Tornerà su questo pensiero della reazione spagnuola contro i francesi, quasi accidentalmente, in un lungo pensiero del 9-15 dicembre 1820, incentrato sopra tutto sul Cristianesimo, anche questo uno degli argomenti che più assillarono il suo pensare. In quella sua lunga considerazione, dopo aver osservato «che lo stato di un popolo Cristiano è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile», perché in esso vivono, si muovono «vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl'individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec. ec.», ricordava, o meglio faceva rientrare nella nostra mente che «tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo. Esempio della Spagns fino al 1820. Del suo eroismo contro i francesi ecc.», ma ancora non riuscirà a precisare il più ostile differenziarsi dei due popoli. Certo èche ciò che propone inmediatamente, quasi come loro giustificazione dell'operare, ci lascia alquanto perplessi, anche perché investe un altro campo, che forse avrà, anche in quel momento storico, ma non certo giustificato. Seguita, infatti, dicendo: «le sue stesse superstizioni non erano altro che illusioni, e però vita. Osservate ancora che tutto quello che v'è di meno [16] della civiltà media nello stato di un popolo è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello stato de' bassi tempi, della Spagna ec.» (Zib. 408, I, pp. 311-312). Dove, se ammette la profonda religiosità della nazione spagnuola, non ne coglie l'essenza vera e profonda, perché essa era allora intimamente radicata nel popolo. Forse il concetto si basava su ciò che egli chiama «mezza filosofia», come si deduce da un pensiero del 17 gennaio 1821. Infatti, dopo aver osservato che «un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione», rilevava, invece, che «la mezza filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di Spagna ec. perché la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato ne in Francia, né altrove mai perfettamente filosofo, ma solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa; non è pura verità ne ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento» (Zib. 520, I, p. 368). Sull'accanimento degli spagnuoli contro i francesi tornerà ancora nello stesso anno, a proposito del libro di Albert-Jean-Michel de Rocca. «Dice il Rocca che gli spagnuoli nell'ultima guerra, non si facevano scrupolo, anzi dovere di mancar pubblicamente o privatamente di parola a' francesi, tradirli comunque, pagare i loro benefizi individuali con cercar di uccidere il benefattore ec. ec. Così tutti i popoli naturali. Ed egli lo racconta specialmente dei contadini». È il principio dell'insorgere dell'odio nazionale, che non accetta concezioni di lealtà o di onore, perché l'unico onore che esso accata dai suoi cittadini è l'odio contro colui che assoggeta il suo paese. Per cui, anche ciò che conclude quel pensiero, «Osservate ancora la somma religione degli spagnuoli, la quale pur non bastava a storcere le loro inclinazioni naturali, e i dettami di colei che si considera come autitrice ec. della morale; quantunque la religion cristiana sia una specie di civilizzazione, com'è figlia di lei» (Zib. 1709, I, p. 996), non coglie il fatto più importante, che gli spagnuoli reagivano ad un popolo che li aveva invasi e occupati, per cui la morale, o il concetto di essa, era stato già messo da parte dal loro nemico. Rispettare quel sentimento, avrebbe dovuto, o voluto, per loro, soggiacere a una prepotenza. [17]

     Comunque è costante in Leopardi il concetto di indipendenza del popolo spagnuolo, in modo particolare durante l'antichità, anche per brevi accenni quando parla della diffusione della lingua latina in Spagna, come in un pensiero del 6 settembre 1823, in cui, partendo dei poeti di Cordova, vuole far notare che «quella provincia non fu sottomessa che appoco appoco, e con grandissimo intervallo una parte dopo l'altra, e, come osserva Velleio, fu di tutte la più renitente, e tra le romane conquiste la più lunga e difficile e per lungo tempo incertissima» (Zib. 3373, II, p. 1766). Ma su questo argomento, con più ampia implicazione, che investe il podere della tirannide su un popolo, si intrattiene in un pensiero del 10 novembre 1820, tutto quanto dedicato alla Spagna, un esempio che nasce come prova di quanto già aveva osservato sulla tirannide (Zib. 252, I, pp. 223-224).

                                    Nella Spagna barbara di barbarie non primitiva ma corrotta per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più florido, civile, colto e potente, gli avanzi de' costumi moreschi ec. nella, Spagna, dico, l'ignoranza sosteneva la tirannia. Questa dunque doveva cadere ai primi lampidi una certa filosofia, derivati dall'invasione e dimora de' francesi e della rivoluzione del mondo (Zib. 314, I, p. 357).

     Cioè, un popolo disceso da una situazione civile in uno stato quasi barbaro per l'insorgenza delle vecchie tradizioni, immischiato da antichi costumi moreschi che sottostanno alla sua condizione sociale, caduto nell'ignoranza e sottomesso a un governo tirannico, avrebbe dovuto trovare, nei portati civili e filosofici della Rivoluzione francese, e della stessa presenza degli stessi francesi sul suo suolo, lo spirto per ribellarsi ed accogliere da ciò la sua libertà. Cosi, dopo una splendida similitudine, che «l'ignoranza è come il gelo che assopisce i semi e gl'impedisce di germogliare, ma non gli uccide, come l'incivilimento, e passato l'inverno, quei semi germogliano alla primavera», prosegue, «così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo, tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell'entusiasmo, e l'avea già dimostrato nell'ultima guerra». Ora, questa ribellione spagnuola contro i francesi, il Leopardi la spiegava, prendendo lo spunto da alcune osservazioni del Manuscrit venu de Sante-Hélène d'une manière inconnue, che in Spagna [18]

                                    lo spirito rivoluzionario esisteva solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati, nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere: perché il torpore della nazione non derivava da eccesso d'incivilimento, ma da difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo erano all'eccesso, come altrove, ma quanto basta e conviene, e non più (Zib. 314-315, I, pp. 257-258).

     La reazione antifrancese era di natura popolare, e quindi nazionale, emergente dalla massa della nazione, la quale reagiva, per ignoranza, alle nuove idee che la Rivoluzione francese portava con sé, e con le sue armate diffondeva in Europa, mentre i colti, coloro che rappresentavano lo strato intellettuale della nazione, e di quella ignoranza del popolo potevano trarre ventaggio, appoggiavano quelle idee nueve, ma non erano tanto forti da imporle al popolo. Vi è qui ancora una volta la presa di coscienza, da parte del Leopardi, di una delle caratteristiche della nazione spagnuola, la sua profonda, persistente componente popolare del suo nazionalismo. E questa considerazione sottosta centralmente nelle righe che chiudono quel suo pensiero, e che si proiettano sul futuro della Spagna, e forse, potremmo anche dire, che investono per lui i giorni nostri e quelli che dovranno venire.

                                    Quando la Spagna sarà bene incivilita ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall'ignoranza, ma per lo contrario dall'eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione, dall'egoismo filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici. E questa tirannia sarà tanto più durevole quanto più moderata della precedente. E se il re di Spagna avrà vera politica, dovrà promuovere a tutto potere l'incivilimento dei suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più facilmente e più presto). E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come si crede comunemente, ma gli assoggeterà di nuovo, e ricupererà quello che ha perduto (Zib. 315, I, p. 258).

     Tralascieremo alcuni brevi pensieri, o parte di essi, come sulle guerre nazionali, «che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli», jerché queste guerre «dovevano essere a morte, e senza perdono giacché tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione» (Zib. 886, I, p. 534), o sulla barbarie [19] moderna della nazione (Zib. 423, I, p. 319),o su certi accenni al dispotismo, la cui autorità, «temuta con una specie di spavento, adorata ec. da' subalterni ec. (come si può vedere nel governo passato di Spagna)» (Zib. 1564, I, p. 924), o sulle «costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l'uso degli stati generali, corti ec. come in Francia, in Ispagna ec. con che o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno, e il monarca più legato» (Zib. 904, I, p. 545), o ancora per la sua resistenza ai lumi della nuova filosofia (Zib. 349-351, I, pp. 277-278), o sulla mancanza del piacere alla conversazione, perché, come in Italia, il loro clima li porta a preferire le passeggiate (Zib. 4031-4033, II, pp. 2167-2168). Forse ciò che più affascina è il pensiero che egli dedica, nel 25 marzo del 1827, a quel pensiero che ci tiene «naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; insomma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione». Ebbene di questo esagerato orgoglio nazionale, ed anche individuale, egli coglie il momento saliente nel siglo de oro. «Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidi, e con diritto uguale, forse senza diritto alcuno». Ma di quell'orgoglio, che egli non apprezza, accenna appunto una certa accondiscendenza anche ai suoi tempi, anche se non più giustificata, «forse senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi; ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili?» (Zib. 4261, II, pp. 2378-2379).

     Ma dove i pensieri del Leopardi più si soffermano, è sull'analisi della lingua spagnuola, la quale, per lui, «per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue sorelle [=le lingue romanze] ereditato dalla latina, e che più di tutte le lingue, a sentirla leggere o a vederla scritta, rappresenta l'esterna faccia e il suono della latina e puo con essa esser confusa; dev'esser considerata come speciale e principale conservatrice dell'anticità, della latinità, del volgare latino» (Zib. 3573, II, p. 1857). Noi sappiamo con quale ampiezza il recanatese si soffermasse nello Zibaldone sule questioni linguistiche, e quanto [20] attaccamento egli provasse per il mondo antico, e non deve perciò meravigliarci la sua attenzione rivolta alla lingua spagnuola, anche se, dobbiamo ammeterlo, un'analisi più ampia investirebbe un più complesso problema linguistico. Qui gioverà solo ricordare come egli la ritenga una «lingua poeticissima fra le lingue perfette (non inferiore in detta qualità se non all'italiana, e non agguagliata di gran lunga da nessun'altra) non ha mai prodotto un poeta né un poema che sia o sia stato di celebrità veramente europea» (Zib. 2608, II, p. 1396); e che per essere «sorella carnalissima della nostra», può riuscire per gli scrittori italiani «una sorgente di buona e bella ed utile novità ond'essi arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi» (Zib. 3389, II, p. 1174). Ma ciò che più ci sorprende è che proprio in quel pensiero, appena ricordato, sull'ereditarietà che essa rappresenta della lingua latina, emerge forse la più attenta descrizione del carattere spagnuolo, quale lo poteva tracciare un letterato italiano, che non si era quasi mai allontanato dalla clausura del suo «borgo selvaggio», e mai dall'Italia, ma che sempre si era formato sulla lettura di opere d'altri. Ed è ciò che continuamente sorprende il lettore attento dello Zibaldone, perché da quelle nozioni, appresa dai libri, la sua genialità estrapola pensieri profondamente originali.

     Si leggano, come dicevo, alcuni passi di quel lungo pensiero, dell'l e 2 ottobre 1823:

                                    Questa mirabile e così lunga conservazione di sì speciale conformità col latino nella lingua spagnuola, conformità che passa quella conservata nella stessa sede dell'antico latino, cioè in Italia, dee riconoscersi dalle stesse circostanze che rendono e sempre resero gli spagnuoli, o loro permisero e permettono di essere così tenaci de' loro istituti, costumi, opinioni, religione ec.; così stazionari nel loro carattere, nel grado della loro civiltà, così lenti ne' loro progressi sociali ec. tanto che oggidì, dopo il rapido corso incominciato e tenuto dalle altre nazioni nell'ultimo secolo, la Spagna, a paragone del resto d'Europa, viene ad aver più del barbaro che del civile: (onde è famoso il detto, mi pare, di Mons. de Pradt, che la Spagna, appartenendo all'Africa, per isbaglio geografico si fa parte d'Europa). La stessa gravità e posatezza delle maniere negl'individui spagnuoli, [21] la lunghezza delle lor cerimonie, de loro preparativi alle operazioni manco importanti, e cose simili, sono indizio della stabilità del carattere, costumi e opinioni nazionali; perché generalmente, come tutte le cose in natura osservano la legge dell'analogia, gl'individui delle nazioni lente ne' progressi sociali, letterarii e simili, e tenaci del loro essere, sono tardi nell'operare e di carattere riposato, e dove gl'individui son tali, tale è la nazione (Zib. 3577-3578, II, pp. 1869-1870).

     Dobbiamo concedergli che qui, da una costatazione di un fatto linguistico, si passa a considerare un più vasto campo di interessi, che investono, per precisare quel fatto, una più ampia visuale su una natura di un popolo. Dicevo prima della profondità ed ampiezza che assume il pensiero di Giacomo Leopardi partendo da un punto, da un accenno: qui siamo proprio davanti ad una apertura inaspettata, che ci offre gli strumenti e i mezzi per conoscere una nazione. Ma non ci fermeremo qui, perché Giacomo Leopardi allarga il suo sguardo e coglie uno dei motivi che concorrono alla conservazione della lingua spagnuola nell' isolamento che la Spagna godeva in Europa. «Se guardiamo alle prime [le circostanze geografiche], il sito della Spagna, ch'è in uno estremo d'Europa, facendola poco frequentata dagli stranieri, rende la nazione poco soggetta a variarsi» (Zib. 3578, II, p. 1870). A questo isolamento si aggiungono anche le circostanze naturali, che inciderebbero anche loro, indiscutibilmente, su quello spirito conservativo che così decisamente incombe sulla lingua. «Le seconde [quelle naturali] sono il clima, e il carattere nazionale in quanto alla parte fisica. Questo negli spagnuoli è pigro e molle e vago del riposare e dello stare più che dell'azione e del movimento, o certo capace di contentarsi facimente del riposo, per poco che l'operare gli sia impedito o reso difficile. Così suole ne' climi caldi e felici» (Zib. 3579, II, p. 1870). Vi è, secondo lui, come una innata lentezza nello spirito spagnuolo, per cui si sente precipuamente portato ad accettare quanto è abituato a fare, piuttosto che preferire cose nuove, magari anche importanti, ma che si porrebbero come novità rispetto alle sue abitudini, perché ciò, appunto, potrebbe comportare qualche difficoltà. È il richiamo a quel certo tocco di indolenza, che molto spesso [22] noi siamo soliti addebitare ai popoli meridionali, che è poi anche un'abitudine che il clima e la natura, in cui vivono, induce in loro.

     Più considerevole, sempre in questo contesto, è il pensiero là dove tratta della dominazione moresca che la Spagna dovette subire, la quale, se lasciò, com'era d'altra parte impossibile che non fosse, non solo nell'architettura e nell'arte, alcune testimonianze, ma anche nelle tradizioni e costumi, tuttavia non influì mai, considerevolmente, sulla lingua spagnuola. Direi anzi che qui il giudizio di Giacomo Leopardi è più chiaro e preciso, e più iberico di quel che forse ci si aspettasse. Scrive, infatti:

                                     La Spagna ebbe lunghissimo tempo i mori, e questi, potenti e regnanti. Ma che, non le religioni, non le lingue, non i costumi, non il sangue di questi conquistatori stranieri e degl'indigeni e in gran parte sudditi, si mescolarono insieme mai. Due sangui, due religioni, due lingue, due maniere di vita, in somma due nazioni diversissime, contrarie, nemiche, perseverarono sempre in Ispagna, e sempre divise e ben distinte l'una dall'altra, e materialmente confuse insieme, e sugli occhi l'una dell'altra (Zib. 3580, II, p. 1871).

     In questa netta distinzione dei due popoli viventi insieme nella stessa penisola iberica, emerge L'indipendenza della lingua spagnuola, il suo consolidarsi nella sua arcaicità, proprio perché nel ridursi arcaica, giustificava la sua «nobiltà», sembra che il Leopardi cerchi la sua giustificazione. Ma da questa spaccatura tra i due mondi, spagnuolo e moresco (nella quale, perdonatemi, io non credo molto), il recanatese tesse l'elogio delle due nazioni: conservativa, la spagnuola; liberale, aperta, la moresca. Ne risulta, però, una decisa esaltazione del carattere profondamente nazionale del popolo spagnuolo. È ciò che persegue nel passo che cito: «Né il maomettano riconobbe mai Cristo, né il Cristiano Maometto, né l'arabo lasciò la sua lingua per la spagnuola, ne lo spagnuolo succhiò mai col latte altra lingua che l'indigena» (ibid.). Non occorre certo qui contestare la verità storica di questa frattura: quello che qui giuoca ancora è il gusto «barbarico», su cui tante volte ha insistito il Leopardi, per la popolazione spagnuola, e sul profondo senso cristiano in cui trovò nei secoli una delle sue forze, che nemmeno una lunga dominazione riuscì a destabilire. Ma ciò che lo stupisce [23] -«Cosa mirabile e che non ha, credo, altro esempio oltre di questo» (ibid.)-, è che l'incontro tra gli spagnuoli e la civiltà moresca, fu quello fra un popolo barbaro e uno dotto, in quanto

                                    i mori non barbari vennero in un paese già rozzo, e quasi civili regnarono in un paese molto meno civile di loro. Ebbero i mori in Ispagna un' estesissima letteratura, e piene sono le biblioteche spagnuole e straniere delle loro opere (alcune, come quelle di Averroe, note per traduzioni e celebri in tutta Europa). Né per tanto poterono essi introdurre né lasciare la loro letteratura (ch'era pur l'unica a que' tempi in Europa) tra gli spagnuoli che niuna ne avevano; né la loro civiltà (altresì unica); né col mezzo ed aiuto di questa e della letteratura, la loro lingua; né poteron fare che nella Spagna mezza coperta e dominata da stranieri di diversissimo linguaggio e costume, e questi civili e letterati, e ciò per lunghissimo tempo, non si conservasse la lingua indigena, quanto è al popolo, assai meglio che nelle altre nazioni partecipi della stessa lingua, le quali non ebbero mai stranieri né civili né letterati, e quei barbari che ebbero, o gli ebbero per molto minore spazio di tempo, o ben tosto naturalizzati di costumi, di religione ec. (Zib. 3581-3582, II, p. 1871-1872).

     Vi è, in questo quasi suo stupore, un elogio verso la lingua spagnuola, ma è dopo tutto un elogio alla Spagna, che ha saputo mantenere una sua omogeneità e spirito nazionale, così profondamente spagnuolo, da non lasciarsi affascinare da un mondo e una cultura così profondamente civili, per quei tempi, anzi gli unici di quel periodo, per rimanere ostinatamente fedele a se stessa, anche se su un piano inferiore. Ed è questo elogio alla Spagna quello che chiude quasi il suo pensiero, e ne trae le sue conclusioni.

                                     Finalmente la Spagna non mai intieramente soggettata e signoreggiata da' mori [...] estirpò e scacciò afatto gli stranieri dal suo seno. E non solo gli stranieri, ma con essi la lor fede, lingua, letteratura, costumi e tutto. E non solo tutto questo, ma eziandio il sangue e il genere straniero, che non mai potutosi mescolare col nazionale, tutto intero quasi, fu finalmente rigettato fuori della nazione, restando questa così puramente spagnuola di sangue (parlando senza guardare alle minuzie) come l'olio resta puro quando si separa da qualche liquore a cui non siasi mai punto commisto (Zib. 3583, II, p. 1872). [24]

     La visione di questa Spagna, «non mai intieramente soggettata e signoreggiata da' mori», così com'era stata conquistata faticosamente dai romani, che si libera dei suoi dominatori, totalmente, senza nulla conservare del loro gran retaggio culturale, dei loro usi, costumi, riuscendo a mantenersi «puramente spagnuola di sangue», è nel Leopardi non so se un atto di elogio, ma certo il prendere coscienza di una realtà di una nazione. Nello Zibaldone il pensatore recanatese cerca soltanto di cogliere quel vero che deve essere la ricerca sincera di un filosofo, qualunque siano gli esiti a cui la sua ricerca lo porterà, perché solo quel vero conta per l'uomo, e se anche questo sarà il portarlo verso un suo pessimismi, questo nasce proprio dal prendere atto di una realtà che a quello portava. Giustamente nel parlare della Spagna, come di qualunque altro paese, o di qualunque altra cosa, Leopardi non tendeva al' elogio, ma alla sua verità, e se ne offriva una definizione, quella definizione nasceva dalla sincera ed onesta impressione che la realtà gli offriva. Già, come ho detto, la sua conoscenza della Spagna nasceva dalle sue letture, ma da quelle letture ricavava una precisa realtà, come quella con la quale egli conclude questo suo pensiero dell'ottobre 1823, che più delinea uno degli aspetti più caratteristici della Spagna del suo tempo. Leggiamolo:

                                    Della storia moderna di Spagna, della sua tenacissima fede e superstizione, onde quanto alla religione ella è ancora, si può dire, oggidì né più né meno qual fu quando scacciò i mori, e qual fu prima de' mori e dello stesso Maometto, e qual fu la Cristianità generalmente ne' bassi tempi, a differenza di tutte l'altre moderne nazioni cristiane, e anche non cristiane; della mirabile antichità, per così dir, di carattere da lei mostrata negli ultimi tempi, non accade parlare, essendo cose assai note (Zib. 3584, II, p. 1873).

     Vi è, in quella «mirabile antichità di carattere», se non l'elegio, certo il rispetto verso una nazione che se rimaneva retrograda alle nuove istanze della civiltà moderna, conservava una sua costante osservanza di quei principi verso i quali il poeta si volgeva affascinato, quel mondo della fanciullezza e dell'antichità, che per lui costituivano, dopo tutto, la stessa cosa, e alle quali la sua memoria, o ricordanza, lo riportavano sempre, perché quello era per lui il mondo della sua immaginazione. [25]

NOTE

     1 Giacomo LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di Giuseppe PLACELLA, 3 voll., Milano, Carzanti, 1991. Le citazioni, che saranno sempre fatte da questa edizione, saranno indicate con Zib. seguito dal numero dell'autografo leopardiano e dal numero del volume e dalla pagina. La presente citazione è da Zib. 4525, II, p. 2594.

[27]

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Intorno ad alcune riflessioni del Leopardi nello Zibaldone

Giulia MASTRANGELO LATINI

Università di Macerata

[28]

     In vari punti del suo Zibaldone il Leopardi parla della Spagna, della sua letteratura, del suo carattere, della sua lingua, dei suoi rapporti con la cultura italiana. A noi qui interessano le questioni linguistiche, in modo particolare alcune riflessioni espresse dal poeta sulla stretta relacione fra parole spagnole e parole italiane. Vedremo quello che il Leopardi dice e dopo presenteremo il nostro contributo avvicinando a parole spagnole parole del dialetto di Martinsicuro, piccolo centro che si trova in una posizione strategica da un punto di vista linguistico, vicino al fiume Tronto che segna il confine fra le Marche el'Abruzzo, cioè fra l'antico Stato Pontificio e l'antico Regno di Napoli, dove gli Spagnoli esercitarono un lungo dominio.

     Non si può mettere in dubbio che alcune passarono dallo spagnolo al dialetto e di questo mi occupai già in un lavoro di qualche anno fa, però molte altre ci fanno pensare a quella base comune che fu la lingua dei colonizzatori(1). Questo precisamente abbiamo trovato nel Leopardi:

                                    Anche ne' nostri più antichi, cioè ne' trecentisti e così in que' del Cinquecento [...] e fors'anche ne' ducentisti si trovano moltissime parole spagnuole, oggi fra noi disusate affatto, o mm più o meno, e tra gli spagnuoli ancora correnti e usuali, o ancor fresche più o meno; le quali anche chi sa spagnuolo e italiano, non sa che sieno o sieno state comuni ad ambe le lingue, e trovandole ne' nostri antichi se ne maraviglia, perché son prettissime spagnuole. Queste o furon tolte dallo spagnuolo... o forse più probabilmente vengono dalla comun fonte d'ambo gli idiomi, o ciò fosse il latin volgare, o [29] qualchessia altm delle tante secondarie che diedero de'vocaboli alle nostre lingue, potendo essere che da una di queste le ricevesse sì l'Italia, come la Spagna indipendentemente l'una dall'altra. [...] Come che sia, tali voci (o frasi ec.) appo i nostri antichi non hanno punto del forestiero, se non per chi sappia che or sono spagnuole, e sia avvezzo a sentirle, leggerle, parlarle nello spagnuolo, e di là le creda venute ec. ma per se stesse hanno tutta l'aria naturale.(2)

     Come si vede, il Leopardi rileva le coincidente fra le due lingue, ma ritiene che non sempre si debba parlare di interdipendenza, bensl di derivazione da una fonte comune. In tempi più recenti l'argomerito è stato ripreso e Dámaso Alonso ha cercato di fare il punto sulle ricerche riportando nel suo studio Fragmentación fonética peninsular le varie opinioni ed esaminandole. Si riferisce soprattutto a Menéndez Pidal che

                                    ha juntado una larga serie de fenómenos fonéticos que se producen en la Península Hispánica y en el Sur de Italia y ha añadido una lista de topónimos españoles que parecen tener correspondencia con nombres de ciudades o regiones suditalianas. Los mencionados fenómenos fonéticos habrían venido en germen con el latín de los colonizadores, y estos gérmenes dieron en nuestra Península más o menos, los mismos resultados que en Italia.(3)

     Dámaso Alonso suddivide in vari gruppi i fenomeni importanti di coincidenze:

      I. -mb > m(m)
-nd > n(n)
-ld > ll
II. Sonorizzazione di p, t, k dopo m, l, n, r
III. Palatalizzazioni di l- e ll-
IV. La metafonia e le finale -U e -I

     Discute di questi e poi espone delle conclusioni: è difficile respingere del tutto i fenomeni che Menéndez Pidal presenta in appoggio alla sua teoria. Forse il II gruppo può avere qualche rapporto con la fonetica basca. Per il III gruppo può darsi che

                                    un fenómeno en germinación, trasplantado, podría haberse generalizado totalmente en España (Ibidem, p. 141). [30]

     Dámaso Alonso ritiene che si siano succedute ondate di colonizzatoii che potevano non provenire sempre da una stessa regione. Tuttavia

                                    montando sobre un mapa de Italia los puntos de máxima coincidencia de todos los fenómenos españoles, de los que hay sospecha que puedan haber sido originados por el latín de los colonistas, las coincidencias mayores van a superponerse sobre una misma zona, que comprende el S de las Marcas, el SE de Umbría, el NO de Abruzos y el pico del lado entre Umbría y Abruzos, con una prolongación que llega hasta el S de Roma: es la región que aún hoy distingue -u y -o etimológicas, como se debió distinguir antiguamente en gallego-portugués y como hoy se distingue, en parte, en el asturiano, y en especial, el de Lena. Y que además tiene un neutro-colectivo en -o (y sin metafonía), que opone al masculino con u (y con metafonía) como en Lena (Idem).

     Anche i toponimi coincidenti si trovano vicini alla zona indicata e questo deporrebbe a favore della teoria di Menéndez Pidal, per la quale tuttavia Dámaso Alonso non nasconde che abbia dei punti oscuri. Lo studioso acutamente ritiene che ai fenomeni fonetici si debbano aggiungere fenomeni di tipo sintattico, morfologico, lessicale.

     E'a questo punto che vorremmo inserirci con l'apporto di dati del dialetto di Martinsicuro.

     A proposito della preposizione a dinanzi a complemento oggetto di persona debbo dire che se ne trovano tracce solo in casi particolati in cui per lo più d complemento oggetto è rappresentato da pronomi personali:

                     à mannatë a mmé
a mannatë Marië

     Per quanto riguarda la triplice localizzazione dei dimostrativi, a Martinsicuro si hanno i tre aggettivi:

                     stu libbrë: questo libro
ssu libbrë: codesto libro
llu libbrë: quel libro

     e i tre pronomi:

                     quistë quissë quillë.

[31]

     Da notare che la base di ssu e di quissë appare la stessa di ese / ése. Interessante inoltre è che ai pronomi metafonizzati maschili si deve aggiungere questë neutro, che non presenta il fenomeno della metafonesi. Dámaso Alonso rileva questo fenomeno nel marchigiano men'dionale e nel napoletano, osservando:

                                    Inmediatamente se ve la casi identidad con el asturiano de Lena: msc. isti, neut. esto (o lo mismo, masculino vuistru, neut. vuestro), sólo que en Lena están aún patentes las vocales finales (-i, -u) responsables de la metafonía. La coincidencia hispano-suditaliana de las tres localizaciones demostrativas, y sobre las mismas bases (en la que también participa el sardo) es muy notable y tiene que proceder del latín hablado en estas tres zonas (p. 144).

     Ai due dialetti citati da Dámaso Alonso posslamo aggiungere il dialetto di Martinsicuro che, come abbiamo visto, presenta le stesse caratteristiche.

     Per quanto concerne l'uso di tenere al posto di avere, vi è perfetta corrispondenza fra il nostro dialetto e lo spagnolo. Basta attraversare il fiume Tronto per ritrovare avere anziché tenere. In certi casi l'abruzzese ha una costruzione singolare con determinati sostantivi:

                     më tè sónnë = ho sonno (alla lettera: mi tiene sonno)
më tèfamë = ho lame (alla lettera: mi tiene fame)
më tè sétë = ho sete (alla lettera: mi tiene sete)

     Vediaino ora dei vocaboli che mi sembrano interessanti nell'ambito di questo discorso.

                     Spagn. sartén - abruzz. sartanjë

     I due vocaboli hanno lo stesso significato. In Martin Alonso(4) sartén è attestata dal XIV sec. come «vasija de hierro, circular, más ancha que honda, de fondo plano y con mango largo, la cual sirve para freír, tostar o guisar alguna cosa». Questa definizione che ci richiama al Forcellini(5) («vas culinarium in quo cibi friguntur, vel aliud quippiam liquefit, aut torretui») e non al Du Cange(6) («patella salis»), si adatta perfettamente alla descrizione della sartanjë abruzzese: una padella di feffo col bordo svasato, che posta sulle braci o sui carboni serviva a cotture di ogni tipo. Il Corominas(7) anticipa l'attestazione al sec. XIII, Libro de Apolonio. Il DEI(8) cita 'sartagine' [32] come voce del XIV sec. e afferma che ha continuatori popolàri nell'Italia centro-meridionale dall'Abruzzo in giù, riportando vari esempi.

                     Spagn. montón - abruzz. Mëntó

     In ambedue i casi ha il significato di mucchio. La derivazione da montem è evidente. Il DEI riporta 'montone' nel XIV sec. e l'attesta in alcuni dialetti fra i quali anche piem. e lomb. affennando che la voce si è diffusa probabilmente dalla Provenza. Il Du Cange dà montonus nel significato di 'acervus' in un testo dell'Italia settentrionale del 1406. Sembra quindi un vocabolo non legato alle sole parlate centro meridionali.

                     Spagn. Carica - abruzz. Garëcillë.

     Martín Alonso colloca la parola nel XV sec. e la spiega come «especie de higuera de Siria o fruto de esta higuera» citando un testo del 1495. La parola abruzzese indica i fichi secchi e deriva indubbiamente da carica che nel Forcellini è spiegata come «genus ficorum qui in Caria abunde nascebantur et ibidem siccabantur, ut in alias terras vehi possent». Ovidio parla di carica rugosa, per cui ci spieghiaino la forma dialettale carëcillë che in una ulteriore derivazione, rëncarëcëllitë, si riferisce alla pelle raggrinzita come i fichi secchi.

                     Spagn. estar - abruzz. stare

     Vi è una singolare coincidenza non solo quando il verbo significa «trovarsi in un posto», ma anche quando si riferisce ad uno stato d'animo, ovviamente transitorio. Ad es. in abruzzese si dice: sta trùvëtë per indicare una persona che è inquieta, mentre si usa il verbo essere con lo stesso aggettivo se ci si riferisce ad es. al vino torbido. E ancora si dice sta cincë riferendosi ad una persona che non si sente in forma, ma si dice è cincë di una persona di costituzione minuta e deboluccia. Come si vede l'analogia con lo spagnolo è indubbio.

                     Spagn. subir- - abruzz. suvë

     Il due verbi hanno lo stesso significado di 'salire', mentre il 'salir' spagnolo significa in italiano 'uscire'. Di salir e subir parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone, insieme a molti vocaboli dei quali si occupa per varie ragioni.

     Non possiamo qui passare in rassegna tutti i passi del testo leopardiano [33], ma possiamo ribadire che il poeta ebbe vivo interesse per i rapporti culturali e linguistica fra la Spagna e I'Italia e le sue idee, molto spesso espresse sinteticamente, sono ricche di intuizioni e spunti dai quali si può prendere l'avvio per studi e approfondimenti, come molto brevemente abbiamo cercato di fare. [34]

NOTE

     1 «Contributo alla discussione sulle coincidente lessicali fra dialetti dell'italia centro-meriodinales e la lingua spagnola», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Macerata, III-IV (1970-1971), pp. 667-684. Qui analizzavo due gruppi di parole, un primo gruppo di voci inquadrabili nel vasto problema delle coincidenze fonetiche e lessicali fra i dialetti dell'Italia centro-meriodinale e la lingua spagnola como karrapiné mantë, mantilë, palòmínë, cëkënillë, skartapillë, (dà na) ppatarakkiatë, ntrëppëkà, kurdéskë, cíammaríkë, e un secondo gruppo di voci da riportarsi agli scambi fra lingua spagnola e dialetto (La vocale evanescente vine indicata con ë per ragioni tipografiche. Le vocali aperte o chiuse si indicano con l'accento grave o acuto).

     2 Giacomo LEOPARDI, Zibaldone, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 729 (3729).

     3 Dámaso ALONSO, La fragmentación fonética peninsular, E. L. H. Suplemento T I, Madrid, CSIC, 1962, pp. 135-6. MENÉNDEZ PIDAL nella sua opera Orígenes del español, Madrid, Espasa Calpe, 1968, sexta edición, aveva trattato ampiamente la questione nei paragrafi 52-55, con osservazioni conclusivo nel parágrafo 55 bis (pp. 286-306).

     4 Diccionario medieval español, vol. II, Salamanca, Universidad Pontificia, 1986.

     5 FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, voll. 5, Bologna, Forni, 1965.

     6 DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, vol. 5, Graz 1954.

     7 Joan COROMINAS, Diccionario crítico etimológico de la lengua castellana, vol. 4, Berna, Francke, 1954.

     8 Cario BATTISTI - Giovanni ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, vol. 5, Firenze, 1950 (Abbrev. DEI).

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Leopardi y Recanati como motivo poético en los poetas españoles

Pedro Luis LADRÓN DE GUEVARA

Universidad de Murcia

[36]

     Es sabido que el primero en ocuparse de Leopardi en España fue Juan Valera, el cual reconocía haber escrito bajo su influencia directa la poesía «A Lucía» (1848) que le envió a su amigo Juan Luis Estelrich para la Antología de poetas líricos italianos (1200-1889) (Palma de Mallorca, Escuela Tipográfica Provincial, 1889, pp. 520-4). Sin embargo, fue Manuel Reina el primero en utilizar a Leopardi o a Recanati como tema poético. Reina, en su libro Cromos y acuarelas. Cantos de nuestra época (Madrid, Imp. Fortanet, 1878), recoge doce composiciones dedicadas a otros tantos poetas, entre los cuales Dante, Petrarca y Leopardi. Su «Leopardi» puede considerarse la primera composición en castellano que tiene por tema al poeta de Recanati; en él se pone de manifiesto la belleza y plasticidad de su poesía, su escepticismo, desesperación, la sed de infinito y la muerte desesperada. Es el nuevo Prometeo encadenado a la desgracia. En febrero de 1899 vuelve a tratar el mismo tema en su libro El jardín de los poetas: Petrarca es sustituido por Tasso y aparece una nueva composición titulada «A Leopardi» donde utiliza la segunda persona para dirigirse al poeta.

     Entre los dos poemas de Reina se podría incluir, según la fecha dada por su autor, 1895, el de Antonio Gómez Restrepo, «En el palacio Leopardi», recogido en la introducción de su traducción de los Canti de 1929 (segunda edición, 1941), aunque desconocemos si hubo una publicación precedente. Sin embargo, antes de marcar cronológicamente la primera composición sobre Leopardi hemos de tener en consideración el poema de Ramón [37] de Campoamor «El cielo de Leopardi», aparecido en sus Doloras (no en la primera edición de 1846), que la convertiría en la primera referencia a Leopardi en nuestro país, sino más tarde, en la dolora número CXLIX de las Obras completas de Don Ramón de Campoamor (Madrid, Casa editorial, imprenta y litografía San Rafael, 1902, vol 5., P. 355). Campoamor, en el citado poema, destaca el amor del poeta por la muerte, lugar amigo donde no hay ni placer ni sufrimiento; por contra, la vida es un tormento.

     Carlos Fernández Shaw (1865-1911), que tradujo para Carmen de Burgos el «Canto notturno di un pastore errante dell'Asia», no le dedica ninguna poesía pero comienza su poema «La copla lejana», de la composición Las horas negras, con siete versos (del 24 al 30) de «La sera del dì di festa». En su poema «La mar brava» es donde muestra la adoración que había sentido por el poeta:

                                  Tal dije, sobre peñas levantado;
sobre las peñas de la costa firme,
donde clamaban, al romper, las olas,
mientras mis torpes manos sostenían
un libro que adorara por entonces:
el libro de los Cantos de Leopardi.
Él inspiró, como siniestra musa,
tanta desolación, iras tan locas,
en mis ánimos tristes, conturbados
por la lucha, sin tregua, de la vida. (p. 289)

     Respecto a la figura de Azorín, éste no fue solamente lector de Leopardi sino que leía las Rime de Petrarca en la edición comentada por aquél (Firenze, Le Monnier, 1864). En el ejemplar que se halla en la biblioteca de la Casa Museo de Azorín en Monóvar encontramos marcadas en la primera página las palabras «Benedetto... 58, Tiempo... 393, La vida huye... 238». También se conserva en su biblioteca la edición de las Opere de Leopardi en dos volúmenes (Felice Le Monnier, 1865, Firenze) con subrayados referentes a la familia y la relación con el padre (pp. 110-1). Se conservan dos ejemplares de las Prose de Leopardi (uno del 1882 y otro del 1899) con nota biográfica de Eugenio Camerini, editoriale Sonzogno, Milán, así como [38] el libro de G. Sergi sobre Leopardi a la luz de la ciencia (vols. I y II, trad. Buxò Monserda, Henrich y Cª, Barcelona, 1904). También está en su biblioteca la obra de J. Luis Estelrich Poetas líricos italianos (Palma de Mallorca, Imp. Amengual y Montaner, 1891) que es una edición reducida de su más conocida antología. El libro lleva una dedicatoria de Estelrich: «Al excelente escritor y buen amigo Sr. Martínez Ruiz, recuerdo de su afecto.»

     Azorín, no obstante fuese novelista y no poeta, en su ensayo sobre Valera (Los valores literarios, Renacimiento, 1913, p. 176), divide a los artistas en amenos y agradables, de una parte, y de la otra, los atormentados, obsesionados, los verdaderamente grandes como Leopardi. Aunque quizás donde mejor sea palpable el efecto que la poesía de Leopardi ejercitó en él es en su libro La voluntad (Barcelona, Heinrich y Cía., 1902), donde, en la tranquilidad del monasterio de Santa Ana, en Jumilla, describe la honda impresión que le produjo la lectura de La Pasión, sólo comparable a la que sintió con Flaubert.

     Otro juicio de Azorín sobre las prosas del poeta lo encontramos en un ensayo de 1920 titulado «Leopardi». Azorín fantasea sobre la creación del mundo y pone en evidencia el carácter melancólico del poeta, su amargura fatal e irremediable, para terminar afirmando: «Leopardi, lector, no es pesimista; es el pesimismo hecho hombre».

     El escritor del 98 cuya relación con Leopardi fue más intensa es, con toda seguridad, Miguel de Unamuno, que tradujo «La Ginestra» (1899) y que publicó un par de artículos sobre el poeta. A la relación Unamuno Leopardi le ha dedicado varios estudios Vicente González Martín («Miguel de Unamuno y Giacomo Leopardi» Cuadernos de la Cátedra Miguel de Unamuno, Salamanca, 1976, pp, 27-52). En Canarias (Divagaciones de un confinado) (O. C., Madrid, 1958, vol. I, p. 919), Unamuno cuenta los tres libros que se llevó al confinamiento de Fuerteventura: el Nuevo Testamento, la Divina Commedia y los Canti de Leopardi.

     Carmen de Burgos, conocida con el pseudónimo de Colombine, publicó el más amplio estudio hecho en España sobre el poeta de Recanati en el ya lejano 1911 (Giacomo Leopardi - Su vida y sus obras, Valencia, Sempere [39] ed., s.d.). En el primer volumen, de 504 páginas, escribe una larga biografía en la que se intercalan en italiano y castellano muchas de las poesías de Leopardi, algunas de ellas en las traducciones de prestigiosos autores (Tomás Morales, Juan Ramón Jiménez, Enrique Díez Canedo, Jerónimo Rosselló, Calixto Oyuela, Antonio Ledesma, J. Bravo Carbonell, Rafael Cansinos-Assens, Diego López Moya, Rafael Lasso de la Vega, Ricardo Franco, Leocadio Martin Ruiz, J. L. Estelrich, María del Pilar Contrera, Juan O'Neille, José Alcalá Galiano, Miguel Sánchez Pesquera, Julio Hoyos, Enrique Fernández Granados, Marcelino Menéndez Pelayo, José Fernández Cancela, Federico Baráibar...). El segundo volumen, de 388 páginas, está dedicado a las prosas del poeta: Diálogos, Pensamientos, Estudios, Traducciones. Lo que supuso una amplia visión del mismo.

     Entre los traductores estaba el futuro Premio Nobel Juan Ramón Jiménez, que se hizo cargo de la traducción del poema «Alla luna» a petición de la escritora, periodista y amiga. Publicada la traducción, el episodio ha sido recogido por Federico Utrera en su Memorias de Colombine. La primera periodista (Madrid, Hijos de Muley-Rubio, 1998, pp. 188-90).

     Presencia directa de la poesía de Leopardi en la obra de Juan Ramón Jiménez encontramos en el capítulo 78, titulado «La Luna», de su obra maestra Platero y yo:

                                    Sobre el tejadillo, húmedo de las blanduras de setiembre, dormía el campo lejano, que mandaba un fuerte aliento de pinos. Una gran nube negra, como una gigantesca gallina que hubiese puesto un huevo de oro, puso la luna sobre una colina.
               Yo le dije a la luna:
                                                                               ma sola
                                             ha questa luna in ciel, che da nessuno
                                             cader fu vista mai se non in sogno.
               Platero la miraba fijamente y sacudía, con un duro ruido blanco, una oreja. Me miraba absorto y sacudía la otra...

     Entre los traductores, además de Juan Ramón Jiménez y Guillermo Fernández Shaw, ya vistos, es de destacar Tomás Morales (1884-1921), poeta canario, muerto joven aunque gozó de gran prestigio por un único libro de [40] poesía, Las rosas de Hércules; en 1984 Andrés Sánchez Robayna recogió en un único volumen sus poesías y las traducciones de Leopardi (Tomás Morales, Las rosas de Hércules. La cena de Bethania. Versiones de Leopardi, prólogo de A. S. R., Santa Cruz de Tenerife, 1984); Morales tradujo para el libro de Colombine «El primer amor», «El infinito», «Imitación», «Del griego de Simónides», «Del mismo», y los poemas XXXVIII y XXXIX. Otro traductor fue Enrique Díez-Canedo (1879-1944), crítico, poeta y traductor de Heine y Baudelaire, que dirigió las revistas España y Madrid; entre sus libros de poesía destacan Versos de las horas (1906) o La sombra del ensueño (1910); tradujo para la monografía sobre Leopardi la poesía «El sueño». Por último, destaquemos a Rafael Cansinos-Assens (1883-1964), defensor del Modernismo, que ayudó a crear las revistas Grecia, Ultra, Perseo y fue traductor de Maquiavelo, Pirandello, Goethe, Shiller, Balzac... Sus memorias La novela de un literato son imprescindibles para conocer el Madrid literario de comienzos del siglo.

     Al fin, en 1928 se publican las Poesías de G. Leopardi, traducidas en verso por Miguel Romero Martínez, Madrid, C.I.A.P. Fue esta versión la que utilizó el poeta Luis Cernuda, o dicho con las palabras de Rafael Montesinos: «quien habla prestado la voz al Cernuda de Las nubes [...] Leopardi a través de las traducciones del erudito sevillano Miguel Romero Martínez» («El rumor del agua», en A una verdad: Luis Cernuda, Sevilla, 1988, pp. 55-61). Juan Luis Panero confesaría a Montesinos que el citado ejemplar de Cernuda «estaba profusamente anotado por el poeta sevillano».

     Siguiendo con los poetas de la Generación del 27 nos hallamos con la figura de Gerardo Diego, el cual estuvo en Italia en 1934 con motivo de su luna de miel, después volvió en 1946 y 1953. En su obra encontramos alusiones a Pirandello, Oreste Macrì y Ungaretti, referencias a ciudades como Venecia, Siena, Bolonia, Roma... Pero es el poema largo La luna en el desierto y otros poemas el que le sirve a Gerardo de homenaje al poeta.

     Compañero de Diego fue Jorge Guillén, que estuvo en Italia ya en 1910, aunque más importante fue su viaje de 1934, y el tercero, en 1951. Desde 1954 hasta 1971 su presencia, aunque intermitente, se podría considerar [41] como asidua. Vivió en Florencia y estableció relaciones amistosas con Eugenio Montale, Carlo Bo, Mario Luzi, Piero Bigongiari, Oreste Macrì o Giorgio Caproni (que le dedicará un artículo). Guillén traduce e interpreta algunos versos de los poemas «La sera del dì di festa», «Alla luna», «Canto notturno d'un pastore errante dell'Asia», «La vita solitaria», «Il sabato del villaggio», «Il tramonto della luna», a los que engloba bajo el titulo genérico de Leopardi, recogido en Homenaje. Aunque se trata de traducciones, bien podrían considerarse obra propia, pues la unión de estos versos pertenecientes a diferentes poesías forma una composición autónoma, con un valor intrínseco, tal y como ha escrito Gabriele Morelli en su ensayo sobre «Jorge Guillén e Italia» (La claridad en el aire. Estudios sobre Jorge Guillén, Murcia, CajaMurcia, 1994, pp. 225-41). Aparte de esta composición debemos añadir los dos poemas dedicados a Recanati: «La ciudad conmovedora. Recanati» y «Admiración de las apariencias (Recanati)».

     Más curiosa es la composición, ya señalada por Joaquín Arce, «Margen vario. La inmensidad, el mar», en donde Guillén parte con el último verso de «L'infinito» de Leopardi, E il naufragar m'è dolce in questo mare, y acaba con el brevísimo poema de Ungaretti M'illumino / d'immenso, construyendo un único poema donde señala cómo a él no le es dulce naufragar en ese espacio inmenso.

     Otro poeta que parece que tuvo un conocimiento tardío fue Rafael Alberti (jamás lo cita en sus memorias), lo que no impidió que le dedicara en 1971 un poema, «A Leopardi», en el que aparecen elementos leopardianos: «el silencio sostenido», «infinita soledad», «desierto dolor», «vaga estrella», y termina afirmando «el naufragar / en este mar qué dulce me sería».

     Nada hallamos sobre Leopardi en la obra de la denominada «poesía social», aunque sí del alicantino Juan Gil-Albert, autor del poema titulado «Y sin embargo» (1961), dedicado a Leopardi y para Antonio Colinas. El poema alude a la vida que presiona, a esa vida que no se desea vivir. Usa Gil-Albert los adjetivos triste, funesto, arisco, huraño, pero es la adversativa que da nombre al poema lo que marca la diferencia, aunque para ello se sirva de otra figura-símbolo leopardiana, el pájaro con su canto: [42]

                               La vida nos aprieta, a veces, tanto,
que más que una caricia nos parece
que no es la vida. Es vida sin el gusto
de quererla vivir. Es una sombra
de la vida que amamos, de la vida
que se nubló con grises tan espesos
que no deja del oro de la vida
ni un desmayo de sol: todo está triste,
funesto, arisco, huraño, decisivo,
como un muro de piedra...
                                    Y sin embargo,
cada noche pasada, y cada día,
canta el pájaro fiel en la ventana
su lamento gozoso.

     Posteriormente, de la denominada por Carmen Riera «Escuela de Barcelona», es Carlos Barral el más leopardiano, pues según nos cuenta Ivonne Hortet, su viuda, I Canti fue uno de sus libros de cabecera. Un año antes de su muerte todavía mostraba su deseo de «Releer el Zibaldone y cartas de Leopardi» (Los diarios 1957-1989, Madrid, Muchnik, 1993, p. 327). Los versos tres y cuatro del poema «La vita solitaria» de Leopardi dan título al poema «... Ed al balcon s'affaccia l'abitator dei campi, e il sol che nasce...» de su libro Usuras y figuraciones (Barcelona, Lumen, 1979). Barral no recoge el pesimismo leopardiano, tan al uso, sino la imagen del campesino que se asoma al balcón mientras el sol nace y expande su luz.

     De los poetas de las sucesivas generaciones destacamos a Antonio Colinas (1946), Premio de la Crítica en 1975 por Sepulcro en Tarquinia, y Premio Nacional de Literatura en 1982 por Poesía reunida (1967-1981). Fue incluido en la antología de Víctor Pozanco Nueve poetas del resurgimiento (Barcelona, Ámbito, 1976). Su dedicación a Leopardi ha sido muy amplia en el tiempo. Ya en 1971 comenzaron sus trabajos sobre el poeta. En 1974 apareció Leopardi (Madrid, Júcar), una antología precedida de más de cien páginas de estudio, que incluye catorce cantos y dieciocho páginas de prosas varias. En 1981 publicó un edición de Diario del primer amor, Cantos, Diálogos y Pensamientos, con el título de Poesía y prosa, con [43] otro amplio estudio que completaba el anterior (Madrid, Alfaguara, 1981; hay una reedición de 1997 para el Círculo de Lectores con el título Obras). En 1988 se publicó su obra más ambiciosa, trescientas páginas de biografía en la que la crítica y los estudios más recientes sobre el poeta están presentes; se titula Hacia el infinito naufragio, con el subtítulo, en letra pequeña, «Una biografía de Giacomo Leopardi». Ya desde la primera página se pone de manifiesto la relación del poeta con su ciudad natal, que no es odiada en sí misma, pues el poeta ama su tierra, pero a un espíritu grande como el suyo ésta lo asfixia por sus limitaciones culturales e intelectuales.

     Tan amplia dedicación ha propiciado que Colinas no haya aparentemente sentido la necesidad de dedicarle un poema, al menos de forma expresa, aunque, según él mismo confesó al profesor Carmelo Vera, el poema XXVII de Noche más allá de la noche (1980-1) estaba inspirado en el poeta de Recanati:

                               [...] ¿Y quién soy yo? pregunta en el centro del Todo
un cuerpo que recuerda a la nada, materia
deforme en el curso de un dolor que corrompe.
Estrellas, mis estrellas, invisible fluido
conduce hacia vosotras mi música y la vuestra
en mis venas revierte en fogosa crecida [...].

     Transcribo un fragmento del libro en prosa de Colinas Tratado de armonía (Barcelona, Tusquets, 1991, p.75) por creer que recoge el espíritu del Leopardi de «L'infinito»:

                                    Una fila de espesos árboles detrás de la tapia de un huerto. ¿Sólo son árboles? ¿Sólo forman una línea de verdor? No. Como en ciertas páginas de Leopardi o de Proust, esa línea de arboleda vela el misterio, es reflejo y atmósfera del paraíso, de infinitud.

     Dos años más joven que Colinas es Eloy Sánchez Rosillo (1948), Premio Adonais en 1977 por Maneras de estar solo. Con ritmo pausado ha ido publicando traducciones de Leopardi en diferentes revistas (Cantiga, junio 1982; Fin de Siglo, marzo 1983; Postdata, Murcia 1986; La Opinión, Murcia, 4 julio 1990; Hoy, Badajoz, 29 septiembre 1991; y Ultramar, Santander, diciembre 1997), todas ellas recogidas en una Antología poética [44] (Valencia, Pre-Textos, 1998), que reúne los veinte cantos más próximos a la poética de Rosillo, y con unas exquisitas notas informativas, nada academicistas y de sugerente lectura.

     Rosillo ha dedicado a Leopardi un poema; se halla en su libro La vida (1996) y se titula «Recanati, agosto de 1829 (Homenaje a Giacomo Leopardi)». El poema está escrito en primera persona: es la voz de Leopardi que nuevamente se halla en su ciudad natal, con el único consuelo de su hermana Paolina, y con la tristeza melancólica de una vida que se ha ido con la juventud; el resto sólo es pasivo letargo:

                               Ha caído la noche. Desde el cielo
mira la compasiva luna llena.
Sobre el hondo silencio de los campos
tiembla la luz de las constelaciones.
A mi memoria acuden las imágenes
del ayer. El recuerdo me depara
la extraña flor de la melancolía.

     El tercero entre los poetas actuales que más atención ha dedicado a Leopardi ha sido Andrés Trapiello (1953), Premio de la Critica en 1993, que últimamente ha narrado su visita a Recanati («Recanati», Clarín, Oviedo, nº 11, sep.-oct. 1997, pp. 63-70). En 1987 escribió sobre el poeta «La sombra de la felicidad» (recogido en Viajeros y estables, Diputación de Albacete, 1993). De 1995 es otra prosa, «La sombra de Leopardi» (Mil de mil, Valencia, Pre-Textos, 1995); del mismo año es un poema que da nombre al librillo Al leer a Leopardi (Hotel Internacional. Galería Nacional de Praga, Cáceres, 1995). Trapiello, en segunda persona, se pregunta qué le lleva a dicha lectura:

                               Al leer a Leopardi
¿te escondes de la vida o es tu vida,
el dolor de tu vida, lo que a él
te conduce? El sufrir puedes nombrarlo,
la infinita tristeza de las cosas,
los límites del mundo tan lejanos
y tus pequeños males.
No el arte de los versos: el consuelo,[45]
el íntimo consuelo que nunca proporciona
ni la literatura ni los libros.

     José Luis Garcia Martín, poeta y antólogo depoesía, recoge en su libro Siluetas (1992) la de Leopardi con los siguientes versos: «Translúcidas palabras en el papel dibujan/ la exacta geometría de la desesperanza». Entre los poetas españoles recogidos en su antología sobre la joven poesía española (Las voces y los ecos, Madrid, Júcar, 1980), encontramos a Carlos Clementson (1944), poeta cordobés que cuenta cómo «De mis dieciséis o diecisiete años me viene la devoción a Giacomo Leopardi». Años más tarde, en 1995, escribía en homenaje al profesor Antonio de Hoyos «Nocturnos de Recanati (Leopardiana para Antonio de Hoyos)» (Homenaje al prof A. de Hoyos, Academia Alfonso X, Murcia,1995, pp. 105-26), que incluye tanto sus traducciones como sus composiciones sobre el poeta («Giacomo Leopardi contempla las estrellas», «Lunario intemporal», «Del dolor y la nada» e «In memoriam»). Clementson presenta al poeta absorto en la contemplación de la noche estrellada, sediento de belleza. O bien se fija en esa luna de Leopardi que los ojos del profesor homenajeado ya no podrán ver: «Ya no iremos jamás juntos a Italia». También alude a la inmortalidad de las pequeñas cosas citadas:

                                           en el misterio
germinal de las cosas
                                   que no pasan:
el albor de la luna, la retama
o la torre de música
                                  en el alba
del ruiseñor nocturno,
                                     o el cantor solitario
de amor rendido a otra pasión más alta.

     Vicente Gallego (1963), en su libro Los ojos de un extraño (Madrid, Visor, Premio Fundación Loewe 1990), recoge la composición «Tras una lectura de Leopardi», donde el joven poeta se pregunta cómo tanto tiempo atrás alguien pudo sentir con igual intensidad lo que él hoy experimenta. Resulta novedosa la clara identificación del poeta valenciano con ese otro joven de otro tiempo y lugar: [46]

                               ¿cómo pudo aquel joven, hace casi dos siglos,
tener noticias claras de mi vida,
conocer mis afanes, registrar mi cansancio;
ante la noche hacerse una pregunta
cuya respuesta ignora todavía la noche,
y escribir todo eso con palabras
que supieran burlar las celadas del tiempo?
¿Y para qué apuntar entonces con torpeza
lo que otros dijeron con acierto,
y para qué vivirlo? Y sin embargo,
la vida sigue siendo hermosa y triste,
y esos versos de sombra, extrañamente,
han traído la luz hasta esta tarde.

     El poeta Aquilino Duque en su libro Las nieves del tiempo (Col. La Veleta, nº 18, Ed. Comares, Granada, 1993) une la figura de Leopardi a la de Keats, ambos paseantes en su día por Roma, todavía vivos entre el infinito y la eternidad. Se trata de la composición «Keats y Leopardi» dedicada a José Luis Cano:

                               ¿La vida absurda? ¿Fango el mundo?
Si aún estáis vivos hoy, en Roma,
a dos de junio del ochenta y seis,
¿no lo estaréis también allá
donde en el fin está el principio,
en el todo la nada,
y el tiempo y el espacio se disuelven
en lo infinito y en la eternidad?
No escribe Dios los nombres en el agua.

     Hay en los poetas nacidos a finales de los años cuarenta y principio de los cincuenta un gran conocimiento de Leopardi, pero hay también la necesidad de que el poeta de Recanati deje huella en la obra propia con sus versos o como personaje protagonista del poema. Jaime Siles (1951) en su libro Canon (Premio Ocnos 1973) incluye los versos 30 y 31 del poema «Amor y Muerte»:

                               languido e stanco insiem con e sso in petto
un desiderio di morir si sente. [47]
                          Leopardi
Pues si hechos son y están
de tiempos hechos,
en una eternidad caben los mismos.
 
Los jinetes, la sangre, las espadas,
el acero encendido,
la cabalgata última
y el acto,
en un instante pueden haber sido
si los recuerdo ahora ejecutados.

     Cada poeta sigue su camino, y el joven poeta actual es consciente de que, para recorrer el suyo, Leopardi es una etapa obligada. Como ha escrito el poeta gaditano Felipe Benítez Reyes (1960) en el ensayo introducción a su poesía reunida que lleva por titulo Paraísos y mundos (Madrid, Hiperión, 1996, pp. 12 y 19):

                                    La poesía, como todo arte, se ejerce desde un carácter, y cada uno es lo que es. (Por eso casi nadie es Garcilaso, Darío o Leopardi.) Se escribe, en fin, como esencialmente se es, y según se es. [...] Si yo citase a Cernuda, Borges, Pessoa, Leopardi, Brines, Eliot, Gil de Biedma o Manuel Machado -podrían ser algunos otros-, no estaría citando exactamente a mis maestros, sino a mis modelos ideales, es decir, no a quienes procuro parecerme, sino a quienes quisiera igualar.

     El propio Felipe Benítez Reyes le dedicó la composición «Giacomo Leopardi: La peregrinación a Loreto» en su libro Vidas improbables (Madrid, Visor, 1995) con el que obtuvo el XVI Premio Ciudad de Melilla:

                               [...] Pero pronto
se nubla el corazón del pensativo
y, solitario,
regresará a su cueva de amargura,
donde el humano afán se torna oscuro
y el hondo desengaño
del vivir y el gozar tiene su trono.

     Qué duda cabe de que la figura de Leopardi está hoy presente en los jóvenes poetas españoles. Muchas son las ediciones que encontramos de los [48] Canti en nuestras librerías: las de Diego Navarro, Juan Bautista Bertrán, Loreto Busquets, José Luis Bernal, Nieves Muñiz, Antonio Colinas, Eloy Sánchez Rosillo o Martínez de Merlo. Varios de ellos, poetas. Quizás a todo ello contribuyese una década limitada por dos aniversarios: el 150 aniversario de su muerte en 1987, y el doscientos aniversario de su nacimiento en 1998. Aunque puede parecer anecdótico, en una sociedad como la nuestra la atención de medios de comunicación, editoriales, universidades, congresos..., hace que cualquier aniversario se convierta en un fenómeno que trasciende los reducidos círculos de lectores y estudiosos.

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Leopardi: la vida solitaria (el espacio último de los Cantos)

Antonio MORENO

I.E.S. - Elche

[50]

- I -

     Considerada en su conjunto, la obra poética de Giacomo Leopardi se asemeja a un amplio círculo que encierra toda una sucesión de figuras concéntricas: tal es su trabazón y la enorme compacidad de sus motivos. Al pensar en la índole de ese circulo resulta tentador recordar aquellos nueve que describió su admirado Dante, con la diferencia de que el autor de los Cantos no contó en su viaje existencial con otra compañía que la de su precaria conciencia: ni la intercesión de una Beatriz, ni los avisos de un guía que le enseñara el camino, ni la luz de un Dios providente. No es que Leopardi recree el infierno de la soledad; sus versos son la encarnación del infierno que vive el ser caído en medio de la nada. Ése es su averno, el dolor de existir como única certidumbre, mas creyendo en el fondo en un posible paraíso para la existencia; descubrir el velo de las ilusiones confiándose, paradójicamente, a ellas.

     La obra de Leopardi constituye uno de los pilares que explican al hombre contemporáneo. Como tantos otros más tarde, él descubrió que el erebo no era un lugar relacionado con el Más Allá, sino con el simple hecho de vivir. Vacías las estancias del Olimpo, deshabitado el cielo cristiano, sólo queda el castigo del presente: la nada. Esa mudanza del infierno desde el orden religioso del Más Allá al caos agnóstico del acá es la que, con diferentes grados y matices, después llevarían a cabo autores como Baudelaire y Rimbaud, el Valle-Inclán de Luces de Bohemia o Kafka, por citar algunos de [51] los nombres frecuentemente relacionados con el pensamiento en crisis de nuestro siglo ysu pérdida de un orden y un destino: nueva cristalización ésta de un infierno surgido tras la quiebra del pensamiento metafísico y el embarrancamiento de la razón ilustrada.

     Dos son los libros coetáneos que a menudo se citan como el umbral de la lírica contemporánea: Hojas de hierba, de 1855, y Las flores del mal, titulado también en 1855 y publicado sólo dos años más tarde; o lo que es lo mismo, la poesía profética, liberadora y antilibresca del nuevo mundo frente al spleen y la orfandad del hombre fragmentado del viejo continente. Pero los linderos sólo actúan con claridad sobre la abstracción de los mapas: la realidad resulta siempre más difusa y compleja. La idolatría de lo moderno nos lleva a buscarle padres a lo contemporáneo, y olvida que nada nace nuevo bajo el sol. En cualquier caso, si hemos de identificar algunas de esas paternidades, deberemos remontarnos al ambiguo clasicismo del romántico Leopardi, al que habría que relacionar con el quehacer del alemán Hölderlin, o con el del inglés John Keats, sólo tres años mayor que el poeta de Recanati. Los tres vieron en la civilización helénica y latina un hermoso ejemplo de armonía entre la naturaleza, los hombres y sus dioses. Sus creencias nacen de un lúcido rechazo de lo moderno. La causticidad con que Leopardi arremetió contra el mito del rampante progreso cientifista, contra la modernidad del positivismo y el gran fetiche de lo útil, se reparte por toda su obra. A su «secol di fango» contrapone la «aurea età» de los tiempos antiguos. «Hay algún siglo que en las artes y en las disciplinas, por no hablar de lo demás, presume de rehacerlo todo, porque nada sabe hacer», escribió en uno de sus Pensamientos.(1)

     En «A Angelo Mai», su canto tercero, desarrolla con toda nitidez una de las preocupaciones de esta modernidad a la que acabo de referirme: el tedio causado por el cansancio histórico y el excesivo grado de civilización. Mientras la humanidad avanza en la Historia, se aleja de las ilusiones de su pasada juventud, exactamente como le ha sucedido al sujeto Giacomo Leopardi en concreto. Hay, pues, un absoluto paralelismo entre la evolución histórica y el crecimiento personal de cada individuo: la pérdida de los [52] felices engaños, de los «pensieri inmensi» y «dolci sogni»; en suma, de las ilusiones, que en el poema «Los recuerdos» sitúa en el tiempo de su niñez y primera mocedad. El exceso de sabiduría y de razón, representado en «A Angelo Mai» mediante la hermosa metáfora del mapa -símbolo de la ciencia y del conocimiento-, asfixia nuestra capacidad de entusiasmo, y su resultado es «questo secol morto, al quale incombe / tanta nebbia di tedio»: otra vez el viejo tema del Eclesiastés.

     La ilusión importa más que el conocimiento de la verdad porque ésta no ayuda a vivir, mientras que el «dulce engaño» es una proyección que nos empuja a la vida(2). Leopardi vio en la antigüedad un tiempo en el que el uso de la razón no pisoteaba todavía los estímulos vitales y la belleza de seguirlos. Como Hölderlin, forjó su ucronía. Pero en ello no debe verse tan sólo la tendencia romántica a refugiarse en tiempos pretéritos, sino la creación de un modelo vital y cultural distinto al de su «età superba». Del mismo modo que los escritores del renacimiento inventaron su antigüedad, Leopardi o Hölderlin idearon la suya, y este modelo es, desde entonces, el paradigma de clasicismo del que, en buena parte, se ha servido la poesía. Un modelo cuya vigencia no ha hecho, tras los trasiegos y convulsiones de las vanguardias, más que aumentar en este siglo. En la poesía española no pueden entenderse los versos de un Luis Cernuda o Las ilusiones de un Juan Gil-Albert ignorando la estricta contemporaneidad de ese modelo, que ha aportado toda una visión del mundo presente y del pasado, y una poética con un cauce expresivo que llega hasta nuestros poetas últimos, como Antonio Colinas o Eloy Sánchez Rosillo. Vicente Gallego, una de las voces destacadas dentro de la llamada «poesia de la experiencia», en su composición «Tras una lectura de Leopardi» rinde homenaje a la intemporalidad de su obra(3).

     Es asombroso hasta qué punto cabe relacionar los Cantos con las creaciones de escritores españoles de distintos períodos: con el pesimista desengaño de algunos de nuestros poetas barrocos; tal vez, con los paseos solitarios o el filosofar campestre de un Meléndez Valdés o un Cienfuegos; pero, sobre todo, con«El mal del siglo» -título de un poema del colombiano [53] Asunción Silva- de los escritores finiseculares de aquí o de Hispanoamérica.

- II -

     Antes me he referido al «ambiguo clasicismo» de Leopardi, aunque acaso sea más preciso hablar de clasicismo ficticio o ilusorio. Lo más frecuente es asociar tal concepto, el de clasicismo, con los ideales de proporción, armonía, predominio de la naturaleza sobre el artificio o imitación de los modelos antiguos, entre otros caracteres. A primera vista son caminos seguidos por este poeta (ya hablamos de su invención de un nuevo paradigma); pero su confianza en el mundo clásico parece que no pueda proporcionarle las seguridades que cabría esperar. Aquella irradiación ha quedado en tinieblas, vencida por una soledad para la que no existen refugios sin fisuras. A lo más que ha llegado el asilo de los antiguos patriarcas (Homero, Horacio, Virgilio, Dante...) es a la luz de un plenilunio. El beatus ille horaciano no es otra cosa que la maldición que pesa sobre un ser apartado del orden de la naturaleza. Veamos algunas de esas fisuras que cuartean el mundo añorado por Leopardi.

     Un motivo recurrente en su poesía es la evocación de la Arcadia, la imaginaria y utópica región de la literatura pastoril. Varios son los cantos que representan la pintura de una «santa naturaleza», fecunda e íntimamente compenetrada con el género humano, que vivía en estrecha comunicación con todo lo creado. «A la primavera» o «Himno a los patriarcas» recrean esa edad de oro, la «aurea età» en que los hombres existían felices, exentos de culpa y de tristezas, sin ambiciones, ignorantes del destino, y con una conciencia mitigada por las dulces y engañosas ilusiones, que velaban la realidad de las cosas. Es un estado de mítica inocencia que la civilización grecorromana situaba en el pasado, que Don Quijote recuerda al contemplar los rústicos alimentos con que unos cabreros le agasajan y que Leopardi radica justo en el tiempo del que huían griegos y romanos... Pero creer en las ilusiones no da el privilegio de vivirlas; más bien la decepción de [54] probar la imposibilidad de engafiarse con su espejismo. Ahí comienza el agrietamiento de ese mundo clásico.

     El «Canto nocturno de un pastor errante del Asia», una de sus cumbres poéticas, ilustra con claridad esto que digo. Es una composición alegórica cuyo protagonista no se entrega a los bucólicos ejercicios de los habitantes de la Arcadia: ni las justas poéticas del canto amebeo de los pastores virgilianos, ni invocaciones a las musas, ni la descripción del locus amoenus; no hay amores a lo Sannazaro, tampoco cosmogonías o profecías de un futuro restaurador de tiempos definitivamente felices; tan sólo un hombre extraviado en el desierto que pronuncia a solas, en medio de la noche, el doloroso absurdo de la existencia. El suyo no es, naturalmente, un extravío físico o geográfico; se trata de una pérdida existencial. La vida se reduce a un torturado viaje con los pies ensangrentados, un andar incesante «por agudos riscos, arenales y malezas» hasta el abismo horrible, el «abbisso orrido, inmenso». El pastor errabundo dirige a una luna distante e inconmovible sus vanas preguntas y envidia la falta de conciencia del rebaño que apacienta. Si la vida es sufrimiento, tedio y dolor, ¿para qué emprender ese viaje a la nada? Todo esto puede recordar a un Schopenhauercon zampoña, cayado y zurrón, si se me permite la broma, pero no a un habitante de la Arcadia(4).

     En su aparente factura clásica, el «Canto nocturno» nos interesa muy especialmente porque todo él simboliza el desmoronamiento del orden literario pretendido: las ruinas de la literatura pastoril y su mito de la Arcadia. Este hombre «viejo, canoso, enfermo,/ apenas vestido y descalzo,/ con carga pesadísima a la espalda», ¿qué tiene que ver con los jóvenes pastores que imaginamos al evocar los ambientes bucólicos? Su agitación, su errar sin tregua ni sentido bajo la soledad de un cielo infinito compendian a las claras la imposibilidad de salvación alguna: no cuenta con el sustento de la fe religiosa; tampoco con el alivio del amor; es un viejo caduco expulsado del paraíso: el propio Leopardi de cuerpo entero, que en sus otros poemas no hace más que referirse a sí como un alma vieja en un cuerpo joven. De la Arcadia al abismo de la tierra, el infierno de una de las soledades más hirientes y absurdas de la literatura de todos los tiempos. [55]

     La quiebra de Leopardi no es, ni mucho menos, la primera, pero sí la más patética y definitiva. El pintor francés Nicolás Poussin (1594-1665) se acercó en una de sus más hermosas pinturas a esta crisis del ideal clasicista; me refiero a su cuadro Los pastores de la Arcadia. Aunque dedicó dos obras distintas al tema del descubrimiento de la muerte en esa tierra sin aflicciones, la más célebre es la que fue vendida al rey Luis XIV Tres jóvenes pastores descubren un monumento donde se lee la inscripción Et in Arcadia ego. Es una tumba desde la que la muerte les advierte de su presencia y de la caducidad de toda dicha. Una mujer, tal vez una sacerdotisa, acaso la propia muerte, presencia la escena y consuela la perplejidad de uno de ellos; su otro compañero medita, y el tercer pastor toca con asombro las letras grabadas en la piedra. El tema es sin duda grave, pero el paisaje sereno que les rodea sigue siendo el de la Arcadia, y los jóvenes todavía visten sus cabezas con coronas de laurel. El clasicismo barroco aún camina por esa mítica región; el de Leopardi, en cambio, habla de un exilio sin posible retorno. El poeta de los mejores cantos no es aquel que recrea los viejos tópicos, sino el que los vive como sustancia propia. En este sentido, como todo gran poeta, Leopardi crea un espacio personal, funda un locus nuevo: los desiertos, el cerro solitario del monte Tabor, el «ermo colle» de «L'infinito». Pero de esto hablaré más adelante.

     Ya ha aparecido en estas páginas el concepto de las ruinas. No creo que sea una mera coincidencia el hecho de que el primero de los Cantos, «A Italia», comience con una invocación a la antigua gloria de Roma en medio de sus ruinas, y que el último poema de larga extensión y de arquitectura más compleja y ambiciosa del libro, «La retama o la flor del desierto», también surja a partir de ese mismo motivo literario. De las ruinas abstractas de un esplendor deseado para la Italia de sus días, Leopardi evoluciona hasta el hallazgo de las ruinas concretas y presentes de Pompeya y Herculano, al pie del monte Vesubio. Las primeras vienen a ser -con los textos antiguos descubiertos por Angelo Mai- el único reducto de los grandes ideales clásicos, que el joven poeta cree poder recuperar con la sencilla invocación de un ubi sunt? patriótico y exaltado; las segundas, esas ruinas de las laderas del [56] Vesubio, transcienden su concreción:son los cascotes y escombros de aquellos ideales, convertidos en parte de un estéril desierto.

     No es nada audaz ver en esa «fiore del deserto» un símbolo o correlato del autor, como el pájaro solitario, o como aquel pastor errante y noctámbulo expulsado del antiguo centro del universo. Ahora, sin embargo, frente a la vanidad de todo, la flor pervive humilde, conforme con su efímero destino.

     La naturaleza es la madrastra de cuyo seno el ser humano ha sido implacablemente apartado sin ningún motivo. No existe en esa segregación el peso de un pecado o de alguna culpa bíblica; es tan arbitraria y dolorosa como el incomprensible nacimiento a la vida: «Arcano e tutto,/ fuor che il nostro dolor», todo es arcano, menos nuestro dolor, llora en su «Último canto» una Safo incapaz de participar de la armonía y la belleza de un mundo que la excluye por su fealdad(5). La entonación de su lamento llega a recordarnos en algunos versos el conocido primer monólogo de Segismundo en La vida es sueño, cuando empieza a decir: «Apurar, cielos, pretendo,/ ya que me tratáis así,/ qué delito cometí/ contra vosotros naciendo»(6). Como esta Safo reducida a una condición de esclava de la Naturaleza, el príncipe de Calderón también interpela al cielo demandando alguna respuesta; y, como un Segismundo, Leopardi le escribía en la primavera de 1817 a su amigo el escritor Pietro Giordani: «Y yo de dieciocho años podré decir:¿viviré en esta caverna y moriré donde he nacido?» Resulta demasiado fácil y llamativo reducir el dolor universal de Leopardi a su circunstancia personal, a su desvalido papel de «giobbo di Recanati», y, además de ello, sería injusto. Su soledad y su impotencia para sumarse a la vida, ese mal suyo del extrañamiento y de la ausencia, describen hasta el fondo nuestro íntimo e insalvable desamparo, el paso del antiguo orden del mundo al caos, cuando faltan los dioses, los ideales y las ilusiones. Varios de sus síntomas fueron resumidos por José Asunción Silva en el poema antes citado(7):

                               el mal del siglo... el mismo mal de Werther,
de Rolla, de Manfredo y de Leopardi.
Un cansancio de todo, un absoluto
desprecio por lo humano...; un incesante [57]
renegar de lo vil de la existencia,
digno de mi maestro Schopenhauer;
un malestar profundo que se aumenta
con todas las torturas del análisis.

- III -

     Decía al principio de estas notas que los poemas de Leopardi se asemejan a una sucesión de círculos concéntricos: casi todos, como suele ocurrir entre los autores elegíacos, giran en torno a unos pocos temas en los que se sondea más y más. Algunos de los segmentos de esos círculos han sido descritos, pero esta aproximación mía sólo llega a la parte más epidérmica de sus composiciones; esto es, a su pensamiento, dejando intacto su centro lírico, en el que tal vez sea imposible penetrar. De hecho, poco de lo apuntado hasta ahora tiene que ver con la honda poesía de los mejores Cantos. Podemos, por ejemplo, referirnos a la doble visión que de la naturaleza tienen estos poemas: a esa imagen metafísica que ve en ella una fuerza inclemente que aflige a sus criaturas, o bien a esa otra mirada más contemplativa que entabla un coloquio apasionado con las cosas; pero todas estas lecturas no serían más que elucubraciones, filosofías traídas con mejor o peor fortuna. Ésa es la costra crítica que termina por ocultar la vida que late en un poema verdadero. El lirismo no es descriptible; sí la retórica; también las ideas. De «La calma después de la tormenta», por poner otro ejemplo más preciso, podemos decir que el sentimiento de esa naturaleza purificada tras la lluvia ya no se alimenta de los decorados literarios, que representa el paso del arquetipo a lo concreto; podemos decir que Leopardi trae a su poema presencias captadas de la vida, que revitaliza el idilio clásico, alejándose paradójicamente de él a través de una pincelada impresionista; y sin embargo sería decir poco o nada, porque su lirismo es el fruto de una intensidad que dejó de lado al erudito y filólogo Giacomo Leopardi para mostrarnos la soledad de un hombre. Alguien que no pudo dejar de creer en la ilusión de la felicidad. [58]

     «La innata tendencia del hombre a la felicidad está siempre presente en su espíritu, aun teniendo conciencia de que la felicidad sea inalcanzable», escribe Vera Passeri sobre el poeta de Recanati(8). Ésta es, en mi opinión, la piedra angular de los Cantos: la necesidad de sentir la vida en un grado máximo de plenitud. Los poemas del ciclo de Aspasia resumen dramáticamente la tensión entre la elevación y la caída, entre el amor y la muerte. En un extremo estaría «El pensamiento dominante», donde el poeta, pese a conocer de sobra -ya contaba por entonces con una dilatada y penosa experiencia- la naturaleza engañosa del sentimiento amoroso («sogno e palese error»), se entrega totalmente a él; en el otro extremo está el desengaño y la nada de «A sí mismo», «l'infinita vanità del tutto».

     El cernudiano conflicto entre la realidad y el deseo tiene en Leopardi su primer gran poeta. Sus versos son una sucesión de grandes ilusiones seguidas de terribles caídas o desengaños En este sentido podemos hablar de una muerte progresiva, conforme va perdiéndose la capacidad de ilusionarse, de engañarse. El desengaño conoce en su obra una escala sin término. Cada grado de desencantamiento es un paso hacia la desdicha y la muerte. Lo mismo que Séneca o Quevedo entendieron cómo nuestra existencia no es otra cosa que una serie de muertes sucesivas, Leopardi nos muestra la agonía vital que es la erosión o pérdida de las ilusiones. Su trayectoria revela la inutilidad de un imposible estoicismo y el fracaso de lasincitaciones a la vida; la fluctuación entre la fe y el nihilismo más descarnado. Esto aclara las frecuentes dualidades antitéticas que señalan su poesía.

     Casi todos los Cantos son interpelaciones y coloquios que evidencian un espíritu ansioso de comunicarse. La invocación a la patria ideal, a los antiguos númenes, al ideal representado por los autores clásicos; la creencia en una Arcadia, la fe última en el amor, han sido diálogos fracasados. Cuando Leopardi se dirige a sí mismo sólo encuentra amargura y hastío, «amaro e noia».

     Pero en el círculo más pequeño hay un espacio solitario e irreductible donde cesa todo coloquio, y en el que, inefablemente, se confunden la vida y la muerte, no la «invocata morte» del Leopardi desengañado, sino una [59] muerte que es vida; o, si se prefiere, al contrario, una vida que se parece a la muerte. Es el locus desierto, el páramo despoblado y nocturno de «El infinito», o el cerro desde donde, por una sola vez en toda su obra, el poeta se funde con la luz del mediodía en su poema «La vida solitaria»:

                               Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
la sua tranquilla imago il Sol dipinge,
ed erba o folglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
strider, né batter penna augello in ramo,
né farfalla ronzar, né voce o moto
da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giaccian le membra mie, né spirto o senso
più le commova, e lor quiete antica
co' silenzi del loco si confonda(9).

     En este espacio de ilimitada quietud y de completo silencio Leopardi alcanza la casi imposible conciliación de la nada y el infinito. Aquí entramos en el terreno de un tipo de espiritualidad que escapa a toda definición lógica, pues se trata de una aventura sin creencias de partida, de una comunión entre el ser y el no ser; en resumidas cuentas, de la unión con el último rincón de un universo de creencias, ilusiones y valores desmantelados: el Misterio. La superación de los límites y esa unión con el misterio fue tratada por los autores místicos, o por Francisco de Aldana en su epístola a Arias Montano, pero siempre dentro de un orden religioso orientado hacia Dios. Leopardi camina hacia la «otra realidad» con un total despojamiento de principios confesionales. Su visión preludia los descensos al misterio de los poetas simbolistas. En este sentido Leopardi coincide plenamente con la espiritualidad agnóstica o nihilista de nuestros días, centrada en la ciega necesidad de transcendencia que toda finitud consciente experimenta en su aquí y ahora frente a una realidad infinita. [60]

NOTAS

     1 Giacomo LEOPARDI, Pensamientos, Valencia, Pre-Textos, 1998, p. 39.

     2 Rafael ARGULLOL profundiza en este y otros pensamientos en torno al tema en «Sabiduría de la ilusión: Leopardi», en Sabiduría de la ilusión, Madrid, Taurus, 1994, pp. 59-84.

     3 Precisamente Antonio COLINAS y Eloy SÁNCHEZ ROSILLO son dos destacados traductores de los Cantos. El poema de Vicente GALLEGO se encuentra en su libro Los ojos del extraño, Madrid, Visor, 1990, p. 41.

     4 La afinidad entre el pensamiento de Leopardi y el de Schopenhauer ha sido estudiada desde muy temprano. De 1878 data la traducción que PALACIO VALDÉS dio del interesante libro de E. CARO El pesimismo en el siglo XIX. Un precursor de Schopenhauer, Leopardi, Madrid, Casa Editorial Medina. En sus páginas describe la «enfermedad del siglo» (p. 27), representada por estos dos autores.

     5 Este tema de la exclusión de la vida, de la incapacidad de sumarse a ella, fue heredado por los escritores españoles de fin de siglo. Un solo ejemplo entre varios posibles: «Domingo», perteneciente a Caprichos, de Manuel MACHADO.

     6 Calderón DE LA BARCA, La vida es sueño, Madrid, Anaya, 1985, p. 32.

     7 Poema recogido por José OLIVIO JIMÉNEZ en su Antología crítica de la poesía modernista hispanoamericana, Madrid, Hiperión, 1994, pp. 160-161. Ángel L. PRIETO DE PAULA ha reflexionado sobre este mal, que él llama «de la tierra», en su trabajo «Desde Leopardi a los escritores españoles de fin de siglo: hacia una caracterización del mal de la tierra», Quaderni di Filologia e Lingue Romanze, 3ª serie, núm. 6 (1991), pp. 63-80.

     8 Vera PASSERI PIGNONI, «Sobre el pensamiento filosófico de Leopardi», Crisis, números 7/8, julio-diciembre, 1955, pp. 445-453.

     9 LEOPARDI, Antología poética, edición y traducción de Eloy SÁNCHEZ ROSILLO, Valencia, Pre-Textos, 1998, pp. 32 y 34. Ofrezco su versión del fragmento (pp. 34 y 35): «Allí, cuando en el cielo es mediodía,/ su imagen apacible el sol refleja;/ ni hoja ni hierba agítanse en el viento;/ no se encrespan las ondas; la cigarra/ no canta ni sus plumas bate el pájaro;/ no hay mariposas; voz o movimiento/ no oigo o veo a lo lejos ni a mi lado./ Hondísima quietud tiene esa orilla,/ donde casi del mundo y de mí mismo/ me olvido, inmóvil; y mis miembros sueltos/ paréceme que yacen, sin que espíritu/ o sentido los muevan, y su calma/ con el silencio del lugar se funde».

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«La sera del dì di festa»: el destierro en la tierra, o la paradoja de un locus leopardiano

Ángel L. PRIETO DE PAULA

Universidad de Alicante

[62]

     En la breve relación de poemas escritos por Giacomo Leopardi, no todos permiten vislumbrar comprensivamente la personalidad del autor. Todos, sí, plasman alguno de sus componentes vivenciales o estéticos; pero varios atienden a una de las inclinaciones sentimentales o intelectuales que darían, consideradas aisladamente, una imagen inexacta del poeta. Algunos, en cambio, al margen de la calidad literaria, contienen a Leopardi. Entre ellos, hay que citar la primera composición de alguna extensión en que queda fijado el universo del poeta de Recanati, ya plenamente reconocible. Me refiero a «La sera del dì di festa», donde aparecen los loci que, a partir de ese momento, constituirían el mundo cada vez más cuajado del autor: noche lunar, apelación nostálgica a la edad de oro de la Antigüedad, disociación romántica entre el yo y el mundo. La entidad «leopardiana» en absoluto de un poema tan temprano explica la razón de su éxito en la literatura europea, visible en las abundantes imitaciones y traducciones que ha tenido en los siglos XIX y XX; por mi parte, echo mi cuarto a espadas con la traducción al español que hago del mismo, y que doy en anexo. El poema fue publicado en el periódico milanés Il Nuovo Ricoglitore, aunque con el título de «La sera del giorno festivo», que se mantuvo en la primera edición de los Canti (Florencia, 1831); fue en la segunda edición (Nápoles, 1835) cuando cobró el título definitivo.

     Nos encontramos ante un idilio cuya fecha de composición debe situarse en los meses centrales de 1820, cuando el poeta, al filo de sus veintidós [63] años, está aún recluido en Recanati, el pueblo natal considerado por él como una cárcel. El poema es, sin duda, una de las cimas de la poesía de Leopardi; pero no es una obra convencionalmente perfecta, sino que presenta anomalías y desvíos respecto a un canon compositivo más o menos acordado, en los que radica su grandeza y originalidad, pero de los que también derivan las reservas con que a veces se le ha considerado. El Leopardi de 1820, cuya precoz madurez no ha eliminado del todo algún resto de su último tramo formativo, compone «La sera del dì di festa» con materiales autobiográficos, reflexivos y provenientes de la historia de la cultura, en una heterogeneidad que deja ver el espíritu de las canzoni no subsumido del todo en el de los idilli, grupo el último al que pertenece este poema. Pues, en efecto, los estímulos de una poesía civil y heroica por un lado, y los de una escritura de raíz evocatoria e idílica por otro, inciden en estos versos simultáneamente, aunque no con la misma fuerza; pero no diluyen sus respectivas particularidades en una esencia poética unitaria. También por entonces -1820- escribe Leopardi «Ad Angelo Mai»; anteriores, de 1818, son las primeras canciones de los Canti, «All'Italia» y «Sopra el monumento di Dante»; y en 1821 compondría «Nella nozze della sorella Paolina», «A un vincitore nel pallone» y «Bruto minore» (y en enero de 1822 «Alla primavera o delle favole antiche»). Si especifico esto es para resaltar el dominio que, en la época en que redactó este poema, tienen en su creación los rasgos propios de las canzoni, como el clamor por las glorias pasadas, la aversión de un presente horro de grandeza y de pujanza espiritual, el amor a una patria amenazada, la añoranza stendhaliana del heroísmo... (rasgos, por cierto, bien visibles incluso en una composición que, por razón de su arranque temático, obedece más a razones de tipo personal y familiar, como «Nella nozze della sorella Paolina»). La muerte en el campo de batalla, como ejemplo de una actitud oferente en el ara de los valores de la Antigüedad -por ejemplo la de los griegos en «All'Italia»-, es cantada con una entonación pindárica, y el despeñamiento hacia la nada, como una vocación aniquiladora, ofrece una llamarada de redención que no asoma ya en otras muertes «contemporáneas». Ese empuje de invención de un pasado, y el de [64] un patriotismo exacerbado de idealidad, convertirían al solitario de Recanati, a poco de su muerte, en una bandera del espíritu del Risorgimento. El presente es un territorio vacío de ideales, lo que provoca una retórica confutación del mismo por parte del poeta, en quien el asco que siente ante él ofrece numerosas evidencias, y se corresponde más ampliamente con el odio a la contemporaneidad en poesía -aquí hay que situar la polémica respecto a la poesía romántica-: el hoy se burla de lo noble, lo grande, las pasiones y el amor patrio (Zibaldone, 12 de julio de 1823). Para Leopardi, la poesía debe acogerse al espíritu ya desaparecido que alienta en una visión idealizada -y, añadimos nosotros, engañosa- de la clasicidad grecolatina, de modo que una poesía «contemporánea» en razón de los temas deja de ser por ello mismo poesía. Pues bien, en el lapso cronológico que va de 1819 a 1821, el poeta abre una senda alejada en más o en menos de la entonación heroica, y es el camino en el que irán situándose los hitos de sus primeros idilios: «L'infinito», «La sera del dì di festa», «Alla luna», «Il sogno» y «La vita solitaria». En todos ellos se produce la contigüidad y aun la confusión sentimental entre el paisaje y el autor, quien, en una suerte de panteísmo al revés -por cuanto la oquedad trascendente de su yo termina contaminando a la naturaleza-, proyecta sobre el universo el cercenamiento de sus esperanzas amorosas, el dolor lancinante de vivir, el silencio de un tiempo pasado cuya reminiscencia culturalista llena de dolor el presente, la pesadumbre ante las consideraciones sobre la temporalidad, la inanidad de la existencia y la muerte.

     La difícil sutura entre lo heroico y lo idílico, y, en correlación, entre la retórica inflamada y tremolante de la primera entonación -aunque muy acotada y restringida en este poema- y otra más matizada y evocativa, propia de la segunda, es sólo una marca, de división y de anexión a un tiempo, entre otras también perceptibles, como la existente entre unos materiales procedentes de la lectura de los clásicos y del universo de la cultura -en este poema en concreto, la interrogación retórica del ubi sunt?, vv. 33 - 37-, y los provenientes de las propias experiencias vitales, que pugnan por emerger cada vez con mayor determinación y que se prolongan en diversas reflexiones filosóficas. Pues el Leopardi que ahora está consolidándose utiliza [65] el autobiografismo como elemento vehiculador de sus reflexiones filosóficas. Así se puede notar, desde luego, en las concomitancias entre los poemas y ese «cuaderno de notas» que es el Zibaldone, perteneciente a la tradición fragmentaria setecentista (Vauvenargues) o del Romanticismo alemán, más conducido por lo biográfico que las reflexiones de los Parerga y paralipomena de su contemporáneo Schopenhauer y que los aforismos de Nietzsche, en un anticipo de lo que sería, por ejemplo, el Diario de Kierkegaard. Y otro tanto puede decirse si cotejamos los poemas con su Epistolario, lo que nos permite ver con nitidez la esencial identidad entre el sujeto poemático y el hombre que los escribe. De este modo, los elementos biográficos del poema que comento -experiencia de la resaca psíquica que sigue a la fiesta (tanto en la edad adulta como en la infancia), percepción dolorosa de un canto de alguien que se retira a su hogar, desesperación y tormento por la fugacidad del mundo-, por más que puedan parecer demasiado imprecisos como para conectarlos con vivencias específicas y concretas del autor, están inequívocamente aludidos en diversos fragmentos del Zibaldone, lo que abona el carácter experiencial de estos elementos temáticos del poema.

     He hablado de la heterogeneidad de los componentes de «La sera...», como si no estuvieran fundidos del todo, lo que permitiría el discernimiento individual de cada uno de ellos. Este rasgo compositivo es muy notorio en la secuencia argumental del poema, en que un elemento temático -el canto- va ahilando, no siempre de manera evidente, notas descriptivas y narrativas, materiales topificados de la cultura, autorreferencias psíquicas. Precisamente la reivindicación que hace del poema la leopardista Mª de las Nieves Muñiz Muñiz tiene por objeto defenderlo de las «acusaciones» de fragmentarismo y de desconexión entre sus diversos formantes(1). Resultaría fácil achacar dicha desconexión, al menos aparente, a falta de lima; pero en carta a su primo Giuseppe Melchiori (5 de marzo de 1824) alude al proceso de composición de cualquiera de sus poemas, pues, aunque es «visto» en un súbito rapto de inspiración, no vuelve a él hasta después de transcurrido un tiempo y, cuando lo hace, avanza con gran lentitud (dos o tres semanas hasta que considera acabado el poema). Ello supone la atenuación del impacto [66] inicial a partir del que echa a andar el poema: «El infinito no se puede expresar sino cuando no se siente». Hay ahí concomitancias con Coleridge -poesía como pasión recordada en la tranquilidad- o con Bécquer («cuando siento no escribo», afirma el sevillano en la segunda de las Cartas literarias a una mujer). Así que no resulta apropiado achacar tales contrastes a la falta de lima, en alguien cuyo taller creativo obedece a esa parsimonia a que se refiere en la carta a Melchiori. ¿Puede hablarse, entonces, de restos de bisoñez? Seguramente; aunque no se me oculta que llamar bisoño a un poeta que había compuesto en 1819 «L'infinito» es, más que arriesgado, temerario. Pero en «L'infinito» el poeta nos hurta la ganga anecdótica, cultural y autobiográfica, de la que extrajo esa visión reflexiva tan maravillada como maravillosa, y que, por ello, nos ofrece sólo la quintaesencia extraída de no importa qué materiales previos, con lo que resulta mucho más fácil conseguir esos quince endecasilabos de absoluta y genial compacidad, de congruencia precisa y sinóptica, que son no ya una cima de la lírica de Leopardi, sino de toda la literatura italiana. Lo cierto es que en «La sera...» existen injertos que interrumpen la sucesión de los versos, y que provocan diálogos contrastivos con otras zonas del poema, de modo que éste va avanzando, en distintas velocidades y entonaciones, y a través de transiciones poco explícitas, hacia lo que constituye el nudo espiritual de la composición: el encogimiento del corazón ante la contemplación de unos hechos muy tenues pero de significación espiritual devastadora. Esto no quiere decir que los elementos que habitan en el interior del poema tengan la misma entidad, puesto que, como oscuramente intuye el lector y más nítidamente comprende el crítico, unos terminan succionados y absorbidos por los más intensos.

     En el desarrollo anecdótico del poema van superponiéndose unas estampas de situación que se conjuntan en la consciencia del dolor propio, provocado por el contraste entre la alegría ajena, incluida la de la dama amada e ignorante del sentimiento que despierta en el amante, o insensible ante él, y la consciencia por parte de éste de su destierro en la tierra, como ser segregado de cualquier paraíso y arrojado a un mundo en el que no [67] consigue echar raíces. La desilusión tras la fiesta deja al aire la verdad de una existencia desgraciada (en Zibaldone, 529, 20 de enero de 1821, reflexiona sobre ello: la frustración de las expectativas es tanto mayor cuanto más bellas y engañosas hayan sido tales expectativas), y choca violentamente con la alegría o la despreocupación de quienes si están arraigados en el suelo del mundo: el resto de la humanidad. El tema del tiempo introduce una orientación que apenas desvía la atención de la desoladora melancolía ínsita en el poeta, particularmente relevante cuando, en el espacio contemplativo de la noche lunar, se agudiza al escuchar un canto de alguien que se retira alegre a su hogar, lo que le retrotrae hasta su infancia, cuando, también después de alguna festividad, un canto parecido que llegaba a su cuarto, cada vez menos audible, le provocaba idéntica tribulación. Pero ya veremos cómo la sucesión, unas veces, y el solapamiento, otras, de los diversos planos argumentales, dificultan la convergencia en una sentimentalidad unitaria.

     En lo que respecta a la actitud, la composición arranca de una extraordinaria placidez contemplativa, que más tarde será abruptamente interrumpida. Los versos 1-4 acotan el espacio de esa contemplación, que cobra un aire escrutador e íntimo, propiciado por el que será desde entonces un locus arquetípicamente leopardiano: la noche. Los poemas lunares del poeta de Recanati proyectan un universo en el que no se cruzan esos pocos solitarios que con justicia merecen el nombre de poetas lunares o de la noche, como Lucrecio o Virgilio, como Fray Luis, como Novalis, como Claudio Rodríguez. En Leopardi la inmensidad del cielo es trasunto de su propensión a lo infinito por un lado, a lo indefinido por otro: lo infinito y lo indefinido se conjuntan en ese mar, más allá de los sentidos, en que al poeta le resulta dulce naufragar, según reza el verso final de «L'infinito». En su obra poética ocupan un puesto destacado los poemas lunares, como «Alla luna», «Canto notturno di un pastore errante dell'Asia», «Il tramonto della luna», o varios otros en que interviene la noche como espacio de las reminiscencias y de la plenitud del sentir, cuando las luces de las apariencias dejan paso a las formas prístinas de los conceptos universales, que hacen acallar lo sucedáneo, lo accesorio, lo inesencial. En esa reminiscencia -noche como [68] inversión de las gárrulas evidencias diurnas, conocimiento retrospectivo de lo primordial-, encuentra el hiperestésico un silencio en que se escucharán con acuidad y podrán mejor descifrarse los mensajes de la naturaleza: de ahí que, como en las paradojas místicas, la noche sea «chiara» y reveladora. No, es por casualidad que en 1813, a la casi increíble edad de quince años, el interés no sólo poético de Leopardi por el espacio astral, tan conectado a la idea de la noche, le llevara a escribir una Storia dell'Astronomia. Ya importa menos que los versos de arranque de este poema procedan, muy punto por punto, de otros de Homero que él cita en traducción propia al italiano en el Discorso di un ítafiano intorno alla poesia romantica (1818): las fuentes de las que bebe cada poeta no menoscaban su originalidad, si es que la posee por otros conceptos. En el caso concreto de este poema, asombra extraordinariamente la capacidad para metabolizar las innúmeras referencias intertextuales, impidiendo que la materia autobiográfica quede sepultada bajo el peso de una herencia literaria tan espesa(2). Importa más la morosidad conseguida por Leopardi, que mediante su sucesión polisindética («e chiara... e senza vento, e queta... e in mezzo... e di lontan...») consigue imponer un estatismo pasmoso, en el que la noche es ocasión para la revelación de las formas, robadas al tráfago del día y al dinamismo estéril, frente a los que opone, con los verbos de esos cuatro primeros versos («è», «posa», «rivela»), ideas de esencialidad y de iluminación.

     La placidez de la noche se concreta un poco más cuando aparecen (vv. 5-6) las referencias que descienden a presentar la vida latente del pueblo, según ecos virgilianos: los senderos silenciosos, las lámparas que entrelucen tras las ventanas, precedido ello de una apelación a la amada («O donna mia», v. 4), cuya función en el poema no es sólo la de introducir una nueva línea temática, sino la de convertir estructuralmente toda la composición en un monólogo que el poeta dirige mentalmente a su interlocutora muda y ajena. Gracias a este injerto, el poema pierde la neutralidad expositiva para tornarse una confesión destinada a chocar contra el muro de la inadvertencia de la amada, a la que no en balde, como se encargan de aclarar los versos siguientes (7-10), imagina dormida, despreocupada del todo de los [69] motivos que alimentan esta lamentación. La estampa de la joven dormida es una representación, más que de la insensibilidad en una acepción estrictamente moral (el sueño y placidez de la muchacha contrastan con la vigilia del amante, quien se duele de una herida que ella le ha provocado, y en la y e que ni siquiera reparará), de la inocencia ajena al dolor. La actitud pasiva de la amada recuerda de lejos los tópicos stilnovistas, aunque la sutileza psicológica del amante borra cualquier vestigio de calcificación retórica: la dama «già» no sabe ni piensa en la gran herida provocada en su pecho. El «già» (v. 9) señala tanto la inconsciencia actual, como el olvido de algo que sí se supo (y se habla de una herida causada en el día que acaba de concluir; muy poco tiempo para tamaño olvido): he aquí un adverbio trasmutado, quizás a despecho del poeta, en un juicio de valor.

     En la realidad, el contraste entre insensibilidad e hiperestesia obedece al mismo esquema semántico de la oposición entre naturaleza y civilización, que aparece una y otra vez en Leopardi. Este juego de opósitos suele adoptar, cuando se expresa con claridad, un simplismo engañoso, puesto que aplica los valores «ingenuos» de la naturaleza a la vida de la Antigüedad clásica -la civilización, claro es, se corresponde con la contemporaneidad-: los antiguos vivirían inocentemente acordes con la naturaleza, mientras que los modernos son, en sentido literal, bárbaros o extranjeros respecto a esa naturaleza. En su creencia, el alejamiento de la naturaleza provoca una desnaturalización, en que consiste la barbarie contemporánea. Su actitud antirromántica en poesía, a la que antes se ha aludido, ha de entenderse en esta dirección. En relación con ello, la naturaleza representaría la inconsciencia del daño -la amada dormida, ignorante del mal que ha provocado-; y la civilización, una sensibilidad, la del sujeto, lacerada y destruida por las lecturas. Sólo teniendo en cuenta este contraste se entiende que Leopardi considere que el filosofeggiare es uno de los signos de esta barbarie de la contemporaneidad, en que toda belleza queda abolida; lo que requiere, claro es, del engaño previo consistente en pensar que la filosofía es tan propia del progreso y de la civilización, como la ignorancia virginal lo fue de la edad de oro(3). [70]

     El encuentro entre irresponsabilidad (actitud adamítica, inconsciencia carente de culpa) y dolor se concreta en el que se produce entre la amada durmiente y el amante insomne, y se resuelve cuando (vv. 11-16) la contemplación de la noche por parte de éste significa la confirmación de una aflicción que forma parte imprescindible de su propio ser. Hay un diálogo estructural: el sueño se opone a la vigilia («Tu dormi: io... a salutar m'affaccio»), la insensibilidad a la sensibilidad exacerbada. Enlazando con lo dicho hace un momento, ahora el equivalente de esa amada insensible es la propia naturaleza, revestida de una crueldad visible en su monólogo, orientado así a la estigmatización del sujeto: «A te la speme/ nego, mi disse, anche la speme; e d'altro/ non brillin gli occhi tuoi se non di pianto». No se le niega ya la plasmación real de la esperanza, sino la misma esperanza que permitiría compatibilizar la vida con las expectativas finalmente engañosas. La maldición no tiene otro sentido que el de presentar como necesarios los dolores del hoy; no fruto ocasional y adventicio debido a unas circunstancias, sino cumplimiento de un destino previo, ese que la naturaleza le hace conocer y del que el canto retrospectivo de los versos finales constituirá un anuncio fatal. La constatación, por parte del amante, de que él no tiene sitio en los sueños de la amada (vv. 17-21), es sólo un detalle de ese destino que se cumple en el presente.

     A partir de este punto se produce la irrupción violentísima de un dolor personal activo (vv. 21-24), que hace saltar en pedazos el clima idílico que había ido creándose desde los versos demorados del comienzo. Si el poema había llegado aquí, concentrando la amargura en la inadvertencia que del amante y de su dolor tiene la amada, la pregunta que sigue y que provoca el estallido patético no parece conectada necesariamente con lo anterior (y ésta es una de las costuras visibles en el poema, según la lectura que vengo proponiendo desde el comienzo): pues, en efecto, se trata de una propuesta interrogativa sobre lo que le queda de vida al sujeto, interrogación que, aunque podría entenderse como el enriquecimiento del poema con la emergencia de un tópico, el del tempus irreparabile fugit, da la impresión más bien de apuntar a una terra incognita: el dolor por la vida futura, [71] signada para siempre por el desamor y por la desesperación. ¿Cuánto aún he de seguir sufriendo?, parece preguntarse en realidad el poeta. Pero, en fin, en esta suerte de desviación temática respecto a lo que había estado presente hasta ese momento, lo más importante es la actitud que sucede al interrogante, expuesta mediante una gradación climática unida por nexos copulativos («per terra/ mi getto, e grido, e fremo»). Esta desconexión relativa puede verse también como un modo de conexión en que las relaciones entre tramos temáticos le vienen impuestas al poeta por una impulsión no del todo consciente; lo que explica la tenuidad, y hasta la inexistencia a veces, de los engarces referenciales que facilitarían el discurso. Debido a ello, el patetismo de la gradación (v. 23) no se aprecia literariamente como una dimanación de la pregunta que se hace sobre el tiempo que le resta por vivir; pero, sin duda, sí dimana vitalmente de ella, pues en carta a Giordani, de 24 de enero de 1820, se refiere a ambos términos como una sola unidad psíquica. En cualquier caso, existe discordancia clara entre el dolor sereno y «nocturno» del poema, tal como había venido desplegándose hasta aquí, y esta desesperación de postal romántica, afirmativa y retórica, que concluye con una exclamación apostrófica e imprecatoria («Oh giorni orrendi...»). Entiendo el patetismo hiperbólico de la adjetivación como un signo de la juventud del poeta, que, aunque aparece también en su etapa de madurez, lo hace de una forma generalmente más desvaída.

     Según se ha sugerido, la parte nuclear del poema es la del canto, escindida en dos presentaciones distintas: ahora (vv. 24-27) es «il solitario canto» de un artesano que regresa a su hogar de madrugada, estampa de la felicidad ignorante y no contaminada por la civilización, que agranda el dolor del que escucha desde su balcón (en Zibaldone, 50-51, alude al efecto que le producía en semejantes circunstancias ese canto, que rompía un silencio nocturno que parecía haberse tragado la civilización romana, en un anticipo del ubi sunt? que se expresa enseguida en el poema); al final de la composición (vv. 43-46), es el canto de parecidos momentos en la infancia. Los efectos que el canto produce en el poeta adulto (v. 28) son idénticos a los que producía en el niño que fue (v. 46): un encogimiento del corazón. [72] Pero si el niño notaba esa angustia desvinculada de otras reflexiones -o, al menos, en el poema no se especifica ninguna vinculación, como si se tratase de una angustia de causa desconocida-, en estos versos se explica que la constricción del pecho proviene de las consideraciones ante la fugacidad de todo lo humano, que desaparece sin dejar apenas huellas de su paso. ¿Qué conexión existe entre el canto del paisano y la idea de la fugacidad? A ello alude, según acabamos de señalar, en Zibaldone,- pero no conocemos con pormenor el mecanismo de la asociación, que debe de operar así: el espacio de la noche, amplio e indefinido, actúa como caja de resonancia de las preocupaciones habituales del poeta, entre las que está en primerísimo lugar la fugacidad de las cosas; ese mismo espacio es un libro sucesivamente vacío en el que van escribiéndose los acaeceres de los hombres, y que, al igual que el agua después de haber sido hendida por la quilla del barco, recupera tras cada registro fugaz la presencia anterior, la infinitud del vacío; el canto hiende el aire, como la quilla del barco hiende el mar, para irse apagando hasta desaparecer y dar paso, otra vez, al silencio de las constelaciones. La recurrencia del motivo en los versos finales nos permite colocar aquí las piezas que sólo allí se ofrecen; se trata de «un canto che s'udia... lontanando morire a poco a poco» (vv. 44-45). La regresión hasta la infancia actúa de manera pareja a la atracción desde el presente histórico hacia el tiempo de la antigüedad, en que el poeta sitúa la inocencia anterior a la civilización. En el fragmento no existe una secuencia temática pautada según una lógica explícita: el angor pectoris está provocado por el consecuente (la actividad de los hombres está condenada a desaparecer sin dejar rastro, como la señal en el agua producida por la quilla del barco) más que por el canto del artesano, el antecedente que dobla temáticamente -en el efecto del lector- la serenidad de la joven durmiente que ha provocado la herida en el corazón del poeta.

     El intento de personalización de la respuesta a la pregunta retórica del ubi sunt?, que aún no se ha planteado formalizadamente, lo aborda el poeta a renglón seguido (vv. 30-33), cuando reduce la fugacidad de las cosas a la sustitución del día de fiesta, que ya se ha ido, por el día vulgar, que [73] ya ha llegado; al transcurso de los días, concreción de la fugacidad humana, se suma el también doloroso reingreso en la normalidad. Hay en el poema una como segregación o hiato entre las intenciones aparentes y el efecto de las mismas en el lector: el poema parece estar dispuesto para conmovernos con sus gesticulaciones patéticas, y el lector se siente conmovido más bien con la serenidad sin alma; aquél nos echa encima la fugacidad del tiempo, y al lector le atrapa sobre todo la vuelta a la normalidad, ese infierno más crudo después de saber que el cielo no era lo que se esperaba.

     Los versos que siguen (33-37) son la parte más mineralizada del poema, con las letanías interrogativas del ubi sunt? Lo mismo que con el canto del lugareño ocurrió con «il fragorio» de los romanos: la referencia al fragor de los ejércitos, como correlato del canto del artesano, aclara este mecanismo de asociación para expresar la idea de fugacidad de los acaeceres humanos; idea que se concreta en los versos que registran este topos, ya muy desvitalizado en la época de Leopardi, cuyos precedentes humanistas cuentan con nombres como Petrarca y Sannazaro, aunque su recursividad encuentra un momento de gran rendimiento setecentista en la melancolía de Ossián, cuyos textos hablan sido traducidos por Cesarotti al italiano casi inmediatamente después de que se produjera la superchería de James Macpherson. Ni siquiera un poeta tan hondo y personal como Leopardi consigue ablandar la corteza del motivo, cuya codificación absoluta no deja resquicio para la personalización expresiva. La respuesta conclusiva y generalizadora (vv. 38-39) es obvia y obedece a las expectativas; sin embargo, la conexión entre el olvido universal de las glorias pasadas y el tema de la noche del que había arrancado el poema, facilita tanto la actualización de esta parte del tópico -la respuesta- como el enlace de los diferentes tramos de una composición en que la tendencia dispersiva de sus componentes se refrena mediante estas concordancias internas.

     En los versos finales se produce un discurso sintáctico un tanto complejo, y en algún momento embarranca la dulzura métrica, que se mantiene a lo largo del poema con pocas excepciones. Ahora los endecasílabos parecen avanzar con dificultad, exigiendo incluso violentas contracciones [74] prosódicas para reprimir a duras penas la hipermetría (v. 42: «ch'egli era spento, io doloroso, in veglia»), en una tensión provocada por el traqueteo de los acentos y la sincopación de los sintagmas, en correspondencia con la tribulación del niño y con la propia aflicción del hombre que recuerda, niño y hombre superpuestos temporalmente y fundidos espiritualmente por un mismo pesar. La tensión conseguida comienza después a aliviarse, hasta relajarse del todo en el demoradísimo verso penúltimo: «lontanando morire a poco a poco». Éste da paso al cierre, ese broche externo, pero también interno, en la medida en que actúa como nuevo e importantísimo conector de referencias que, sin él, hubieran quedado dispersas, evitándose así que el poema aparezca como una capa de pobre hecha de retazos nobles. El canto que el sujeto oía de niño, a medida que iba perdiéndose poco a poco, y que se situaba cronológicamente también después de una fiesta anhelada, se resuelve «similmente» con un encogimiento del corazón: en esta contracción angustiosa se expresan los diversos dolores de los que han dado cuenta estos cuarenta y seis endecasílabos blancos.

     Si nos olvidamos del resto del poema y nos centramos por un momento sólo en estos versos finales (40-46), notamos, en primer lugar, que el«io doloroso», el yo afligido e insomne que se revuelve en la cama, podría entenderse como el resultado simultáneo de la frustración de los deseos y de los propios deseos: la fiesta, una vez transcurrida, provoca aflicción; pero la fiesta esperada provoca también, per se, aflicción. Lo primero aparece con nitidez: ya en la edad infantil -antes de que hubiera comenzado a actuar el proceso de una temporalidad que lo conduciría a la meditatio mortis, y al cabo a la melancolía de la historia- el fin de fiesta era motivo de desconsuelo, tal como aparece en tantos poemas del simbolismo europeo; en este caso, aun no muy explícitamente, la melancolía proviene de la ilusión destronada; en palabras de S. Navarro Pastor: «La frustración cambia de grado, como también cambia de grado la postura ante la misma: la decepción inconsciente, a la que no acompañan otras consideraciones, y la reflexión sentenciosa acerca de la extinción definitiva y sin dejar señal de las cosas del mundo, el poder aniquilador del paso del tiempo; un revés que deriva del [75] contraste entre la codicia con que algo se espera y su pronta consunción, y un lamento, de más hondo calado, que es debido a una desilusionada sabiduría de la vida»(4). He aquí, gnoscológicamente, la adquisición de una verdad desgraciada, he aquí un proceso de desengaño. Pero, si no yerro en mi apreciación, puede entenderse también la melancolía como algo que vive en la propia idea de la fiesta, una suerte de tristeza que ya agusana el fruto aún no conseguido. Nos encontramos entonces ante una dualidad en la configuración del pesimismo que nos recuerda vivamente a Schopenhauer, el filósofo de la voluntad, para quien la vida humana se mueve entre el anhelar y el conseguir. Cuál sea el mal que deriva de no obtener lo deseado, es fácil de colegir: la insatisfacción, la frustración. Pero también deriva el mal de los deseos cumplidos, pues éstos son sustituidos de inmediato por nuevos deseos, con lo que se regenera el afán acucioso que sitúa la felicidad en el territorio de lo no poseído; o, lo que acaso resulte aún peor, dan paso a las venenosas consecuencias de la saciedad: el tedio, el disgusto indefinible, la tristeza(5); la noia leopardiana, en suma. Es cierto que hay una honda sima entre el pesimismo de los dos pensadores, en cuanto que Leopardi aún se crea ilusiones aunque sean retrospectivas con respecto al tiempo de la Antigüedad, en tanto que Schopenhauer diseña un territorio cuya opacidad es incompatible con los dioses -ni pasados, ni presentes, ni futuros- y con los engaños del illud tempus(6); pero no deja de ser curioso cómo este mal del siglo lo es en grado sumo para ambos porque no parece tener posibilidad de cura de ninguna de las maneras: tanto si obtenemos lo deseado como si no, el mal del hombre proviene del mismo hecho de haber nacido, como concluyera rotundamente Calderón en La vida es sueño y expone Leopardi en diversos poemas (y también Schopenhauer se apunta a la misma idea). La salida del poema se produce mediante un cruce, a modo de quiasmo narrativo, entre el decrescendo de ese canto del lugareño, símbolo de una felicidad inconsciente que obtiene los zumos más jugosos de la vida, y el pujante angor pectoris que atenaza el corazón de quien escucha, antes como niño y ahora como adulto.

     En todo el poema brillan los contrastes dialogisticos entre ella y el [76] yo, entre el yo y lo otro, entre la serenidad insensible en su placidez y la hiperestesia dolorosa, entre la entonación idílica y el tremendismo patético, entre el precipitado de la autobiografía y lo heredado de la cultura. Los que aparecen como retazos temáticos hermosísimos se conjuntan -aún perceptibles las líneas de sutura- tras ser unidos por ese canto recurrente que hace que el presente aparezca contenido germinal y fatalmente en el pasado, como si se tratara de una profecía retrospectiva: la angustia del niño ante las notas del canto, perdiéndose en lontananza, contiene el embrión de esa angustia del hombre en la que convergen, como en el centro de una rueda radiada, las fuerzas en tensión que soportan el poema: soledad cósmica de un espacio sin dioses, inanidad de los afanes humanos, desamor, panteísmo invertido (panateísmo, si vale el neologismo). El presente viene, así, a confirmar el pasado, a confirmar, al fin, una lección bien amarga: la de que el hombre -y, por sinécdoque, «un» hombre, Giacomo Leopardi, que está al cabo de este conocimiento letal- es un ser desterrado en la tierra. Su pesimismo no admite resolución eudemonista de ninguna manera, pues no hay proyectivamente ningún cielo futuro. Sólo tiene un anclaje en el pasado inventado: el de la «vida natural» de los antiguos, y de ahí que la sima de su pesimismo no sea tan tenebrosa como en el caso de Schopenhauer, según he dicho. Pero la muy tempranera sospecha de que se trata de una ficción, lo atormenta; pues el descubrimiento de la verdad trae consigo el desplome inmisericorde de todas las ilusiones idílicas, a las que «la sciagura e l'atra/ face del ver consunse/ innanzi tempo», como dice en «Alla primavera»; o, hacia el final de «A Silvia»: «All'apparir del vero/ tu, misera, cadesti». La sospecha de que la verdad está actuando como un ejército de termitas no ya sobre el presente, sino incluso sobre las ilusiones míticas del pasado, abruma a los hombres que, como Leopardi, parecen llevar en sí la consciencia de lo que afirmara La Bruyère: «Tout est dit, et l'on vient trop tard»; sabiduría en que alcanzaron extraordinarias cotas de perfección los simbolistas de fines del Ochocientos, y en cuya magmática opacidad ha levantado el siglo XX la fábrica de su melancolía. [77]

ANEXO

     Reproduzco a continuación el poema de Leopardi junto a mi traducción al español. Mantengo en la traducción el número total de versos, la escansión (endecasílabos blancos) y, sólo en cuanto ello no atenta contra la entidad poética exenta de la traducción, la distribución de los sintagmas en los versos.

                                 LA SERA DEL DÌ DI FESTA
           Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
5 posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t'accolse agevol sonno
10 nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m'affaccio,
15 e l'antica natura onnipossente,
che mi fece all'affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
20 prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch'io speri, [78]
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
25 mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni otrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian, che riede a tarda notte,
dopo il sollazzi, al suo povero ostello;
30 e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
35 ogni umano accidente. Or dov'è il suono
di que' popoli antichi? or dov'é il grido
de' nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
che n'andò per la terra e l'oceano?
40 Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
45 premea la piume; ed alla tarda notte
un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
 
          LA NOCHE DEL DÍA DE FIESTA
Dulce y clara y sin viento está la noche,
y la luna en los huertos y tejados
5 se posa inmóvil y, serena, alumbra
a lo lejos los montes. ¡Oh amor mío!,
las sendas callan ya, y en los balcones
algún que otro candil nocturno luce.
Tú duermes, entregada a fácil sueño
10 en tu tranquila estancia; no te angustia [79]
ningún desasosiego, y ni sospechas
la gran herida que en mi pecho abriste.
Tú duermes; yo me asomo a saludar
a este cielo benigno, y a la antigua
15 naturaleza todopoderosa
que me infundió esta ansiedad. «Te niego
la esperanza -me dijo-, aun la esperanza;
sólo de llanto brillarán tus ojos.»
Ha sido un día solemne; ahora descansas
20 tras el jolgorio, y quizás recuerdes
en tus sueños a los que hoy gustaste
y a los que te gustaron: mas no a mí,
que no tengo un rincón en tu memoria.
¿Cuánto viviré aún? Me arrojo al suelo,
25 y grito, y me estremezco, ¡Oh días terribles
en edad tan temprana! ¡Ay! Por la calle
no lejos oigo el solitario canto
del artesano que, tras el solaz,
vuelve a su humilde hogar en la alta noche.
30 Mi corazón se encoge fieramente
al pensar que en el mundo todo pasa
casi sin dejar huella. Ya ha acabado
el día de fiesta, y te sucede el día
laborable, y así se lleva el tiempo
35 todo humano quehacer. ¿Dónde está el eco
de los pueblos antiguos? ¿Y el bullicio
de nuestros célebres antepasados,
la pujanza de Roma, el fragor bélico
que recorrió el océano y la tierra?
40 Todo es paz y silencio, el mundo todo
reposa, y ya de aquello ni se habla.
En mi primera edad, cuando se espera
con ansiedad la fiesta, una vez
transcurrida, yo, en vela y afligido,
45 estrujaba la almohada; y si un canto
se oía en la alta noche por las sendas,
más y más apagado hasta morir,
ya igual que ahora me oprimía el pecho. [80]

NOTAS

     1 Véase, por ejemplo, esta afirmación: «Pierde, por ello [se refiere a la «suprema unidad del conjunto» que ensambla todas las piezas], legitimidad la visión de esta poesía como suma inconexa de «divinos fragmentos» (G. DE ROBERTIS) artificiosamente engarzados por el motivo del «canto» (FLORA, G. DE ROBERTIS, CONTINI), ya que la vaguedad del vínculo viene impuesta por la libre asociación de las imágenes conforme al «tiempo del ánimo» (FUBINI). Más aún, el secreto poético del idilio reside en ese mismo proceder por asociaciones involuntarias a partir de imágenes engarzadas de modo intuitivo: una noche serena, el plácido sueño de una mujer en el silencio de su estancia, un canto que se aleja decreciendo, el niño que espera ansiosamente la fiesta mientras escucha un canto parecido con inexplicable dolor» (Mª de las Nieves MUÑIZ MUÑIZ, en G. LEOPARDI, Cantos, edición bilingüe y traducción de la misma, Madrid, Cátedra, 1998, pp. 236-237).

     2 En la edición citada de los Canti, preparada por Mª de las Nieves MUÑIZ MUÑIZ, las páginas 671-679 recogen un amplio compendio de notas sobre el poema que comentamos, con un exhaustivo tratamiento de los ecos literarios que actúan sobre él.

     3 Vid. R. G., «La vita», introducción a los Canti, ed. de F BANDINI, Milano, Garzanti, 1989, 10ª ed., p. VIII: «Leopardi contrappone l'innocente e sereno stato di natura alla civiltà, condizione tormentosa che ha reso l'uomo insieme raziocinante e infelice. Sul piano della poetica questo pensiero si traduce in un singolare, antiaccademico recupero del classicismo, mirante ad attingere una remota antichità «naturale», non ancora contaminata dal progresso e dal filosofeggiare dell'uomo».

     4 «Canto y festejo en Leopardi y Claudio Rodríguez», Revista Hispánica Moderna, XLVI, núm. 2 (1993), p. 285.

     5 Cf. A. SCHOPENHAUER, Metafísica de las costumbres, trad. de R. RODRÍGUEZ ARAMAYO, Madrid, Debate / CSIC, 1993, p. 57.

     6 Sobre similitudes y diferencias entre Leopardi y Schopenhauer, atendiendo a sus influencias respectivas en la literatura española, he tratado en «Schopenhauer y la formalización de la melancolía en las letras españolas del Novecientos», Anales de Literatura Epañola, núm. 12 (1996 [1998]); serie monográfica, núm. 2 (Schopenhauery la creación literaria en España), pp. 55-87; y en «Claves de la desesperanza: leopardismo y schopenhauerismo en la literatura española del Novecientos», Quaderni di Filologia e Lingue Romanze. Ricerche svolte nell' Università di Macerata, 3ª serie, núm. 12, supplemento (1997), pp. 61-75.

[81]

ArribaAbajo

El leopardismo de José Alcalá Galiano y Fernández de las Peñas, Conde de Torrijos

Belén TEJERINA

Università di Roma «La Sapienza»

[82]

     Una serie de motivos intelectuales relacionados con hechos políticos impiden que en España se conozcan la vida y la obra de Giacomo Leopardi tan pronto como en otros países europeos. Fuera de nuestras fronteras, ya en vida del poeta recanatense, se publican algunas traducciones de sus poemas y se reseñan sus libros. Como se sabe, el primer artículo aparece en 1830 en Ausonia, revista dirigida a los ingleses residentes en Italia, que se editaba en Pisa. Anon publica aquí la primera traducción inglesa de varios fragmentos de Le operette morali. Dos años más tarde, en 1832, Francis Wrengham publica en Liverpool en Winters' Wreath la primera traducción de «All' Italia» (Quartemaine, 21). En Francia, en 1833, Charles Didier, en la Revue Encyclopédique (París, LVII, enero, pp. 171-6), reseña la edición de I Canti, aparecida en Florencia en 1831 en la imprenta de Guglielmo Piatti. En la misma aparecen las primeras traducciones francesas de algunos fragmentos de «All'Italia» (vv. 1-12), «Ad Angelo Mai» (vv. 311-38), «Nelle nozze della sorella Paolina» (vv. 31-45), «Alla Primavera» (Cantavenera, p. 6).

     Recordemos que en España hay que esperar hasta 1855, cuando Juan Valera y Alcalá Galiano (1827-1905) publican en la Revista de Ambos Mundos el primer artículo en lengua española titulado «Sobre Los Cantos de Leopardi» (Valera). Es indudable que la estancia del novelista español en la delegación diplomática de Nápoles (1847-1849), como colaborador del Duque de Rivas, fue determinante para conocer la personalidad y la obra de Giacomo Leopardi. Como subrayó hace años Franco Meregalli, sus obras están llenas de reminiscencias leopardianas (Meregalli). [83]

     En 1870, en la Revista de España (Alcalá Galiano, 1870), aparece el segundo ensayo escrito en español sobre el poeta recanatense, debido a la pluma de José Alcalá Galiano y Fernández de las Peñas, titulado «Poetas líricos del siglo XIX. Leopardi». Este artículo, a pesar de ser citado continuamente -aunque no siempre de forma correcta- no parece haber sido leído por todos los críticos. El único que demuestra haberlo hecho es Joaquín Arce (Arce, pp. 320-2). No hace falta subrayar que algún estudioso incluso llega a pensar que su autor es Antonio Alcalá Galiano, abuelo de nuestro escritor. Preciso es añadir que los redactores del Espasa dedican dos notas biográficas a José Alcalá Galiano; al parecer, creen que se trata de dos personas distintas de idéntico nombre: José. Todas estas imprecisiones relacionadas con nuestro escritor nos animan a trazar un breve perfil biográfico, basado en su expediente personal, conservado en Madrid en el Archivo del Ministerio de Asuntos Exteriores bajo la signatura P. 13, expediente 00294.

     José Alcalá Galiano y Fernández de las Peñas nació en Madrid el 1 de mayo de 1839. Fue bautizado al día siguiente, como muchos hombres de cultura madrileños, en la Parroquia de San Sebastián. Era hijo de Dionisio, que vivió tantos años fuera de España, en Londres y en París, a causa del exilio de su padre, don Antonio Alcalá Galiano. Dionisio, recordemos, trabajó al servicio del Estado, pero se vio obligado a huir de España por un asunto judicial grave; años más tarde, en La Habana dirigió el periódico más importante de la ciudad (Ortiz Armengol, p. 10).

     Necesario es comentar que José Alcalá Galiano empieza a trabajar en la administación española a los veintidós años, en 1861. Desempeñó distintos puestos, ascendió continua y progresivamente, y el 14 de diciembre de 1864 está destinado ya en el Ministerio de Fomento como «Oficial auxiliar de la clase 5ª». En 1866 entra en la carrera diplomática. Su primer destino (21-II-1866) es el de vicecónsul de España en Civitavecchia, hecho que hasta el momento ha pasado inadvertido a la crítica. Su estancia en Civitavecchia, a diferencia de Stendhal (1783-1842), fue brevísima: tomó posesión el 17 de abril, y el 18 de noviembre le nombran Oficial 1º de la [84] Secretaría de las órdenes de Carlos III y de Isabel la Católica. Es evidente que en esta fugaz estancia en Italia seguramente tuvo la oportunidad de conocer más a fondo la obra y la personalidad de Leopardi. Aquí presumiblemente nacería su decisión de colmar la gran laguna intelectual existente en torno al poeta italiano y traducirlo al castellano. En esta breve estancia en tierras italianas adquiriría las últimas obras de Leopardi hasta entonces publicadas, que demuestra conocer y haber utilizado en su ensayo. Cabe añadir que Leopardi no era con anterioridad un poeta desconocido al joven diplomático. Por el grado de parentesco y de amistad que le unía a Juan Valera, probablemente habría leído el primer artículo español dedicado al poeta de Recanati, y lo lógico es que hubiera intercambiado impresiones y material bibliográfico con su amigo y pariente Valera.

     Es necesario hacer hincapié en los distintos destinos que tuvo José Alcalá Galiano como cónsul de España, puesto que sus vivencias en el extranjero quedan reflejadas en su producción intelectual. Estos destinos fueron varios, aunque breves, excepto en contadas ocasiones. Estuvo, como acabamos de decir, en Civitavecchia (1866), Jerusalén (1878-1879), Charleston -U.S.A.- (1879-1882), Newcastle-on-Tyne (1882-1892), Singapur (1893-1894), Bayona (1894-1900), Marsella (1900-1908) y Lisboa (1908-1910). En 1910 es nombrado Cónsul en Túnez, pero no tomó posesión por tener que jubilarse (12-XII-1899). Cuando era Cónsul en Francia, le concedieron por sucesión el título de Conde de Torrijos. Murió en San Sebastián en 1919. Su hijo Fernando Luis Alcalá Galiano Smith heredó el título en 1920.

     Pepe Alcalá Galiano, como le llamaban sus amigos, es fundamentalmente un poeta, de ahí su facilidad para traducir versos al castellano. Su primer libro ve la luz en 1861 (Alcalá Galiano, 1861), patrocinado por su eminente abuelo Antonio; es la traducción de Manfredo, poema dramático de Lord Byron (1788-1824), que volverá a publicar en 1886 junto con Caín y Sardanápalo, acompañado de un prólogo de su amigo Menéndez y Pelayo, traducciones que le consagran todavía hoy como estudioso de Byron. En 1911 publica la traducción de La trágica historia del Doctor Fausto, con [85] un prólogo de José de Armas (Alcalá Galiano, 191l). Queremos recordar, además, El estereoscopio social, publicado en 1872, con un largo prólogo de su gran amigo Pérez Galdós (Alcalá Galiano, 1872). Se trata de un libro curioso donde satiriza con humor algunos aspectos de las gentes y las ciudades en las que había estado. Sus impresiones sobre los países orientales las plasma, a raíz de su estancia en Singapur, en la conferencia que dictó en el Ateneo de Madrid en 1894 (Alcalá Galiano, 1894). Publicó también numerosos artículos en los periódicos más prestigiosos de la época: Escenas Contemporaneas, La Época, Blanco y Negro, El Gato Negro, El Imparcial, La Ilustración Española y Americana y la Revista Contemporánea. Todos estos artículos todavía están sin catalogar.

     En 1870, cuando José Alcalá Galiano y Fernández de las Peñas publica el ensayo sobre Leopardi, declara haber traducido hacía tiempo los poemas del poeta:

                                    El autor de estos renglones ha tenido también la, perdonable e imperdonable, osadía (que ambas cosas puede ser) de traducirle en verso al castellano, si bien por la falta de movimiento literario en España y por fortuna del gran poeta, su traducción yace guardada, y quizás por castigo de su audacia, apolillándose entre sus papeles de aficionado y aspirante a literato (pp. 74-5).

Esta noticia la confirma Menéndez y Pelayo en una carta de 1886 a Juan Luis Estelrich (Epistolario, VII, p. 544; VIII, p. 1), y se dará noticia de ella en 1889 en la Antología de poetas líricos italianos:

                                    D. José Alcalá Galiano es otro de los traductores de los cantos, íntegros, de Leopardi, y a fe que no tiene perdón de Dios ni de los hombres el pecado de guardar todavía inédita la colección de sus traducciones (Estelrich, 802).

     Con su experiencia de traductor Alcalá Galiano resalta las dificultades que plantea traducir los poemas leopardianos «sin desfigurarlos», pero cree «haber guardado cierta fidelidad, que sólo la analogía y fraternidad de las lenguas italiana y española consienten al traductor», y añade: «Leopardi sólo puede ser medio traducido al castellano» (p. 75). Alcalá Galiano, es consciente de que la traducción al español puede falsear la poesía del italiano, a pesar de que las paráfrasis [86] llevadas acabo por el escritor madrileño alcanzan en innumerables ocasiones una emoción pasional cercana a la de Leopardi.

     Esta traducción inédita leopardiana debe ser, por tanto, considerada como la primera realizada en lengua española. Alcalá Galiano, sin embargo, tuvo que esperar hasta 1877 para poder ver publicada en la Revista Contemporánea (T. VII, 15-I-1877, pp. 113-7) la traducción de «Il canto notturno». Es quizá éste el poema que más guste al traductor, según se desprende de las palabras de su ensayo. Para él «es una de las más originales y profundas composiciones de Leopardi», porque

                                   [e]l sencillo canto del pastor contiene todo el escepticismo del siglo: este gracioso y delicado idilio, esta encantadora égloga en la que el pastor habla por la humanidad y en que el paisaje es el universo (p. 59).

Y como ejemplo para el lector cita en italiano los versos 79-104.

     El manifiesto entusiasmo declarado por el joven diplomático se subraya también en una nota a pie de página en la Revista Contemporánea, anunciando la próxima aparición de sus traducciones leopardianas: «La presente composición es una de las más bellas de los Cantos del gran poeta italiano GiacomoLeopardi, cuya traducción completa y en verso verá pronto la luz en un tomo».Sin embargo, el tomito de las obras de Leopardi nunca debió de ver la luz. Tal vez ningún editor español consideraba a Leopardi lo suficientemente rentable como para llevar a cabo una inversión editorial de envergadura, como el propio Alcalá Galiano recordaba en una frase de su ensayo de 1870, arriba citado. Sin duda alguna, la inconsistencia del movimiento romántico español contribuyó al desconocimiento de la obra leopardiana.

     El descubrimiento en la Revista Contemporánea de esta primera edición del «Canto notturno» implica considerarla por el momento la primera traducción leopardiana publicada en lengua española. Hasta ahora se había creído que era «La noche del día de fiesta» de Federico Baráibar, publicada en el periódico de Vitoria El Ateneo en noviembre de 1881, pero que Estelrich no incluirá en su Antología, prefiriendo la inédita de Jerónimo Rosselló (Estelrich, pp. 476-8). [87]

     El «Canto notturno», aparecido en la Revista Contemporánea, presenta escasísimas variantes con respecto a la versión incluida en la Antología de poetas líricos italianos de Juan Luis Esterlich (pp. 498-503). Añadamos que en 1911 Carmen de Burgos, en su obra dedicada a Leopardi, utiliza una nueva versión de «Il Canto notturno», debida a la pluma de Carlos Fernández Shaw (Burgos, pp. 383-9). Es probable que nuestro diplomático haya publicado en otras revistas alguna que otra traducción leopardiana de las que tenía preparadas para su malograda edición, traducciones que todavía hoy nos son desconocidas. Queremos recordar además que en la Antología de Estelrich (pp. 488-93) ve la luz también la traducción de Alcalá Galiano de «Il pensiero dominante». Quien la «intentaba traducir» para la Antología, según una carta (3-VIII-1886) de Estelrich a Menéndez y Pelayo (Epistolario, VIII, p. 33), era Miguel Santos Oliver, autor, recordemos, de un artículo sobre la estancia de Leandro Fernández de Moratín en Valencia. La primera traducción de «La ginestra o il fiore del deserto», publicada con el titulo «La retema o la flor del desierto» en la Antología, corresponde nuevamente a Alcalá Galiano, a pesar de que no se suela citar cuando se habla de la versión de Miguel de Unamuno, aparecida en 1907 en sus Poesías (Unamuno, pp. 331-41); versión no carente de errores, que no comentamos por haber sido tantas veces subrayados. Don Miguel, como ya se ha dicho, tendría que conocer la versión de don José aparecida en la Antología. Tal vez su predilección por Leopardi le llevara a intentar recrear por sí mismo el desvastador pesimismo contenido en el poema.

     Es inaudito que todavía no se haya llevado a cabo un estudio textual de carácter contrastivo de ambas versiones. Sin duda las probables variantes que ambas traducciones arrojarían podrían reflejar dos modos de concebir el quehacer poético de Leopardi y dos actitudes humanas y filosóficas divergentes.

     Recordemos que Alcalá Galiano, en su ensayo leopardiano, informa a sus lectores de la novedad temática de «La ginestra»:

                                    [...] magnífica elegía en que [Leopardi] nos pinta con sombríos colores la cumbre del Vesubio exterminador, donde brota la flor solitaria destinada [88] a morir abrasada por la lava. La naturaleza enemiga, madrastra más que madre, es como ese Vesubio amenazador; la humanidad es como esa florecilla que crece al borde del inmenso cráter de la destrucción y, sin embargo, en su orgullo se atreve a jactarse de su grandeza, de su inmortalidad (p. 59).

Para respaldar sus palabras cita en italiano los versos 289-96.

     Hay que tener presente que el diplomático madrileño conoce varias lenguas, aprendidas desde niño por las vicisitudes familiares, y es consciente, como vimos, de las dificultades del traductor. Su objetivo al escribir su ensayo leopardiano lo define así:

                                    [a]rmonizar en justo medio el fin de estas críticas, parécenos el propósito de la verdadera crítica, que evita las imprudentes profanaciones y temerarios juicios del biógrafo, las atrevidas tesis del estético y las aventuradas deducciones del historiador.

     En efecto, la labor llevada a cabo por el cónsul poeta es un intento global de difusión de la obra leopardiana dirigida a los intelectuales españoles. Como todo intento de difusión cultural y literaria, parte, en primer lugar, del conocimiento textual del autor que se interpreta y se extiende lógicamente al conocimiento de la vida de los escritos filosóficos y autobiográficos del poeta de Recanati conocidos en la época. Como el propio Leopardi llegó a enamorarse de Virgilio a través de su obra, Alcalá Galiano se enamora de Leopardi por la belleza de su obra y la grandeza de espíritu.

     «El mayor poeta de Italia» (p. 48) es Leopardi para José Alcalá Galiano, y «uno de los mayores poetas que han vivido sobre la tierra» (p. 29), «el poeta más sincero y verídico de cuantos han cantado en lengua humana» (p. 42). Y añade que «la poesía de Leopardi es tan esmerada, tan brillante y pulida, que acusa el empleo constante de la lima, corrigiendo minuciosamente hasta los más mínimos defectos, como el escultor pule el mármol de su estatua más preciada» (p. 71). Para él,

                                    Leopardi sabe siempre buscar la expresión más adecuada, natural y viva de la idea o afecto que le domina. Su melancolía no sólo se refleja en sus versos, como la luz en acero bruñido, sino que vibra y resuena en sus tristísimas estrofas penetrando en el corazón (p. 71). [89]

     Cabe añadir, además, que José Alcalá Galiano, conocedor de la trayectoria poética leopardiana, nos pone al corriente en relación a la posición fundamental del quehacer poético leopardiano entre poesía de la imaginación y poesía del sentimiento:

                                    En Leopardi el sentimiento es superior a la imaginación. Su fantasía no tiene gran variedad; la fuerza de su visión es grande, profunda, pero poco vasta; cuando contempla un objeto, a la luz de su pensamiento, ese objeto sale fotografiado y luego retocado por la mano del artista (p. 74).

Y subraya que

                                    Leopardi es pobre de ideas; pero esas pocas ideas son tan vigorosas, tan brillantes, que bastan para alimentar el raudal inagotable de la más alta poesía, y para fatigar la meditación con la filosofía más profunda (p. 74).

     Para nuestro diplomático el sentimiento leopardiano alcanza sus cimas más altas en la contemplación melancólica de la naturaleza, protagonista indudable de la poesía y de la prosa leopardianas.

     Es lamentable que un intelectual y un crítico de la talla de José Alcalá Galiano haya pasado inadvertido en el ámbito de la historiografía y de la crítica literarias en la España de sus días y en la actualidad. Sería necesario recopilar y estudiar todos sus trabajos y poesías, esparcidas en tantas revistas a lo largo de toda su vida.

     No hace falta destacar que para nuestro escritor madrileño la grandeza humana del poeta italiano, reflejada en la profundidad temática de su pesimismo poético, se ve superada únicamente por el logro estético de la musicalidad de sus versos:

                                    En poesía Leopardi era un músico prodigioso, y de aquí nace el encanto irresistible de sus versos. Divino como Mozart, grandioso como Beethoven, claro como Hayden, ha cantado con inefable dulzura los más puros amores, la más amarga filosofia y los más desesperados ayes del corazón humano (p. 72).
     En los escasos pero incomparables versos que el gran Leopardi ha legado a su patria como un tesoro de gloria nacional, va extraída la esencia [90] más pura de su corazón, el rayo más brillante de su portentosa fantasía, el fluido más vivo de su sentimiento (p. 30).

     Hay que señalar que en este ensayo José Alcalá Galiano no ha incluido las traducciones castellanas de los poemas leopardianos; se limita a citar los textos italianos y sólo en contadas ocasiones traduce fragmentos del Epistolario, pero se justifica a veces en estos términos:

                                    Hemos citado estos trozos, porque en su elocuente y sentida vehemencia nos revelan los fundamentos psicológicos de toda la inspiración de Leopardi. Por ellos comprendemos toda la poesía de este vate del dolor [...] El dolor de Leopardi es el dolor legítimo y viril de quien desde la niñez ha vivido en la vida severa del pensamiento y ha devorado la fruta amarga de la ciencia (p. 41).

Y añade: «En Leopardi el dolor es tan intenso, tan delicado, tan aristocrático, que pronto revela la sinceridad de su alma destrozada, pero jamás humillada en medio de sus tormentos» (p. 42).

     A pesar de que el Cónsul no haya redactado notas aclaratorias ni cite explícitamente bibliografía en su artículo leopardiano, por muchos detalles demuestra conocer bien no sólo la bibliografía italiana sino la extranjera, y es consciente, como dijimos, de la gran dificultad de traducir a Leopardi al castellano, porque «[s]us versos, al ser vertidos, pierden toda su limpieza y armonía. Kaungiesser, Schulz, Bothe, Heuschel y otros los han traducido, sin embargo, al alemán», y cita además la traducción francesa de Valéry Vernier, que considera «una buena traducción en prosa» (p. 74).

     No hace falta subrayar que el joven Alcalá Galiano se entusiasma al hablar del poeta recanatense y se advierte en su ensayo esta gran pasión en la emotividad de su prosa:

                                    [...] para quien la vida fue una carga pesadísima y un horrible tormento, aquel mártir de todos los dolores físicos, de todas las pesadumbres del alma, de todas las luchas de la inteligencia y de todas las ansias del ideal (p. 29).

     El diplomático, adelantándose al sesgo interpretativo que la más actual crítica leopardiana ha llevado a cabo en los últimos años, en contra de [91] la opinión generalizada en la Europa de la segunda mitad del siglo XIX, insiste en el nihilismo irracional de Leopardi, en su desesperación y en el antagónico vitalismo titánico de toda su obra. En la línea del vitalismo heroico, compensatorio de la inacción y de la muerte, que rodea a Leopardi, se erige como sistema de acción el amor a la patria:

                                    El amor a su patria fue el sentimiento predominante en su corazón herido por el dolor. Su patriotismo fue tan grande como su corazón, tan levantado como su inteligencia, tan triste como su propio destino (p. 34).

     Para Alcalá Galiano, «All' Italia» es «una verdadera joya poética y uno de los más perfectos modelos del género» (p. 35), además de

                                    una de las más bellas odas elegíacas que ha inspirado la musa italiana. El movimiento, la rapidez, la pasión, la viril entonación y brillante colorido con que el poeta pinta en magníficos y armoniosos versos a la infeliz Italia, desceñido el manto, llorosa, desconsolada, cubierta de heridas; la patética vehemencia con que lamenta el antiguo heroísmo y la decadencia de los hijos italianos, luchando en tierra extraña por extranjera gente; la pintoresca evocación de las Termópilas, donde los griegos morían por la patria... (p. 35).

     En líneas generales, se puede decir que Alcalá Galiano comenta todos los cantos de Leopardi, ayudándose incluso de algunos versos italianos, como hemos comentado, con la finalidad de dar fidedigna cuenta, al lector español, de la belleza, musicalidad y profundidad de los textos leopardianos. El ensayo de Alcalá Galiano es una de las más finas y atinadas interpretaciones críticas del gran poeta italiano. A pesar de lo temprano de su aparición, entra en sintonía directa con el alma y el más profundo sentimiento leopardiano, otorgándole la modernidad de su pensamiento tal y como hará en la actualidad la mejor crítica europea.

     Tal vez nuestro diplomático, hombre progresista de una vasta cultura desde la cuna, viajero infatigable y conocedor del mundo, es capaz de entrar en contacto con las contradicciones existenciales de la propia vida de Leopardi. En este sentido, el cónsul logra poner de manifiesto la aparente antinomia entre el espíritu y la formación cristiana del poeta italiano y su más ferviente declaración de ateísmo: [92]

                                    Leopardi era un cristiano sin fe, tenía un corazón puro rebosando de caridad y amor; era dulce, amable y generoso, y su ateísmo no le arrancó tan hermosos sentimientos. Su corazón amante y su inteligencia escéptica le arrancaron, a falta de plegarias, sublimes cantares (p. 54).

Y, más adelante, subraya: «Leopardi fue un ateo convicto y confeso, pero noble en su incredulidad; jamás atacó a la religión cristiana ni a la Iglesia católica» (p. 56).

     Es evidente que Leopardi es un autor que atrae la atención de una elite intelectual española, como testimonia la novedosa Antología de Estelrich. En este camino de reconstrucción del proceso secoptivo de Leopardi en la España de finales del siglo XIX, el Epistolario de Menéndez y Pelayo es un buen testimonio de la importancia que fue adquiriendo la figura y la obra de Leopardi; Epistolario apenas utilizado en este sentido quizás por las lamentables lagunas que presentan sus índices, en los que no se incluye la figura de Leopardi.

     Como colofón citamos un fragmento de una carta del 29 de enero de 1880 que desde La Coruña escribe Pardo Bazán a Menéndez y Pelayo (Epistolario, IV, p. 162), que creemos que no ha sido utilizada anteriormente. En esta carta la novelista alaba la figura de Leopardi, y sirve de ejemplo para constatar la admiración de una elite intelectual española por la obra del poeta de Recanati, que fraguará en 1889 en la Antología de Estelrich en la que Pardo Bazán también colaboró. Con magistral agudeza crítica doña Emilia sitúa a Leopardi en la línea de Shopenhauer:

                                    Esas traducciones de Leopardi que me dice V. que ha hecho serán para mí un acontecimiento. Figúrese V. que Leopardi es quizá uno de los poetas primeros del mundo, en mi opinión; y que hasta hoy no conozco traducción suya castellana. Algunas de sus poesías (particularmente la briosa oda a Italia) no puede ser vertida a nuestro idioma sino por quien tenga como V. singular perfección de forma y valentía en la rima. ¿Cuáles piezas ha traducido V.? Hermosísimas son «La sera del dì di festa», «Le ricordanze», «Amore e morte». ¿Por qué no las traduce V. todas? Tanto me gustan, que me las sé de memoria la mayor parte. V. podría ponerles una interesantísima [93] introducción, estudiando, como V. sabe hacerlo, el fenómeno de que en la mente meridional y clásica de Leopardi haya germinado primero la sombría concepción pesimista a que dieron cuerpo Hartmann y Shopenhauer. [94]

BIBLIOGRAFÍA

     ALCALÁ GALIANO, José. 1861. Manfredo. Poema dramático traducido en verso directamente del inglés al castellano, Madrid.

     - 1870. «Poetas líricos del siglo XIX. Leopardi», Revista de España, III, 13, pp. 2-77.

     - 1872. Estereoscopio social. Pról. de Benito PÉREZ GALDÓS, Madrid, Imp. de José Noguera.

     - 1877. «Canto nocturno de un pastor errante del Asia», Revista Contemporánea, VII, 15. 1, pp. 113-7.

     - 1886. Poemas dramáticos de Lord Byron. Caín, Sardanápalo, Manfredo. Traducidos en verso castellano. Pról. de Marcelino MENÉNDEZ PELAYO. Madrid. Existe una segunda edición: Madrid, Hernando, 1927.

     - 1894. Panoramas orientales. Impresiones de un viajero-poeta. Conferencia dada en el Ateneo Científico, Literario y Artístico de Madrid la noche del 7 de mayo de 1894, Madrid, Tip. Hijos de M. G. Hernández.

     - 1911. La trágica historia del Doctor Fausto. Traducción en verso al castellano, Pról. de José DE ARMAS, Madrid.

     ARCE, Joaquín. 1982. «Leopardi en la crítica y la poesía españolas», Literaturas italiana y española frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, pp, 316-32.

     BURGOS, Carmen de. 1911. Giacomo Leopardi (su vida y sus obras), Valencia, F. Sempere y Cía. Editores.

     CANTAVENERA, Eva. 1997. «Bibliografia leopardiana in Francia», Studi Leopardiani, 10, pp. 5-41.

     ESTELRICH, Juan Luis. 1889. Antología de poetas líricos italianos traducidos en verso castellano (1200-1889), Palma de Mallorca, Escuela Tipográfica Provincial.

     MENÉNDEZ PELAYO, Marcelino. 1982-1991. Epistolario. Ed. al cuidado de Manuel REVUELTA SAÑUDO, Madrid, FUE, 23 vols.

     MEREGALLI, Franco. 1948. «Valera y Leopardi», Revista de la Universidad de Oviedo, IX, pp. 3-22.

     ORTIZ ARMENGOL, Pedro. 198 1. De cómo 1legó a Inglaterra. Y a quién, y adónde el primer ejemplar de Fortunata y Jacinta enviado por su autor, Madrid, El Arte.

     UNAMUNO, Miguel de. 1907. Poesías, Bilbao, Imp. de José Rojas.

     VALERA, Juan. 1864. «Sobre los Cantos de Leopardi», Estudios críticos sobre literatura, políticay costumbres de nuestros días, Madrid, A. Durán.

[95]

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Los tratados de arquitectura militar. Cristóbal de Rojas y los tratadistas italianos

Carlos A. CACCIAVILLANI

Università degli Studi «G. D'Annunzio» / Chieti

[96]

     En el siglo XVI los ingenieros militares españoles podían disponer como fuente de conocimientos teóricos solamente de la edición latina de Alberto Durero y de los libros italianos; por esto, el método español de fortificar presenta muchas analogías con el método italiano.

     Algunos de los ingenieros españoles fueron a trabajar a Italia y otros, al escribir sus obras, consultaron los tratados de los italianos, siempre teniendo presente a Vitruvio, considerado el padre de los tratados de arquitectura.

     Cristóbal de Rojas es una figura de la ingeniería militar del siglo XVI escasamente conocida, no sólo debido a que en España las ciencias exactas han sido poco cultivadas, sino también a que su historia ha sido descuidada por la historiografía.

     Cristóbal de Rojas compuso el tratado Teórica y práctica de fortificación, conforme las medidas y defensas destos tiempos, repartida en tres partes; Sumario de la milicia antigua y moderna; y Compendio y breve resolución de fortificación, donde nombra a algunos ingenieros italianos que seguramente consultó y le sirvieron para su obra(1). Entre los más importantes se pueden mencionar a Geronimo Maggi, Iacome Castriotto, Iacome Lanteri, Carlo Theti, Geronimo Cataneo y otros más.

     En nuestro trabajo se pondrán de relieve algunos aspectos donde se encuentran convergencias entre Cristóbal de Rojas, de una parte, y los principales tratadistas italianos, de la otra, que publicaron sus obras antes de 1597, año de la aparición del tratado del arquitecto español. [97]

     Marco Vitruvio - Cristóbal de Rojas

     Vitruvio en su obra Los diez libros de arquitectura, y precisamente al final del décimo libro, habla de las máquinas de guerra: las catapultas, las ballestas, el ariete, la tortuga, otros tipos de máquinas y cómo construirlas.

     El ariete

     Cristóbal de Rojas no trata mucho el tema de las máquinas de guerra; sólo en el Sumario de la milicia antigua y moderna, en el capítulo titulado «De los fuegos y otros materiales para defender las murallas»(2), hace alusión a algunas máquinas utilizadas para defenderse. El Capitán Rojas habla del uso y de cómo estaban hechas estas máquinas. Nombra, por ejemplo, la testudo, una máquina militar con la cual se cubrían los soldados para arrimarse a las murallas, hecha con el madero, que es una pieza larga de madera, y con tablas: para que no la quemasen la cubrían con las pieles de las vacas; el ariete, otra máquina empleada antiguamente para batir los muros, formada por un madero con la punta de hierro que tenía la forma de la cabeza de un carnero; la hoz, que consistía en un madero con la punta torcida, y servía para sacar las piedras de la muralla después de que el ariete la hubiese golpeado; la binea, que era el nombre que los antiguos daban a la máquina que ahora se llama causera; las plúteas, unas máquinas muy similares al morrión; las torres, que eran unas máquinas que se levantaban fuera de los muros de un lugar fortificado y servían para la defensa y también de atalaya, o sea, para vigilar y dar aviso de lo que se descubría. Al final explica cómo se hace un baluarte y para qué sirve: un baluarte es una obra de fortificación, de figura pentagonal, que sobresale del muro exterior, hecho con tierra y fajina -un haz de ramas delgadas muy apretadas que los ingenieros militares para diversos usos y especialmente para los revestimientos-, y servía para dominar la plaza. Éstas eran las máquinas que usaban los antiguos para defender sus fortificaciones. [98]

     Vitruvio, en cambio, en su libro habla de otras máquinas de guerra: las catapultas, las ballestas, y de cómo se construyen otras máquinas, por ejemplo los escorpiones.

     Vitruvio y el Capitán Rojas coinciden en hablar del ariete, Rojas dice de esta máquina que está hecha con un trozo de madera con una punta de hierro que al final tiene la forma de una cabeza de carnero. El discurso de Vitruvio es más largo, porque explica quién inventó esta máquina y sus transformaciones a través del tiempo, hasta llegar al momento en el cual un tal Cetras Calcedonio inventó y construyó una base de madera y le puso debajo las ruedas, encima puso algunos trozos de madera y entre estos trozos colgó el ariete, y lo cubrió con pieles de buey para que los soldados que maniobraban la máquina estuviesen más seguros.

                                    VITRUVIO
     Cetras Calcedonio construyó primeramente un fuste o basamento de madera, con ruedas debaxo; y sobre él erigió unos maderos y atravesó otros, en medio de cuya armazón colgó el ariete, cubriéndolo todo con pieles de buey, para que estuviesen más seguros los que desde la máquina debían batir los muros.
     ROJAS
     [...] hay otros ingenios con que se combaten, conviene a saber testúdines, arietes, hoces, bineas, plúteas, músculos y torres. Las testúdines se hacen de maderos y tablas y porque no las quemen las cubren con cueros de vacas. El ariete es un madero con una punta de hierro a hechura de cabeza de carnero. Y la hoz es otro madero con la punta torcida para sacar las piedras de la muralla cuando estén movidas por el ariete. Los antiguos llamaron Bineas, las que ahora en el uso militar con nombre bárbaro llaman causeras, que son sombreros. Plúteos se llaman aquellos a modo de un mórion. Un baluarte se levanta de tierra y fajina enfrente de la muralla, para señorear desde allí la plaza y tirar. Las dichas torres se llaman unas máquinas de madera sobre ruedas para sojuzgar la muralla desde afuera.
     [...] es un madero con una punta de hierro a hechura de cabeza de carnero(4). [99]

     Las torres

     Los dos arquitectos también hablan de las torres: Rojas explica que son unas máquinas hechas de madera, están sobre ruedas y sirven para dominar la muralla desde el exterior; Vitruvio, en cambio, explica cómo se construían estas torres, qué medidas debían tener y agrega que, para completar la obra, se cubría la torre con las pieles de los animales para protegerla de los golpes.

                                    VITRUVIO
     [...] cubría toda la torre con pieles crudas para resguardarla de los golpes (p.260).
     ROJAS
     [...] unas máquinas de madera sobre ruedas para sojuzgar la muralla desde afuera (p. 306).

     Pietro Cataneo - Cristóbal de Rojas

     Uno de aquellos arquitectos antes mencionados es Pietro Cataneo, que escribió el tratado I quattro primi libri di architettura, publicado en Venecia el año 1554.

     Las cosas necesarias para el arte de fortificar

     Cataneo, al principio de su libro, habla de las cosas que el arquitecto necesita y dice que, antes de empezar a ejercer esta profesión, tiene que saber dibujar bien, estudiar la geometría, saber hacer las perspectivas y conocer todas la reglas de la aritmética.

     Rojas, en el tratado publicado en 1598, dedica el primer capítulo a describir las cosas necesarias para la fortificación: la matemática, la aritmética y el saber reconocer el sitio donde se tiene que construir la fortificación, [100] y expone el mismo concepto que Cataneo de que una de las cosas que el arquitecto tiene que saber a la perfección es la geometría porque le va a ser muy útil cuando empiece a construir las fortificaciones; y la otra es la aritmética con todas sus reglas, que también es necesaria para el arte de fortificar.

                                    CATANEO
     [...] dove gli sara necessario, prima che possa rendere bene istrutto di questa arte, o scienza, essere bono disegnatore, eccellente Geometra, bonissimo Prospettivo, ottimo Arithmetico (p. 1).
     ROJAS
     La primera de las tres cosas que han de concurrir en el Ingeniero, es la Geometría (p. 28).
     El Ingeniero que tratare desta facultad, sabra la mayor parte que pudiere de Aritmetica, por ser muy necessario para muchos efetos (p. 30).

     Se puede decir que todos los ingenieros y arquitectos de aquella época estaban de acuerdo en expresar que, antes de empezar a ejercer esta profesión, había que tener sólidas bases de geometría y de aritmética.

     Forma de la fortificación

     Por lo que concierne a la forma de una fortificación, Cataneo dice que los antiguos, cuando tenían que construir una ciudad o un castillo, preferían utilizar la figura circular, que es también la que Vitruvio decía que se tenía que utilizar; pero, como la figura con los ángulos es más apropiada para defenderse de la artillería, Cataneo piensa que la figura con ángulos es la mejor y que así se pueden defender bien todas las partes de las murallas. Cataneo no rechaza la figura circular usada por los antiguos, pero dice que con la moderna artillería sería mejor utilizar una figura con ángulos.

     Rojas, en cambio, en su Teórica y práctica de fortificación afirma que la mejor figura para una fortificación es la que tiene cinco lados porque no es ni muy grande ni muy pequeña, pero dice también que la figura redonda es la más fuerte y la que más gente puede contener, de modo que el recinto [101] de la fortificación, cuanto más redondo sea, más gente podrá contener y más fuerte ser, contra la artillería; Cristóbal de Rojas dice que, como los antiguos no ignoraban la fuerza de este tipo de fortalezas, las construían con muchas partes redondas con las cuales resistían a la artillería. De este modo Rojas no está de acuerdo con Cataneo, prefiriendo seguir la opinión de los antiguos y especialmente de Vitruvio.

                                    CATANEO
     Primieramente gli antichi nell'edificare città o castella usarono la figura circulare, cosi anco mostra Vetruvio che si debba fare, ma essendo l'angulare piu atta a difendersi coi fianculi e angulari baluardi dalla moderna artiglieria, per esser tale offesa nuova, non si scema in tal caso l'antica virtú loro con l'avvertenza mía di edificar le citá non circulari ma angulari, in modo che tutte le parti della muraglia si possino fácilmente difendere (p.7).
     ROJAS
     [...] la figura redonda es la más capaz y fuerte de todas: y assí quanto más redonda fuere la fortificación, digo el recinto della, tanto será más capaz de gente, y fuerte contra el artillería: y como los antiguos no ignoraban esta fortaleza, hizieron su fortificación llena de torreones y de cubos redondos, con que resistían mucho el artillería (p. 174).

     El material para la muralla

     Cataneo, en su libro, habla también del tipo de material que se tiene que utilizar para construir la muralla, y dice que es mejor hacerla con los ladrillos que con las piedras, aunque se puede utilizar la piedra, pero tiene que ser un tipo blando como el tufo, que es una piedra muy porosa, u otras similares, pero todas tienen que ser húmedas y de la misma composición que la tierra.

     También Rojas es de la misma opinión que Cataneo porque dice que la muralla fabricada de un modo correcto y con buenos ladrillos es más fuerte contra la artillería que la muralla hecha con las piedras, porque es un tipo de construcción formado con piezas muy pequeñas. [102]

                                    CATANEO
     Et se la coverta delle mura difuore della citta o castello sifarú di mattoni, serú piu lodevole, che di qual si voglia altra pietra, conciosia che facendola di pietra tenera e dolce, come tufo, o altre simili, che piu partecipano della humidita e dello humore della terra (p. 10 bis).
     ROJAS
     [...] que la fabrica de ladrillo, siendo bueno, y bien fabricado es muralla más fuerte contra el artillería, que no la piedra, porque es fabrica hecha con piezas muy pequeñas (p. 166).

     Giacomo Lanteri - Cristóbal de Rojas

     Cristóbal de Rojas nombra en su tratado al arquitecto Giacomo Lanteri, que publicó dos libros de fortificación, uno en 1557 y otro en 1559; seguramente estas obras influyeron en Rojas.

     Euclides y sus proposiciones

     Lanteri, en sus Due dialoghi del modo di disegnare le piante delle fortezze secondo Euclide (Venecia, 1557), explica cómo dibujar las plantas de las ciudades; da mucha importancia a Euclides y sus proposiciones porque el que quiera ejercer la profesión de arquitecto y estar bien instruido sobre las cosas necesarias para este trabajo tiene, en primer lugar, que estudiar las proposiciones de los seis primeros libros de Euclides, pues son muy útiles para tratar cualquier tipo de planta de las fortificaciones.

     Rojas expresa lo mismo porque, para él, una de las tres cosas necesarias para la fortificación es la geometría y, especialmente, estudiar los seis primeros libros de Euclides, el undécimo y el duodécimo, pues con ellos el arquitecto resolverá todas las dudas que se le presenten. [103]

                                    LANTERI
     egli fa di mestieri (á colui che di ció vole perfectamente esser'instrutto) sapere le propositioni de i sei primi libri d'Euclide; perche per via di quelli si pub d'ogni maniera di piante benissimo trattare (p.5).
     ROJAS
     [...] los seis primeros libros de Euclides, y el undécimo y duodécimo, porque con ellos absoluera todas las dudas que se le ofreciere (p.27).

     El reconocimiento del sitio

     Además para Lanteri era importante saber reconocer bien los sitios; dice que la elección de los sitios es una cosa tan importante como difícil, y hace una comparación con el hombre: como un hombre no es perfecto si le falta un ojo, así al soldado que no supiera ni la geometría ni reconocer un buen sitio sería como si le faltase un ojo y no sería un buen soldado, porque en este trabajo los ojos sirven de guías.

     También para Rojas es importante reconocer el sitio más indicado para la construcción de una fortificación y se expresa diciendo que la tercera cosa, y no por esto la menos importante y difícil, es reconocer un buen sitio donde construir la fortificación, lo cual es más fácil para un soldado que haya participado en diversas batallas.

                                    LANTERI
     [...] dover egli venire poscia alla intelligenza de i siti, la quale e non meno anch'ella difficile, che importante. E si come un'huomo non e perfetto huomo, sendo di uno de gli ochhi privo; cosi mancando il nostro soldato di un di queste due cognitioni, verrà a mancare di uno de gli occhi, che in questo atto deono essere guida, e duca (pp. 3-4).
     ROJAS
     La tercera cosa, y muy importante en esta materia es, la que se ha dicho ser difícil, si el tal Ingeniero no huuiese estado en la guerra, que es reconocer bien el puesto donde ha de hazer el castillo (p. 31) [104].

     Girolamo Cataneo - Cristóbal de Rojas

     Otro de los arquitectos nombrados por Rojas es Girolamo Cataneo, que publicó tres obras sobre el arte de fortificar: una en 15645(5), otra en 1571 y la última en 1584.

     Elección del sitio

     También Girolamo Cataneo pone como primera condición para la persona que quiera construir una fortificación la de elegir bien el sitio. El arquitecto italiano explica que la fortificación tiene que construirse en un lugar donde los habitantes puedan defenderse de los ataques enemigos y al mismo tiempo puedan atacar, y donde sea fácil procurarse todas las provisiones necesarias. La misma importancia da el Capitán Rojas al reconocimiento del sitio donde construir una fortificación, y para él, como para Girolamo Cataneo, es una de las principales cosas que un arquitecto tiene que saber; y sería mejor que quien tenga que elegir un sitio para una fortificación haya participado en las batallas porque de este modo conocería los elementos necesarios para que una fortaleza pueda defenderse bien de los ataques enemigos.

                                    CATANEO
     Dico adunque, che quello, che ha nell'animo di fortificare una Citá, o altro luogo, primieramente debbe haver riguardo al sito, perche tale si ellegga, che bisognando esser frontiera à nemici cosi in diffendersi, come in offendere altrui, non resti per tutto ciò impedito, che con ogni quanto si puo facil modo vittuovagliato, e soccorso non sia.
     ROJAS
     La tercera cosa, y muy importante en esta materia es, la que se ha dicho ser difícil, si el tal Ingeniero ho huuiese estado en la guerra, que es reconocer bien el puesto donde ha de hazer el castillo (p. 31) [105]

     Las provisiones

     Para el arquitecto italiano es muy importante que la fortificación no sólo sea fuerte sino que, para sostener con dignidad un asedio, tenga a su disposición todas las provisiones necesarias para vivir y las demás cosas que puedan servir si se tiene que estar en la fortificación durante un período indeterminado, porque sin las provisiones, una fortificación, aunque sea inexpugnable, seguramente será vencida por el hambre y por el cansancio.

     Rojas es de la misma opinión y, en un capítulo de la segunda parte de su obra, expresa que no es suficiente que una ciudad o un castillo estén bien fortificados, es necesario también que tengan todo tipo de alimentos como carne salada, pescado, vino, aceite, sal, vinagre, agua, legumbres y harina para hacer el pan fresco.

                                    CATANEO
     per essere le fortezze cosa determinata, e tra l'altre cose Principal fatte per sostennere un assedio; vi si deve mettere dentro monitione per il vivere, e l'altre cose necessario per un determinato tempo assai lungo (p. 2bis).
     ROJAS
     no basta que la ciudad, ó castillo, este bien fortificada con todos los dichos requisitos, o con otros mejores, sino esta muy bien proueyda de conueniente presidio para su defensa, con mucha prouision de vituallas, de carne salada, pescado, vino, azeite, vinagre, sal, agua dulce, y las demas legumbres, y sobre todo mucho viscocho de respeto, y harina para hazer pan fresco (p. 182)

     Los fundamentos

     Girolamo Cataneo y Rojas coinciden, además, en el modo de hacer los fundamentos, especialmente los que se colocan sobre un terreno rocoso. Girolamo expresa que muchas veces, si una fortificación se tiene que construir sobre un terreno «vivo e intero sasso», antes de empezar su construcción se tiene que limpiar y aplanar todo el terreno. [106]

     Rojas en su tratado dice que si el fundamento se tiene que hacer sobre un terreno con «peña viva», antes se tiene que limpiar muy bien, quitando todas las asperezas y luego se puede empezar a construir la fortificación.

                                    CATANEO
     Accade ancora à fabricare dove non occorre far fondamento, come saria sul vivo, e intiero sasso, ove in questo caso bisogna che'l suolo sia ben appianato, con un poco di pendente (p. 28 bis).
     ROJAS
     si este fundamento fuere en peña viua, se irá esplanando, y quitando toda la corteza escarchada que tuuiere la peña, poniendo todo el rodeo y sitio, por donde ha de correr la muralla muy a nivel, de suerte que leuante la fábrica muy perpendicularmente (p. 213).

     Girolamo Maggi - Cristóbal de Rojas

     Otro arquitecto, también italiano, que puede haber influido en el Capitán Rojas es Girolamo Maggi, que escribió un libro con la colaboración del Capitán Castriotto, cuya obra se titula Della fortificatione delle città y fue publicada en el año 1564(6).

     La elección del sitio

     También en este libro se ve la preocupación de la elección del sitio donde construir una fortificación. Lo primero que hay que tener en cuenta es el aire, o sea si es bueno para la salud o si es malo, porque el aire tiene mucha fuerza en nosotros y gracias a él vivimos.

     Maggi considera un sitio bueno para una fortificación desde el punto de vista de la salubridad del aire; Rojas, en cambio, considera que un sitio es apropiado según las consideraciones naturales que nos ofrece, o sea si es fuerte por naturaleza, o por artificio, o por las dos cosas. [107]

     Maggi piensa que el sitio más fuerte donde construir una fortificación es el monte, y dice que si se construye la fortificación en el monte más alto, no se tendrán muchos gastos porque la muralla y los terraplenes ya están hechos por la naturaleza. También Castriotto piensa que el sitio más seguro para una fortificación es el monte y que él, entre una fortificación en el monte y una en un sitio llano, elige la primera porque es la más perfecta y la más segura. Rojas también piensa que el sitio más seguro y perfecto es el monte al expresar que un sitio es fuerte cuando no se puede minar, cuando no se puede subir a él fácilmente y tiene que ser el sitio más alto para que pueda dominar todo lo que está debajo.

                                    MAGGI
     ...quando occorrisse d'havere ad eleggere un boníssimo sito per fabricarvi la Città, avvenghe che (se noi non vogliamo credere á coloro, che hanno scritto della forza de gli influssi celesti) si vegga che l'aere hú grandissima forza in noi, perche di quello ci utriamo continuamente, essendo noi di quello composti come de gli altri elementi. Fabricando in monte lo colle, che non sia soprafatto da altri monti o colli, per il beneficio della natura saremo assai piu forti, e haveremo minor spesa di muraglia, e di terrapieni, havendoli saldissimi, efatti dalla natura (p. 5 bis).
     ROJAS
     ... considerará bien aquel puesto, si es fuerte por naturaleza, o por artificio, o por ambas cosas (p. 32).
     ... será fuerte aquel puesto que no se pudiere minar, ni tenga la subida fácil, sino que el sea el superior, y predomine a todo el terreno (p. 32).

     Carlo Theti - Cristóbal de Rojas

     Un arquitecto que ha influido seguramente en el Capitán Rojas fue Carlo Theti con sus Discorsi di fortificationi, nombrado en el tratado de Rojas. [108]

     El sitio más seguro

     También Theti habla de la importancia de la elección del sitio y dice que entre los arquitectos hay diferentes pareceres, porque algunos dicen que es mejor el monte y otros el sitio llano; Theti expone las ventajas y desventajas de uno y otro sitio, pero al final llega a la misma conclusión que Rojas nos presenta en su libro. Theti dice que el monte es el sitio más seguro porque tiene muchas defensas ya hechas por la naturaleza, como los terraplenes, los fosos o las murallas, que no se tienen que hacer muy altas; de este modo disminuyen los gastos y la fatiga de los hombres y aumenta el trabajo y la dificultad de los enemigos para atacar la fortificación.

     Rojas, en su libro, había dicho que el sitio más seguro es el que no se puede minar, el que tiene la subida difícil, o sea un sitio que esté sobre un monte y desde allí pueda dominar todo lo que está debajo(7).

                                    THETI
     gli monti sono migliori, impero che non han bisogno di grandi e regali difese, anzi si posson assicurar con piccoli fianchi, e con poca altezza di trincere, non han bisogno di terra pieno, per esserfatto da gli monti istessi verso le cime, di maniera tale che le fatiche, e le spese, si diminuiscono assai, e massime che di fossi e di argini non han bisogno, ne di piazze molto grandi, ne d'alcuna sorte di cavalieri, perche son fatti dal luogo istesso, la onde si multiplica il travaglio e l'incomodita de gli nimici.
     ROJAS
     será fuerte, aquel puesto que no se pudiere minar, ni tenga la subida fácil, sino que sea el superior, y predomine a todo el terreno (p. 32).

     Los ángulos de los baluartes

     Theti, como Rojas, piensa que los mejores ángulos para hacer los baluartes son los obtusos, porque dice que son los más perfectos y los más resistentes. Es lo mismo que dice Rojas en su libro, donde impone los ángulos obtusos y esto constituye una de las reglas principales para construir una fortificación. [109]

                                    THETI
     [...] perfettissimi gl'ottusi, essendo piu di tutti gagliardi (p. 46 bis).
     ROJAS
     [...] se tendrá por regla general de hazer los ángulos muy obtusos todo aquello que se pudiere (p. 107).

     En la obra de Theti están presentes muchas opiniones de otras personas expertas en este campo; el arquitecto italiano se limita a mostrar las ventajas y desventajas al hacer una parte de la fortificación de un modo o de otro.

     Galasso Alghisi - Cristóbal de Rojas

     Otro arquitecto que publicó un tratado en el siglo XVI, y precisamente en 1570, fue Galasso Alghisi.

     La forma de la fortificación

     En su libro Delle fortificationi libri tre (Venecia, 1570), Alghisi habla de las formas más perfectas y de las más imperfectas de una fortificación, y dice que las primeras son las que se acercan a la figura circular, las más imperfectas las que se alejan de ella como el triángulo y el cuadrado; estas dos figuras se tienen que evitar en cualquier tipo de fortificación porque son las menos apropiadas para fabricar una fortaleza al no poder contener mucha gente. Es lo mismo que piensa Rojas, que acepta cualquier otra figura menos la triangular y la cuadrada, porque son las más débiles.

                                    ALGHISI
     [...] son molto piu perfette quelle, che sono piu vicine alla forma circolare, e piu imperfette quelle, che la son piu lontane como la triangolare, e la quadrata: quelle che sono piu imperfette sono da fuggire nelle buone fortezze, la triangolare si deve schifare al tutto, per essere men capace di tutte l'altre; e meno atta alle buone fortezze (p. 36).
     ROJAS
     ...destas dos figuras se huirá, porque son flacas en la fortificación (pp. 65-6). [110]

     La participación en las batallas

     Alghisi dice que un arquitecto no sólo tiene que saber los conceptos teóricos, sino que es importante también la práctica, es decir, haber participado en muchas batallas y haber visto cómo se construyen los fuertes, las baterias, las trincheras y otras cosas que pertenecen a la guerra. También Rojas expresa que es importante, además de estudiar, el haber participado en diferentes batallas.

                                    ALGHISI
     [...] ancor'io confesso ch'e molto bene, che il buon fortificatore sia stato alla guerra, e habbia visto far batterie, Forti, Trincee, el altre cose apartinenti alla guerra, anzi non solamente reputo cio essere utile, ma ancora necessariissimo (p. 36).
     ROJAS
     La tercera cosa, y muy importante en esta materia es, la que se ha dicho ser difícil, si el tal Ingeniero no huuiese estado en la guerra, que es reconocer bien el puesto donde ha de hazer el castillo (p. 31).

     Antonio Lupicini - Cristóbal de Rojas

     Otro arquitecto del siglo XVI es Antonio Lupicini, que publicó su Architettura militare (Florencia, 1582).

     La aritmética y la geometría

     También este autor, como otros y el mismo Rojas, da mucha importancia a la aritmética y a la geometría; dice que las matemáticas son muy útiles a las acciones de los hombres porque sirven para coger medidas, para saber el área de cualquier superficie y otras cosas; más adelante repite lo mismo diciendo que es útil saber la geometría y la aritmética, o por lo menos saber las operaciones fundamentales: sumar, restar, multiplicar y dividir. [111]

     Rojas dice qué tres cosas tiene que saber un arquitecto, y dos de éstas son la aritmética y la geometría con sus reglas fundamentales.

                                    LUPICINI
     Sono le Matematiche, non solo dilettevoli, ma utilissime alle attioni humane, e sono tanto chiare, e manifesté le loro operationi, che i piu savi hanno detto, che elle sono nel primo grado di certezza [...] Con queste possiamo in terra pigliare lunghezze, larghezza, altezza, e profondita, e possiamo per queste riguadrare tutte le superficie e coro, e cavare la radice de quadri, e de cubi, e ritrovare i pesidi qual si voglia gravezza infinite altre cose (p. 5).
     ROJAS
     La primera de las tres cosas que han de concurrir en el Ingeniero, es la Geometría (p. 28).
     El Ingeniero que tratare desta facultad, sabra la mayor parte que pudiere de Aritmética, por ser muy necessario para muchos efetos (p. 30).

     La elección del sitio

     Lupicini da mucha importancia al sitio donde se pueda construir una fortificación; dice que muchas veces una fortificación causa una derrota porque está construida en el sitio equivocado; es de la misma opinión que Rojas respecto al mejor sitio porque él también piensa que el sitio más seguro es el monte, pero pone como condición que tenga agua suficiente. Rojas dice que la fortificación construida en un monte es la mejor y la más segura porque desde allí se domina todo y puede verse lo que ocurre.

                                    LUPICINI
     spesso ci manca il potere per resistero alle forze de'nostri nimici, il che forse non avverrebbe se no i esaminassimo molto bene un sito (p. 9).
     ROJAS
     ...será fuerte aquel puesto que no se pudiere minar, ni tenga la subida fácil, sino que el sea el superior, y predomine a todo el terreno (p. 32). [112]

     Buonaiuto Lorini - Cristóbal de Rojas

     El último arquitecto de este período que tiene alguna similitud con Rojas es Buonaluto Lorini que publicó en Venecia su obra Delle fortificationi libri cinque un año antes que la de Rojas, o sea, en 1597.

     La geometría y su importancia

     Lorini empieza su obra diciendo lo importante que es saber la geometría, porque es el fundamento de todas las operaciones y es necesaria a todos los hombres, y especialmente a los que quieren dedicarse a la construcción de las fortificaciones. Es lo mismo que piensa Rojas: para él la geometría es una de las cosas necesarias al ingeniero para ejercer esta profesión.

                                    LORINI
     Essendo la Geometria non solo utile, ma necessario, per esser come fondamento di tutte le nostre operationi, e molto a proposito valersi de' vantaggi de' siti, de' quali tutti concorrono i montuosi essere i migliori, intendendo pero di quelli, che non sono sottoposti alla zappa, e hanno commoditá d'acqua viva a bastanza, sono rilevati da gli altri monti convicini, hanno capacitú di piazza per quanto occorre, e son situati di modo che con gran difficulta si possano assediare (p. 1).
     ROJAS
     La primera de las tres cosas que han de concurrir en el Ingeniero, es la Geometría (p. 28).

     Se puede notar cómo existen algunas similitudes entre los tratados del Capitán Rojas y los de algunos tratadistas italianos publicados en el 1500; algunos conceptos están presentes en casi todos los tratados y representan la preocupación principal de los arquitectos. Estos conceptos son las tres cosas principales que el Capitán Rojas dice que un arquitecto ha de tener presentes. [113]

NOTAS

     1 «Auiendo considerado de 25 anos a esta parte todas las opiniones de fortificación, que han escrito los Ingenieros antiguos, y modernos, entre los quales, han sido el Galasso, y el Busca, Geronimo Maggi, el Capitán Iacome Castrioto, Ingeniero que fue del Rey de Francia el Ano 1560. Iacome Lanteri, y otros muchos, aunque los más modernos, y que más a propósito parece auer escrito, son Carlo Theti, y Geronimo Catanio...», en Cristóbal de ROJAS, Tres tratados sobre fortificación y milicia, Madrid, Biblioteca CEHOPU, 1985, pp. 88-9.

     2 Ibídem, pp. 305-6.

     3 Marco VITRUVIO, Los diez libros de Arquitectura, trad. de Joseph ORTIZ Y SANZ, Barcelona, 1987, p. 259.

     4 ROJAS, op. cit., p. 306.

     5 Girolamo CATANEO, Opera nuova di fortificare, Brescia, 1564, p. 2.

     6 Girolamo MAGGI, Della fortificatione delta città, libri III, Venecia, 1564, p. 4 bis.

     7 Carlo THETI, Discorsi di fortificationi, Roma,1569, p. 44 bis.

[115]

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La coartada: la Florencia del siglo XV como inspiración y memoria en el teatro histórico de Fernando Fernán-Gómez

Cristina Ros BERENGUER

Universidad de Alicante

[116]

     Estaremos de acuerdo en que Fernando Fernán-Gómez es, ante todo, actor. No sólo porque como tal es conocido por la mayoría del público, sino porque su labor en el campo de la interpretación ha merecido siempre un reconocimiento unánime. Sus múltiples incursiones en otras facetas artísticas han seguido una línea mucho más irregular, y éxitos indiscutibles como escritor (El viaje a ninguna parte, 1985), como dramaturgo (Las bicicletas son para el verano, 1984), como guionista y director cinematográfico (La vidapor delante, 1955; La vida alrededor, 1959; El extraño viaje, 1964), se alternan con fiascos absolutos; éstos, unas veces por desconocimiento e incomprensión, otras porque no alcanzaban un mínimo interés, han hecho de la heterogeneidad la característica más sobresaliente de su carrera como escritor y director de cine.

     En Femando Femán-Gómez lo único indiscutible es, por un lado, la satisfacción que él mismo siente hacia lo que considera su verdadera profesión, la interpretación, y, por otro, que tal actividad determina cualquiera de esas facetas complementarias a las que se ha dedicado, es decir, que como intérprete entiende también su aportación a la literatura o su incursión en la dirección cinematográfica. Nada más claro que sus propias palabras cuando confiesa:

                                    ...Nací actor, bueno, malo o mediano, pero actor. Yo creo que cuando hago otros trabajos dentro del mundo del espectáculo, como escribir o dirigir, escribo como actor y dirijo como actor. Si tuviera obligación absoluta de definirme, elegiría lo de actor (Cambio 16, 1983). [117]

     De ello se desprende que, a pesar de la citada heterogeneidad o dispersión, sus trabajos mantienen siempre un vínculo, y éste es el actor Fernando Fernán-Gómez. Ello implica, en cualquier caso, un proceso creativo peculiar en el cual el actor prevalece e incluso condiciona decisivamente la labor del dramaturgo y del escritor en general.

     Así, debido a las constantes influencias entre las que se mueven sus proyectos creativos, podemos hablar de la «teatralidad» presente en muchos de sus films como realizador, o de la indudable influencia cinematográfica de su obra literaria.

     En el primer caso, es decir, respecto a sus películas, se trata, sin duda, de un apego consciente a la dimensión literaria, pero no sólo porque buena parte de éstas sean adaptaciones literarias de textos dramáticos, cuentos y novelas, o sean también versiones filmadas de sus propias obras (El viaje a ninguna parte, 1986; El mar y el tiempo, 1989). La «teatralidad», elemento sustancial de la propuesta estética, se evidencia asimismo a través de ciertos mecanismos de representación. De este modo, la dirección de los actores supone en ocasiones una clara apuesta por la retórica teatral, por la comicidad virada hacia la exageración y, en consecuencia, por la ruptura del naturalismo (M. Vidal Estévez, 1993: 86); aparte de constatar igualmente una clara apuesta por el texto y por el intérprete, erigidos ambos en base fundamental del trabajo creativo.

     En cuanto a su teatro, como «teatro de autor», hace prevalecer igualmente el texto y al actor como las piezas clave del espectáculo. No obstante, sin olvidar que su concepción poética se debe ante todo a la formación clásica del autor, es posible asimismo rastrear la influencia cinematográfica a través de la estructura interna de sus obras, cómo éstas se desarrollan y se enlazan con frecuencia en forma de escenas breves y concatenadas que recuerdan las secuencias cinematográficas, y cómo en ellas se da un peculiar tratamiento espacio-temporal.

     Como veremos a continuación, la influencia que su labor interpretativa ejerce en el resto de sus manifestaciones artísticas actúa tanto desde la propia personalidad de nuestro actor, como desde lo que constituye la esencia del trabajo actoral: la magia de la empatía. [118]

     El actor-autor memorialista

     Francisco Umbral, en un artículo dedicado a Fernando Fernán-Gómez, lo definía como un «intérprete de sí mismo», como un actor que durante toda su vida, más que «profundizar» en los personajes, ha hecho de ellos su propio espejo. El genial autor y crítico sitúa al actor entre la «raza de los memorialistas», esto es, de los que nutren la creación con su propia vida, practicando el arte como una verdadera «ceremonia de la rememoración» (El Mundo, 1991).

     Lo interesante es que dicha cualidad interpretativa puede hacerse extensible a sus obras literarias. En ambos casos el punto de partida sería el mismo: el yo vehemente y la conciencia del tiempo, lo vivido, como esencia de la obra y del individuo.

     Si el actor crea a los personajes desde sí mismo, quiere decirse que en cualquiera de sus interpretaciones podemos verlo reflejado de algún modo, podemos rastrear sin mucho esfuerzo algunas huellas de su vida, de su pensamiento o de su propio mundo. Pues bien, tal como el actor compone al personaje, «con la materia misma de sus sueños» (F. Umbral, 1991), el escritor crea sus obras literarias, en las que juega un papel fundamental esa «inevitable» fusión entre la vida y la literatura.

     Cuando Fernando Fernán-Gómez compara la actuación con su labor como escritor comenta: «el trabajo del escritor requiere calma, tranquilidad, serenidad, es más sedentario, hay que reposarlo, recoger todos los recuerdos, imaginar» (El País, 1985).

     Ahí tenemos, pues, al actor-autor memorialista, el cual convierte la memoria en estimulo creativo fundamental, y hace del recuerdo el protagonista indiscutible de sus obras autobiográficas (El tiempo amarillo, 1990) y el participante más o menos explicito de todas sus obras de ficción (C. Ros Berenguer, 1996a). [119]

     El actor y el personaje: realidad y ficción en un único creador

     Por otra parte, refiriéndonos ya al poder de la interpretación en sí mismo, es posible también que éste, es decir, la capacidad de reflejar y verse reflejado en otro, repercuta en la concepción literaria. En ella llegaría a primar asimismo esa doble visión que multiplica las perspectivas y, por lo tanto, relativiza y pone en duda la veracidad de nuestra conducta, nuestras opiniones, del sentido último de la existencia. El texto surge, pues, más que como realidad, como proceso de rememoración, en el que lo que sucede unas veces es verdad y otras mentira, unas realidad y otras ficción.

     Eduardo Haro Tecglen, en su introducción a La coartada, comentaba la posibilidad

                                    ...de que influya en todo este juego la primordial condición biográfica de Fernando Fernán-Gómez como actor -una manera de incorporarse a la ficción viendo las cristalizaciones alotrópicas posibles de una misma realidad, una forma de mentir sin mentir, puesto que se sabe que el actor está mintiendo- y la de rebuscar en los otros grandes autores-actores de estos y otros tiempos esa misma huella (1985: 16-17).

     El ejemplo más claro de todo ello lo tenemos en dos de sus personajes: el protagonista del texto teatral La coartada, Esteban Maffei, y el Carlos Galván de su novela El viaje a ninguna parte (C. Ros Berenguer, 1996b: 31-42). De ambos, el que ahora nos interesa, el padre Maffei, destaca, precisamente, por ser él quien mejor encarna, por un lado, el juego escénico en el que constantemente se afirma y se desmiente lo sucedido, llegando incluso a negar su propia existencia:

                                    Yo no soy nadie. Decídselo. ¿Cómo puedo haber hecho nada? Decidles que nunca he sido nadie. ¡Yo no existo ni he existido nunca! ¡Cómo puedo haberlo hecho yo! ¿Cómo puedo haber matado a Lorenzo de Médicis? (Cuadro I)
     ¡Vos sabéis que yo no he sido, que yo no he alzado la mano contra nadie! ¡Ni he salido de Roma, ni de casa de mi padre! ¡No, no he salido aún ni del vientre de mi madre! ¡No estoy aquí, en Florencia! (Cuadro III) [120]

     Por otro lado, porque el personaje de Maffei es el que reconduce el relato y, por lo tanto, dota al texto de una estructura interna en la que el tiempo es de nuevo elemento fundamental de la composición textual.

     En La coartada el tiempo avanza y retrocede como la conciencia de Esteban Maffei; ésta es la que guía los acontecimientos, los cuales, sujetos a ella, recomponen y vivifican el pasado con el desorden y el desconcierto con que el protagonista se enfrenta a su agonía.

     El texto alterna los monólogos del protagonista, esos breves párrafos en los que habla solo, pero siempre como si alguien le acompañase (cinco de los quince cuadros: I, III, VII, IX, XIII), con las circunstancias que rodean la trama antes y después de ese 26 de abril de 1478 en que sucedieron los hechos.

     La conciencia atribulada de Maffei envuelve la construcción formal de la pieza teatral en una ruptura continua de tiempo y lugar, reflejando en sí mismo las dislocadas manipulaciones del destino. La memoria, principio y fin de la historia, es el sentido último de la existencia del individuo.

     Un drama histórico

     ¿Desde qué punto de vista podemos considerar La coartada una obra histórica?

     El texto de Fernando Fernán-Gómez nos introduce en una materia histórica reconstruida y, por lo tanto, no se atiene a los cánones realistas convencionales.

     El suceso que inicia la trama es el atentado que se produjo en 1478 contra los Médicis durante la celebración de una misa en la Catedral Santa Maria del Fiore de Florencia. Como resultado murió Julián de Médicis y fue herido su hermano Lorenzo. Todo ello encubría problemas políticos entre el poderoso Lorenzo el Magnífico y la Iglesia de Roma y su Papa, Sixto IV, con sus aliados, la familia Pazzi.

     Lorenzo de Médicis encarnaba el ideal del renacimiento italiano, gozando de gran poder en Florencia y de enorme prestigio en toda Europa. [121] Poeta, filósofo y mecenas, dedicó también buena parte de su actividad diplomática y militar a mantener el equilibrio de los estados italianos. Se enfrentó así a los proyectos de expansión de Sixto IV, quien decidió retirar a los Médicis la gestión de los fondos de la Iglesia romana y otorgar el cargo de tesorero de la Santa Sede a Francesco Pazzi en 1474. La banca de la familia Pazzi rivalizaba por entonces con la de los Médicis, quienes, en venganza, confiscaron una parte de su fortuna. Como respuesta, Francesco Pazzi preparó junto con sus parientes, el arzobispo de Pisa, algunos florentinos enemigos de los Médicis y un sobrino del Papa, un atentado que acabó con la vida de Julián, pero en el que Lorenzo consiguió escapar de sus asesinos. El pueblo, apoyo incondicional de los Médicis, tomó de nuevo partido por ellos y los responsables de la conjuración fueron detenidos y ejecutados, y la familia finalmente fue desterrada.

     Este mismo tema lo habla desarrollado en 1789 el Conde de Alfieri en su tragedia La conjuración de los Pazzi, uno de los libros que inspiró a Fernando Fernán-Gómez la composición de La coartada. En su nota final a la edición que publicó Espasa-Calpe en 1985, Fernán-Gómez citaba las fuentes de las que se nutrió para escribir el texto, entre ellas, las Obras Completas de Alfieri y la obra narrativa de Maquiavelo inspirada en la Florencia del primer tercio del siglo XV, las Historias florentinas. Ambas obras habían sido traídas desde Italia por su amigo Rafael Azcona.

     En esa nota final Fernán-Gómez comentaba asimismo su intención expresa de escribir el texto para presentarlo al Premio Teatral Lope de Vega a principios de los setenta, pero precisando que la idea había partido de muchos años antes, cuando por primera vez se interesó por escribir una novela histórica:

                                    Una de mis lecturas preferidas de infancia y de adolescencia eran los folletines del siglo XIX. Me hubiera gustado escribir una novela histórica. Pero no me he considerado capacitado para ello ni por lo de novela, ni por lo de histórica.
Quizá en teatro fuera más fácil, pensé durante algún tiempo. Pero no encontraba el tema.
Creí encontrarlo en un libro sobre el Renacimiento, de Fred Berence, o en uno sobre Lorenzo el Magnífico, de Marcel Brion. No recuerdo [122] bien. Hace ya mucho tiempo. Fue por los años cincuenta. Un bandido no se atrevía a cometer un magnicidio en la iglesia y ocupaba su lugar un cura (1985: 123).

     De estas declaraciones nos interesa, por un lado, el hecho de que se sintiera atraído por los folletines del XIX, como sabemos, más en la línea del pseudo-historicismo que del rigor en la exposición de los acontecimientos históricos; por otro, el hecho deducible de que no considere La coartada como una obra histórica, al menos en sentido estricto.

     El siguiente comentario del autor es:

                                    Puse manos a la obra, pero las quité muy pronto. Y el caso era que me gustaba lo que había escrito. No recuerdo por dónde comencé el trabajo, porque casi nunca lo empiezo por el principio, sino por lo que me resulta más fácil, o por lo que pienso que está ya más dentro de mí. Que se puede parecer más a un recuerdo que a una invención (1985: 123).

     Ahí encontramos la clave para considerarla, más que una obra histórica, una comedia introspectiva e intelectual de carácter histórico. En efecto, la sustitución del cura por el asesino que no se decide finalmente a cometer un crimen en una iglesia, es decir, el hecho histórico, no posee sentido en sí mismo sino como estímulo para la creación de algo diferente, para una «nueva» versión de los acontecimientos, vividos tal y como se recuerdan, tal y como los recrea la memoria. El autor nos habla más de recuerdo que de invención, obligando a realidad y ficción a pasar por el tamiz de la memoria y, en consecuencia, de la propia conciencia.

     En alguna ocasión, Fernando Fernán-Gómez ha comentado:

                                    El benévolo, apacible olvido, todo lo envuelve, lo confunde; nos envuelve y nos confunde ayudado por su compadre el tiempo. La caprichosa memoria contribuye con su veleidad femenina a que creamos que fue lo que no fue. La odiosa responsabilidad se desvanece... (El País Semanal, 1986).

     En esta ocasión, no es el autor el que opta por un proceso creativo «memorialista», sino que otorga esta capacidad a uno de sus personajes, y hace de ella la verdadera protagonista del drama. [123]

     La agonía de Esteban Maffei consiste, precisamente, en querer rehacer el tiempo y conseguir así que en su memoria los sucesos se organicen de manera diferente, en creer que fue lo que no fue. El largo monólogo, en el que el resto de los personajes «son entonadores, [...] dobladores o desdobladores de esa larga oración de Esteban Maffei» (E. Haro Tecglen, 1985: 16), es un intento ininterrumpido por dilucidar la disyunción entre la conciencia individual y la conciencia del grupo, el compromiso hacia uno mismo o hacia los demás. En el caso del padre Maffei, un compromiso por defender los intereses de la Iglesia romana, una institución de la que, finalmente, se verá desasistido por completo.

     En este sentido, es ilustrativo el Cuadro IX, un breve monólogo en el que Esteban Maffei parece dirigirse a Jacobo de Pazzi e increparle:

                                    ¡Un simple mensajero! ¡Nada más! Insistí en ello, lo recordaréis. Ahora debéis aclararlo. Deberéis aclarárselo a los jueces, o a quienes vengan a prendernos. Porque nos prenderán... Hemos fracasado, Pazzi, ha fallado el golpe. Yo lo sé. Pero vos repetiréis lo que yo os decía: no tengo pensamiento ni opinión, soy sólo la voz del Cardenal... Ni consejero, ni consejero soy. No lo habréis olvidado. ¿Os acordáis bien? Os enojabais cuando yo hablaba así y ahora eso es lo importante. Explicadles bien que ni siquiera ese simple mensajero era yo. Que yo no era. Que había elegido ser otro ser el Cardenal, o Roma, o la Santa Iglesia. Pero no era yo. Yo no sentía con mis sentimientos, no pensaba con mis pensamientos. Hacía años que no los tenía. Quizá ahora me vuelven de pronto y por eso... ¡por eso debéis salvarme! ¡Para que tenga más tiempo! Si no me ayudáis, no sólo me condenarán los jueces de Florencia, también Dios me condenará. Pero si me dais tiempo, yo podré procurar mi salvación. Pero para eso debo ser yo, no ser Roma, ni la Iglesia, ni el Cardenal.

     Según Fernán-Gómez, el interés de La coartada consiste, precisamente, en «poner de manifiesto la idea de si uno debe seguir los dictados de su conciencia, o se debe amparar en un determinado grupo, en un dogma, en un partido político...» (J. Tébar, 1984: 114). Ése es el tema de la obra y es el que centra el interés del autor, llegando en ocasiones a adquirir profundas connotaciones religiosas -él mismo considera el enfoque de un marcado dramatismo-. [124]

     Interpretado el tema de esta manera, podrían justificarse algunas de las críticas del estreno que la consideraban una obra confusa y desconcertante en cuanto que su autor se recreaba excesivamente en los problemas de identidad de Esteban Maffei, olvidándose de otras materias dramáticas más ricas que sólo aparecían fugazmente en el desarrollo de la obra y que el escritor había despreciado. Se trataba, por ejemplo, de temas como la relación entre Iglesia y poder, entre carisma y tiranía, o incluso el conflicto de Montesecco, asesino a sueldo contratado para matar a los Médicis y que rehúsa finalmente cometer su crimen en el interior de una iglesia. FernánGómez concentra prácticamente toda la atención del drama en los largos, repetidos y angustiosos monólogos de Maffei, porque la intención es otra. No se trata de aprovechar el juego dramático de los conflictos mencionados, sino de recrear la conciencia de un fraile que asesta una fallida puñalada en el cuello de Lorenzo de Médicis. Las causas y las consecuencias políticas de este hecho no interesan demasiado, son tratadas superficialmente porque la reproducción de los acontecimientos nunca se plantea como el objetivo último de la creación literaria. Ésta vuelve a acercarse a la realidad -siempre pretérita- para pasarla por el filtro de la subjetividad, que es tal y como funciona la memoria. De ahí que el interés de La coartada se concentre, fundamentalmente, en el tratamiento del tiempo, confuso y desordenado como el recuerdo de los acontecimientos y como la propia conciencia, en una infatigable lucha entre el deber y el creer.

     Es curioso que, para Haro Tecglen, la condición histórica de La coartada estaría no en los sucesos en sí, en la lucha de poder y en la trama sobre Maffei y Montesecco, en la sustitución del hombre que ha de matar, sino en todo ese conjunto de ideas y comportamientos de la Florencia de finales del siglo XV. En su opinión, se trataría de un drama de soledad emparentado con el teatro del absurdo, pues éste más de una vez se ha valido de fondos históricos para su angustia: «No es precisamente un drama existencialista -comenta Haro Tecglen-, pero está impregnado de existencialismo. Hay en él un valor de náusea» (E. Haro Tecglen, 1985: 19).

     No olvidemos, por otra parte, que dicho argumento es preocupación [125] constante en otras de las composiciones de Fernán-Gómez. Ahí están muchos de sus artículos en prensa, o todos esos personajes emblemáticos recreados en sus historias de pícaros y, más concretamente, los actores desclasados que protagonizan su pieza teatral Los domingos, bacanal. Recordemos que en esta obra el autor juega de nuevo entre la realidad y la mentira, aunque en este caso no se trata de un intrincamiento de sucesos, sino de personajes, de identidades y personalidades contrapuestas.

     La memoria histórica

     Por otra parte, recapitulando un poco todo lo dicho, no olvidemos que la memoria, además de funcionar como estímulo creativo en la concepción poética de Fernando Fernán-Gómez, de convertirse asimismo en pieza clave para el personaje y, en consecuencia, para el desarrollo de la obra, ejerce también en ocasiones un papel activo en relación al lector y/o espectador de la obra en cuestión. En estos casos el autor apela a la memoria histórica, a la recuperación del pasado colectivo. Recordemos que la memoria histórica inspirará a nuestro actor-autor una de sus mejores piezas teatrales, Las bicicletas son para el verano, y una de sus mejores películas, Mambrú se fue a la guerra, dirigida e interpretada por Fernán-Gómez en 1986.

     Respecto a la obra que nos ocupa, hubo quien insinuó la posibilidad de que también en La coartada, en cuanto texto histórico, se utilizara determinado período -en este caso el de la Florencia de finales del siglo XV- como metáfora de la época en la que la obra fue escrita. Alberto Fernández Torres, en un artículo titulado «La coartada de Fernando Fernán-Gómez: desconcierto» (Ínsula, 1985: 25), inscribía la obra en la línea del teatro histórico, en el sentido de producción dramática que aprovecha la Historia como materia prima para construir un texto que pretende reflexionar sobre comportamientos sociales determinados, más o menos intemporales.

     Por su parte, en un artículo titulado «Fernando Fernán-Gómez: la [126] apasionada fidelidad por el teatro», Miguel Medina Vicario definía esta obra como un «arabesco histórico», precisando como una de sus características la presencia de un «sosegado latido filosófico» en cuanto «revisión de una dictadura política realizada desde la óptica de un libertario»:

                                    Estamos en un drama histórico lejano en el tiempo y por ello libre de «toda sospecha» ante la censura de los años setenta en que fue concebido. Pero nuestros autores teatrales, maestros en el símbolo, burladores sagaces de todo tipo de inquisidores, conocen bien los mecanismos para manejar los paralelismos históricos, las coincidencias sociales. Como Buero Vallejo, Alfonso Sastre o Domingo Miras, entre otros, Fernán-Gómez satisface aquí su pasión por la Historia y, al tiempo, invita a la complicidad. ¿En qué Florencia estaba pensando verdaderamente el autor al escribir su obra? (1993: 108)

     Este tipo de interpretaciones resultan a primera vista exageradas: en primer lugar, porque no podemos comparar las circunstancias de la obra de Fernán-Gómez y su propia complicidad con las de autores como Buero Vallejo o Alfonso Sastre; en segundo lugar, porque no debemos olvidar que Fernán-Gómez nunca pone su pluma al servicio de partidismos más o menos radicales. Para Fernán-Gómez la vida, antes que política, es individuo, y los problemas que lo acechan como tal, ya sean existenciales o puramente pecuniarios, pueblan las páginas de sus obras, son los protagonistas de todas sus historias.

     Aun así, no deja de ser una interpretación interesante, puesto que deberíamos tener en cuenta la época tan confusa en la que la obra fue escrita y, por lo tanto, su indudable presencia, como mínimo, en el ánimo colectivo. De hecho, es el propio autor quien lo insinúa, pues comentando por qué abandonó en su día un trabajo ya iniciado para retomarlo casi veinte años después, confiesa:

                                    ...Pero las circunstancias no me parecían propicias. ¿Para qué trabajar en algo que, posiblemente, no sirviera para nada?
A comienzos de los años setenta, aunque no había muerto Franco ni había cambiado el régimen, el ambiente me pareció más favorable y pensé que aquel drama histórico podía ser adecuado para optar al premio «Lope de Vega» (198 5: 123). [127]

     La coartada fue finalista en 1973 del prestigioso Premio Teatral Lope de Vega, patrocinado por el Ayuntamiento de Madrid. El texto teatral, merecedor de un accésit, no llegaría a estrenarse, sin embargo, hasta doce años después, el 18 de abril de 1985, en el Centro Cultural de la Villa de Madrid. Bajo la dirección de Luis Iturri y la producción de José María Viteri y Emnia Cohen, fue interpretado en sus principales papeles por la propia Emma Cohen, Juan Ribó y Javier Loyola.

     A pesar de que el estreno provocó más críticas que halagos, La coartada cumplió fielmente el papel que se le había encomendado al concederle el accésit. Aunque la dedicación de Fernán-Gómez a la literatura se había acentuado con el paso de los años, de ser sencillamente imprescindible pasa a ser reconocida públicamente, lo cual favorece en nuestro actor una vocación que, sentida desde niño, nunca hasta ese momento había conseguido infundirle la seguridad que puede proporcionar el común reconocimiento. El célebre premio tendrá sus frutos inmediatos: en 1975 comienza la gestación de Las bicicletas son para el verano. [128]

BIBLIOGRAFÍA

     FERNÁN-GÓMEZ, Fernando (1985). La coartada. Madrid: Espasa-Calpe.

     - 1983. «Fernán-Gómez y las bicicletas». Entrevista. Cambio 16. 22 - Agosto.

     -1985. Entrevista. El País. 3 - Marzo.

     -1986. «Septiembre del 36». El País Semanal. 21 - Septiembre.

     FERNÁNDEZ TORRES, A. «La coartada de Fernando Fernán-Gómez: desconcierto». Ínsula. pp. 464-465.

     HARO TECGLEN, E., (1985). Introducción a La coartada. Madrid: Espasa-Calpe.

     MEDINA VICARIO, M. (1993). «Fernando Fernán-Gómez: la apasionada fidelidad por el teatro». En Fernando FERNÁN-GÓMEZ. El hombre que quiso ser Jackie Cooper, Angulo-F. Llinás (eds.), 101-118. San Sebastián: Patronato Municipal de Cultura.

     ROS BERENGUER, C. (1996a). Fernando Fernán-Gómez, autor. Alicante: Universidad (Versión electrónica).

     - 1996b. «De la novela al cine: El viaje a ninguna parte». En Relaciones entre el cine y la literatura: Un lenguaje común, Juan A. RÍOS CARRATALÁ - John D. SANDERSON (eds.), pp. 31-42. Alicante: Universidad.

     TÉBAR, J. (1984). Fernando Fernán-Gómez, escritor. Madrid: Anjana Ediciones.

     UMBRAL, E (1991). «El intérprete de sí mismo». El Mundo. 18 - Agosto.

     VIDAL ESTÉVEZ, M. (1993). «El cuerpo del autor». En Fernando FERNÁN-GÓMEZ. El hombre que quiso ser Jackie Cooper, Angulo-F. Llinás (eds.), pp. 77-97. San Sebastián: Patronato Municipal de Cultura.

[129]

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Giambattista Vico en la recuperación indigenista del siglo XVIII novohispano

José Carlos ROVIRA

Universidad de Alicante

[130]

     Fragmentos de Vico para un sistema

     La scienza nuova de Vico plantea algunos fragmentos de referencia posible para la reconstrucción de la idea de América en el siglo XVIII. Citaré entre otros(1):

                                   470. Ora, ritornando dalle leggi alle storie, riferisce Tacito ne'Costumi de'germani antichi che da quelli si conservavano conceputi in versi i principi della loro storia; e quivi Lipsio, nelle Annotazioni, riferisce il medesimo degli americani. Le quali autorità di due nazioni, delle quali la prima non fu conosciuta da altri popoli che tardi assai da'romani, la seconda fu scoverta due secoli fa da'nostri europei, ne dánno un forte argomento di congetturare lo stesso di tutte l'altre barbare nazioni, così antiche como moderne...(2)
     517.[...] Tacito narra i sagrifizi di vittime umane essere stati solenni appo gli antichi germani [...] E gli spagnuoli gli ritruovarono in America, nascosta fin a due secoli fa a tutto il resto del mondo; ove que'barbari si cibavano di carni umane [...] Talché, mentre i germani antichi vedevano in terra gli dèi, gli mericani altretanto...(3)
     658.[...] Il qual diritto natural eroico si è truovato lo stesso tra gli americani, e tuttavia dura nel mondo nostro ira gli abissini dell'Africa e tra'moscoviti e tartari...(4)
     841. Che i popoli barbari, chiusi a tutte l'altre nazioni del mondo, come furono i germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i principi delle loro storie, conforme si è sopra veduto(5). [131]
     1095. Finalmente, valicando l'oceano, nel nuovo mondo gli americani correbbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei(6).

     Los ejemplos, entre tantos más posibles, son suficientespara atender a un sistema vinculativo que introducía a los pueblos americanos en la historia europea y universal de los pueblos bárbaros que, sin embargo, tienen para Vico un nuevo sentido: su universalismo. Los americanos,como los bárbaros de la antigüedad, forman parte de una historia basada en las acciones del género humano, en la evolución de los mismos y en su repetición («corso e ricorso»). Los pueblos se han podido detener en una de sus edades (la de los dioses, la de los héroes y la de los hombres) aunque los americanos, por el descubrimiento europeo, alcanzaron de golpe la última edad evolutiva. Y su decadencia.

     No pretendo, por supuesto, escribir un tratado sobre la filosofía de Vico y su entorno (no central, no decisivo) sobre los pueblos americanos. Pretendo situar solamente las referencias que, indiscutiblemente, eran resonancias posibles en la Italia de la segunda mitad del siglo XVIII. Desde luego, estos americanos-germanos de Vico se podrían confrontar con la pretensión degenerativa del hombre americano (Cornelius de Paw, Frangois Raynal o William Robertson). Y su consagración de la poesía como testimonio esencial de la evolución de las sociedades podía animar además a una recuperación de aquellas culturas.

     Lorenzo Boturini(7)

     La primera y explicita recuperación de Vico en el ámbito del americanismo no se hace en Italia, sino entre México y Madrid, y es la muy conocida lectura del filósofo napolitano que realiza Lorenzo Boturini Benaducci. La tradición encarnada por Boturini es la que se refleja en su Idea de una nueva historia general de la América Septentrional publicada en Madrid en 1746(8). Tanto esta obra como la definitiva Historia general de la [132] América Septentrional, publicada por primera vez en nuestro siglo por Manuel Ballesteros Gaibrois(9), forman partede una tradición cultural centrada en Vico. Si bien la obra de Boturini está escrita entre México y Madrid, y el propio autor se presentará siempre como caballero español, Señor de la Torre y de Hono y Cronista Real en las Indias, la raíz italiana, milanesa, de su formación se identifica rigurosamente en La scienza nuova de Giambattista Vico(10). Es efectivamente el sistema del filósofo napolitano el que se reproduce en la articulación de las ideas y de los episodios trazados por Boturini, hasta el punto de que, como sabemos, aparecida la Idea... en 1746, el autor será sometido a una campaña difamatoria en la que, ante su proyecto de continuidad de esta obra, es acusado de mera traducción de Vico, sin que los acusadores, que intentaban impedir el trabajo de su Historia General de la América Septentrional, parece que se hubieran asomado a las páginas de La scienza nuova(11). El propio Boturini, por otra parte, humildemente declara el origen teórico de su aproximación a América, al comienzo del capítulo II de su Historia:

                                   Juan Bautista Vico, águila y honor inmortal de la deliciosa Parténope, que por espacio de treinta años sucesivos meditó en la común naturaleza de las naciones gentilicias, labrando un nuevo sistema de derecho natural de las gentes sobre las dos columnas de la Providencia y del libre albedrío, y veinte de ellos apartado de toda ocupación dedicó a este solo argumento / dando al público de Nápoles el año 1725 en lengua italiana Los principios de una ciencia nueva, los que a ruego y encargo del conde Juan Artico Porcia [...] y de otros muchos eruditos de Italia, aumentó con otros cinco libros, impresos asimismo en Nápoles el año 1730, es el único que abre camino para penetrar el espeso bosque de la gentilidad(12),

siguiendo con una teoría expositiva y ejemplarizada de las tres edades:

                                    enseñando [Vico] cómo el orden de las ideas de los hombres fue correspondiente al que tenían las cosas humanas; y este convence que después del Diluvio universal, en primer lugar hubo selvas, luego se fabricaron chozas, y mucho tiempo después, aldeas y villas, más adelante ciudades, y finalmente con las artes liberales y mecánicas hicieron las Academias, y así se advierte que los hombres primeramente [133] sienten la falta de lo necesario, después reflexionan lo que les puede ser útil y, andando el tiempo, apetecen la comodidad, más adelante buscan el deleite; de éste pasan a pavonearse con galas ostentosas y, en fin, llegan al desperdicio de las propias haciendas. De cuyos incontrastables principios se sigue que la naturaleza de los pueblos primeramente fue áspera, después severa, luego benigna; de allí pasó a deliciosa y remató en disoluta, etc.

para llevar esta teoría evolutiva de la humanidad al patrimonio cultural que quiere restituir:

                                    Estos generales presupuestos que se observan en todos los tiempos, y se extienden sin distinción alguna a todas las naciones, por cuanto los gradúa la misma naturaleza, no sólo dan a conocer las costumbres que tuvieron nuestros indios, sino que también manifiestan los principios y perfecciones de sus ciencias, pues de la Naturaleza se puede alcanzar la luz de las cosas y de las ideas comunes de los hombres...

     Dos niveles nuevos nos aporta el nombre de Vico aquí: por una parte, el análisis de la obra de Boturini demuestra que es quizá el primero que trabaja siguiendo a Vico en una historia cultural no acumulativa de América, sino basada en un sistema de interpretación en el que busca una razón de ser para lo que va a contar, un entrelazamiento de la temporalidad, y los símbolos de la misma, de la América precolombina con la historia general de la humanidad, para dotar de un sentido a ésta. El recurso a la filosofía de la historia viquiana dota a la obra de Boturini de una condición paradigmática nueva en su explicación de las edades americanas, una explicación en la que pretende corregir los errores de los que se le anticiparon: así, ideas sustentadas por el descriptivo Giro del mondo de Francesco Gemelli Carreri son corregidas en el capítulo X de su Idea..., como son corregidos otros muchos autores con una perspectiva metodológica nueva. La segunda aportación de la presencia de Vico tiene que ver con los límites de la ortodoxia en los que su obra se encuentra. [134]

     Francisco Javier Clavijero

     En el año 1767 llegaban los jesuitas, expulsados de América, a Italia. Es un episodio cultural que ha tenido múltiples tratamientos, y entre ellos el que sigo considerando central del padre Miguel Batllori. Entre los que se afincaron en Bolonia estaba el grupo de jesuitas mexicanos del que Francisco Javier Clavijero será figura principal, sobre todo por la publicación en 1780, en italiano, de la Storia antica del Messico.(13)

     En el caso de una obra como la de Clavijero tenemos quizá como rasgo original esa decisión sistemática de reconstruir la historia del México antiguo en cuatro amplios volúmenes que se convierten, creo, en el trabajo más nuevo del período. Por otra parte, hay dos rasgos que quiero destacar y que quizá den otro cuerpo a la línea de interpretación que propongo: Clavijero es, efectivamente, un jesuita mexicano que, al perder la patria por la expulsión de 1767, hace un esfuerzo casi sobrehumano de trabajo, por una parte para responder a las afrentas degenerativas de lo americano y, por otra, para reconstruir un pasado de México previo a la llegada de los españoles. La biografía contemporánea que trazó el padre Juan Luis Maneiro(14) está llena de pistas de reconstrucción que ha seguido con bastante fortuna Charles Ronan en su monografía sobre Clavijero(15). Carente de libros, sólo con sus notas acumuladas en su tiempo mexicano, Clavijero habría desplegado una amplia serie de contactos para proporcionarse los materiales que necesitaba, y realizado una serie de recorridos entre los que se destacan anécdotas como las de ir en un mismo día de Bolonia a Módena para consultar un volumen.

     Este sistema cultural que indican las bibliotecas recorridas está en la base de todo su trabajo de reconstrucción histórica y es explicación de su fortuna. Como está en la base también el poder intelectual de la Compañía en el ámbito de Bolonia, aquellas bibliotecas que maravillaron al español expulso Juan Andrés tanto como los «conventos enormes» de su orden. Una reconstrucción masiva de este espacio está en el libro colectivo Dall'isola alla città. I gesuiti a Bologna, aparecido en 1988(16).

     En este marco no es extraña la fortuna de Clavijero en su reconstrucción [135] sistemática, mediando un esfuerzo de restitución de la historia antigua de la patria abandonada. Y, en ese intento, escribe sus diez libros en los que recorre un espacio múltiple de tradiciones y fuentes culturales. Cuando Francisco Javier Clavijero publica su obra da bastantes referencias de Lorenzo Boturini, que han sido atendidas por los que se han ocupado tanto de la obra de uno como de otro. Entre las referencias, la principal aparece al comienzo del primer volumen cuando da la «Notizia degli scrittori della storia antica del Messico», donde recorre a todos sus precursores desde Hernán Cortés hasta los autores de su época y donde nos da la siguiente nota sobre Lorenzo Boturini Benaducci:

                                    Milanese. Questo curioso, ed erudito Cavaliere si portò nel Messico nel 1736, e vago di scrivere la Storia di quel Regno fece in otto anni, che vi stette, le più diligenti ricerche intorno all'antichità, imparò mediocremente la lingua messicana, fece amicizia cogli Indiani per ottenere da loro delle pitture antiche, e si procacciò delle copie di molti stimabili manoscritti, che v'erano nelle librerie de'Monisteri. Il museo, che ne formò di pitture, e di manoscritti antichi, è stato il più copioso, e il più scelto, almeno dopo quello del chiarissimo Sigüenza, che mai siasi veduto in quel Regno, ma prima di metter mano alla Sua opera, fu dalla troppa gelosia di quel governo spogliato di tutta la sua robba letteraria, e mandato in Ispagna, dove essendosi affato purgato d'ogni sospetto contro la sua fedeltà ed onore, senza però ottenere i suoi manoscritti, stampò in Madrid nel 1746, in un tomo in quarto un saggio della grande storia, che meditava. In esso si trovano delle notizie importanti non mai pubblicate, ma vi sono ancora degli errori. Il sistema di storia, che si era formato, era troppo magnifico, e però alquanto fantastico(17).

     El sistema «magnífico y fantástico» de Boturini

     Clavijero repite esta idea sobre Boturini otras veces; por ejemplo, hay otra advertencia significativa al comienzo de su libro VI, el que trata de la religión de los antiguos mexicanos: [136]

                                    Tra gli Dei particolari da'Messicani adorati, ch'erano molti, benchè non tanti, quanti que'de'Romani, tredici erano i principali e maggiori, ad onore de'quali un tal numero, come vedremo, consacrarono. Esporremo intorno a questi, ed agli altri Dei ciò, che abbiam ritrovato nella mitologìa messicana, non curando le magnifiche congetture, ed il fantastico sistema del Cavaliere Boturini(18).

     La referencia nos sitúa a Clavijero otra vez en una tradición concreta establecida ya en el mundo italiano y en el mundo hispánico cuando él pretende corregir lo anterior aduciendo su verdad.

     Respuesta de un viejo cartesiano

     Que Clavijero no cita a Vico es obvio. Que cuando habla de las magníficas conjeturas, o del sistema fantástico de Boturini, rechazándolo, se está refiriendo a la más que impronta viquiana en el mismo, parece evidente. Podríamos explicarlo aduciendo que las actitudes de la Compañía de Jesús ante el filósofo napolitano no parecen favorables, y esto explicaría de nuevo la alusión a las «magníficas conjeturas» y al «fantástico sistema». Podríamos decir también que una parte de la historiografía del XVIII ha insistido una y otra vez (tópica y erróneamente) sobre la no muy amplia fortuna que tuvo entre sus contemporáneos, no pareciendo claro esto si tenemos en cuenta que Boturini lo era, y su obra aparece dos años después de la edición definitiva de La scienza nuova, aunque Boturini partía de la edición de 1730.

     Podemos suponer fácilmente, entonces, el final de esta historia: un repaso a la biografía de Clavijero (y, en general, a la de jesuitas americanos como Javier Alegre, o Diego José Abad, Mariano Veytia, Juan Luis Maneiro... y, más en general todavía, a la Compañía de Jesús(19)) nos situará con fuerza a Descartes en la formación de su preocupación científica y educativa, y en el caso de Clavijero esto es además de una evidencia absoluta. Su biógrafo y amigo Maneiro nos explica los años mexicanos de docencia de filosofía en Valladolid de Michoacán recordándonos su curso: [137]

                                    Explicaba el pensamiento de los filósofos de Grecia, con maravillosa claridad; pero también todo lo útil encontrado por filósofos recientes como Bacon, Descartes y Flanklin. Aquellas novedades para México gustaron, y el maestro que las descubría fue tenido por un genio y por un benemérito de su patria. Clavijero sabía enseñar [...] Era de ver el ardor con el que tomaban la clase aquellos adolescentes. Se les ponía ante la ciencia de las cosas; pues aquello era ciencia de las cosas y no palabrería hueca sobre vaguedades...(20)

     El curso fue impartido el año 1766, desde mayo, justo un año antes del destierro. Pero antes hubo varios destinos (y problemas) en colegios de la Compañía, en los que podemos reconstruir a un sacerdote empeñado en conocer la ciencia y la filosofía moderna, escritor de un Cursus Philosophicus diu desideratus, perdido, del que sólo se conserva la parte llamada Physica Particularis(21). Hay otros datos de su aprendizaje de Descartes, Bacon, Flanklin y Gassendi en la biografía de Maneiro, y de su pasión (y sus problemas) por la ciencia y la filosofía en documentos publicados por Jesús Romero Flores(22).

     La conclusión, insisto, parece obvia. No pudo desconocer a Vico desde la Bolonia de la segunda mitad del setecientos. De hecho, lo conocía a través de Boturini y de sus referencias explícitas. Quien conseguía en México libros de Flanklin a diez años de su publicación en Filadelfia, quien pedía desde Italia libros a todas las ciudades del país y a España, no podía desconocer la polémica anticartesiana que Vico (en De ratione, en De antiquissima(23)) había generado como base de su filosofía. La razón cartesiana se oponía como sistema al universalismo poético de Vico, la historia de las civilizaciones se fundaba sobre lo verdadero, que era lo geométrico, lo matemático y lo físico, y no sobre aquella poética de lo verosímil que Giambattista Vico habla creado para explicar la cultura, la poesía y la historia de la humanidad.

     Imagino ahora al jesuita Clavijero recorriendo las bibliotecas de la Bolonia del último cuarto del XVIII y decidiendo que él, que había escrito antes de Filosofía y de Física, iba a construir entonces la Historia. La del México del que había sido expulsado. La del México antiguo que Boturini [138] (apoyándose en Vico) había recreado a partir de sus «magníficas conjeturas». En esa decisión omitía al filósofo anticartesiano, para dejar lo fantástico, para construir su sistema real y racional, aunque éste, Giambattista Vico (explicitamente o no), hubiera sido un impulso central para revalorizar la antigua civilización y, en cualquier caso, para propiciar como precedente los dos siglos de recuperación del pasado americano, en los que estamos. [139]

NOTAS

     1 Cito por la edición Giambattista VICO, La scienza nuova giusta l'edizione del 1744, ed. de Fausto Nicoeini, Bari, Laterza, 1967.

     2 «Volviendo ahora de las leyes a la historia, Tácito refiere en Las costumbres de los antiguos germanos que éstos conservaban en verso los principios de su historia. Lipsio, en sus Axiomas, habla de lo mismo entre los americanos. Esta autoridad de las dos naciones, la primera de las cuales no fue conocida por otros pueblos, sino por los romanos y bastante tarde, y la segunda fue descubierta hace dos siglos por los europeos, nos dan un fuerte argumento para conjeturar lo mismo de todas las demás naciones bárbaras, tanto antiguas como modernas.»

     3 «Tácito narra que los sacrificios de víctimas humanas se celebraban solemnemente entre los antiguos germanos [...] Y los españoles los encontraron en América, escondida hasta hace dos siglos al resto del mundo, donde aquellos bárbaros se alimentaban de carne humana [...] Así también, mientras que los germanos antiguos veían en la tierra a los dioses, los americanos igual.»

     4 «Este derecho natural heroico se ha encontrado igual entre los americanos, y persiste todavía en nuestro mundo entre los abisinios de África y entre los moscovitas y tártaros...»

     5 «Que los pueblos bárbaros, cerrados a todas las demás naciones del mundo, como fueron los germanos antiguos y los americanos, conservaron en versos los principios de sus historias, conforme se ha visto más arriba.»

     6 «Por último, atravesando el océano, en el nuevo mundo los americanos corroborarían semejante curso de las cosas humanas, si no hubiesen sido descubiertos por los europeos.»

     7 Cuando inicié la indagación sobre Boturini, con las indicaciones que había encontrado a través de Manuel BALLESTEROS GAIBROIS en el trabajo que cito más adelante, desconocía el importante libro de Nicola Badaloni, Un vichiano in Messico. Lorenzo Boturini Benaduci (Lucca Fazzi editore, 1990) en el que, junto a la traducción de la Idea de una nueva historia general de la América Septentrional, introduce, comenta y anota las ideas viquianas de Boturini, siendo un libro de referencia principal que da cuenta más ampliamente de las ideas que aquí expongo.

     8 La Idea... apareció publicada junto al Catálogo/ del/ Museo histórico indiano/ del/ cavallero Lorenzo/ Bioturini Benaduci,/ Señor de la Torre y de Hono,/ quien llegó a la Nueva España/ por Febrero del año 1736, etc., Madrid, 1746. Una edición reciente es la de Miguel LEÓN-PORTILLA, con un importante estudio preliminar, Idea de una nueva historia general de la América Septentrional, México, Porrúa, 1974, [140] y la traducción italiana editada por N. Badaloni, Un vichiano in Messico. Lorenzo Boturini Benaduci, ya citada.

     9 La primera edición de BALLESTEROS GAIBROIS apareció en el tomo VI de Documentos inéditos para la Historia de España, Madrid, Imprenta Editorial Mestre, 1948. Hay una edición posterior del mismo BALLESTEROS en México, UNAM, 1990.

     10 Junto a las reflexiones de BALLESTEROS GAIBROIS, hay también una interesante monografía de Alvaro MATUTE, Lorenzo Boturini y el pensamiento histórico de Vico, México, UNAM, 1976.

     11 El profesor Antonio MESTRE ha dedicado al tema un brillante trabajo («Boturini e la diffusione di Vico in Spagna», Vico in Spagna, Bolletino del Centro di Studi Vichiani, anni XXIV-XXV, 1994-95, pp. 209-230) donde analiza el papel de Gregorio Mayans en relación a los problemas de Boturini y su actitud favorable a la publicación de la Historia... tras los problemas tenidos con la Idea...

     12 BOTURINI, edición 1990, pp. 18-19.

     13 Storia antica/ del Messico/ cavata da'migliori storici spagnuoli/ e da'manoscritti, e dalle pitture antiche degl'indiani/ divisa in dieci libri/ e corredata dicartegeografice/ e di vari figure/ el dissertazioni/ Sulla Terra, sugli Animali, e sugli abitatori del Messico/ opera/ dell'abate/ D. Francesco Saverio Clavigero, Cesena, Gregorio Basini all'Insegna di Pallade, 1780. La primera traducción española es de la de José Joaquín MORA, publicada en Londres, R. Achermann, 1826, en dos volúmenes. Entre las ediciones más recientes, la traducción de Mariano CUEVAS, publicada en México por Porrúa en 1958 y sucesivas ediciones.

     14 Juan Luis MANEIRO (Joannis Aloysii Maniri Veracrucensis), De vitis aliquot mexicanorum, aliorumque qui sive virtute, sive litteris Mexici imprimis floruerunt, Bolonia, ex Yyp. Laelii a Vulpe, 1791-92. Hay una traducción de Alberto VALENZUELA RODARTE con un interesante estudio introductorio de Ignacio OSORIO ROMERO, Vida de algunos mexicanos ilustres, México, UNAM, 1988. La vida de Clavijero, a quien dedica la obra, en pp. 442-464.

     15 Charles E. RONAN, Francisco Javier Clavigero S, J. (1731-1787), figure of the mexican enlightenment; His life and works, Roma-Chicago, Institutum Historicum S.I., Loyola University Press, 1977.

     16 Gian Paolo BRIZZI y Anna Maria MATTEUCI (eds.), Dall'isola alla città I gesuiti a Bologna, Bologna, Nuova Alfa Editrice, 1988. Cf. los capítulos de Luigi BALSAINO, «Le biblioteche dei gesuiti», y de Massimo DONATTINI, «Ambasciatori giapponesi ed esiliati americani. Vicende della presenza gesuitica a Bologna».

     17 CLAVIJERO, editio princeps, vol. I, pág. 17. «Milanés. Este curioso y erudito Caballero llegó a México en 1736, y deseoso de escribir la Historia de aquel Reino realizó durante ocho años, en los que permaneció allí, las más diligentes investigaciones [141] en torno a la antigüedad, aprendió mediocremente la lengua mexicana, entabló amistad con los indios para obtener de ellos sus antiguas pinturas, y se procuró copias de muchos estimables manuscritos, que estaban en las bibliotecas de los Monasterios. El museo, que formó con las pinturas y los manuscritos antiguos, ha sido el más abundante y el más selecto, al menos después del de Sigüenza, que nunca se haya visto otro igual en aquel reino, pero antes de comenzar su obra, por el excesivo celo de aquel gobierno, fue despojado de todo su material literario, y enviado a España, donde habiendo restituido su persona de cualquier sospecha contra su fe y honor, sin obtener sin embargo sus manuscritos, imprimió en Madrid en 1746, en un volumen un ensayo de la gran historia que proyectaba. En él se encuentran noticias importantes nunca publicadas, pero hay todavía errores. El sistema de historia que se había formado era demasiado magnífico y por eso algo fantástico.»

     18 CLAVIJERO, ibídem, vol, II, pp. 6-7. «Entre los dioses particulares adorados por los mexicanos, que eran muchos, aunque no tantos como tenían los romanos, eran trece los principales y mayores, por lo que consagraron este número en honor de éstos. Hablaremos sobre éstos, y sobre otros dioses, que hemos encontrado en la mitología mexicana, no teniendo en cuenta las magníficas conjeturas, y el fantástico sistema del Caballero Boturini.»

     19 Dispongo, al cerrar estas páginas, de fotocopias de un interesante trabajo de José BRAVO UGARTE, «Los jesuitas mexicanos del siglo XVIII y sus actividades en el campo de las ciencias», que fue ponencia en el «Primer coloquio mexicano de Historia de la Ciencia», pp. 69-82, del que carezco de datos editoriales y fechas. En cualquier caso recordaré también el libro de Bernabé NAVARRO, Introducción de la filosofía moderna en México, México, El Colegio de México, 1948.

     20 MANEIRO, op. cit., p. 452.

     21 No conozco edición. Un facsímil del manuscrito hay en la Biblioteca de El Colegio de México (MP/42).

     22 Jesús ROMERO FLORES, «Documentos para la biografía del historiador Clavigero», Anales del Instituto Nacional de Antropología e Historia, I, México (1939-1940), pp. 307-335.

     23 Las dos obras, en Glambattista VICO, Opere filosophiche, edición de Paolo di Cristofolini y Maria di Benedetto, Firenze, Sansoni, 1971.

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