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Abajo

Ariel

Rodó, José Enrique

Cancellier, Antonella (ed. lit.)




Un vient de paraître

(in ritardo)


È il caso di ingredire il discorso su Ariel di José Enrique Rodó, opera significativa della cultura latino-americana per la sua priorità (1900) e la discussa posterità, dichiarando il piacere per questa prima pubblicazione in lingua italiana, allestita dalle perite mani della curatrice, e con il sussidio degli interventi in contrappunto di due specialisti, dopo le molteplici edizioni lungo il secolo per lettori di lingua spagnola. E non soltanto giusta l'attrazione dell'anniversario, che sarà nelle sedi ufficiali celebrato, ma per il riconoscimento dell'importanza di questo «manifesto» del Modernismo ispano-americano, inteso nella specie come una affermazione «continentale» della ricerca di identità e di indipendente cammino dei paesi di cultura latina.

Il «saggio», che finge l'ultima lezione di un maestro, Prospero, nelle cui sembianze è l'autore stesso, sotto il segno di Ariele versus Calibano, secondo la discendenza simbolica della Tempesta shakespeariana, è un «messaggio» a favore dell'educazione intellettuale e morale, dell'eccellenza degli ideali estetici, della differenza tra una democrazia come governo della qualità e una democrazia come governo della quantità, dettata dalla mentalità e dal comportamento «utilitari», dalla finalità pratica, dal successo materiale imperante in ogni attività.

Il discorso di Rodó è comunque attento, più che alla antinomia, alla dicotomia, senza che si prospetti l'«arielismo» quale radicale «anti-yankismo»: all'ammirazione per gli aspetti di libertà, la capacità di lavoro, l'istinto di curiosità, la volontà di sviluppo del modello «nord-americano»; e, insieme, ai limiti e agli eccessi, ai pericoli del modello che 'snaturalizza' i caratteri originali, culturali, antropologia, tradizionali dei popoli latinoamericani, nella presupposizione di guida del loro avvenire.

Resta in fatto la grande diffusione del messaggio: si imposero termini come arielismo, arielista, arielizzare; si irrigidì l'antitesi di arielismo e calibanismo, che provocò a sua volta la polemica pro-indigena o indigenista.

È trascorso un centennio; e potremmo interrogara sull'attualità di un racconto, drammatico, se posso dire, di un disegno destinale, d'alto tenore pedagogico-civile, a fronte delle mutate forme e condizioni della complessità storica; e se ancora rappresenti la questione altrettanto principale che problematica: il confronto imponente nel continente americano tra povertà e ricchezza, soggezione e affrancamento, dominio «imperiale» e liberazione «nazionale», comando di un modello di unicità ed eguaglianza della parità nella diversità. Fino alla, nel presente gergo, alternativa strategica di «globalizzazione» e di «glocalismo».

Al lettore d'oggi, che si voglia interessato al rispetto verbale, l'opera di Rodó apparirà una scrittura letterariamente ispirata. In un linguaggio eletto, perfino elativo; oratorio nel modo persuasivo, e meno argumentante; con le porzioni contigue, ingenue (nel senso etimologico) e onorevoli, di lirismo in prosa burilada.

Piuttosto che un saggio, un'esortazione o ammonizione? Un annuncio, o preannuncio, più che un manuale d'azione; un compito e un auspicio, più che una dissertazione; una «lezione» ideale, più che una diagnosi? Un testo che si potrà presumere relativamente astorico; e di cui, tuttavia, non perdere attualmente traccia. Continuiamo a interrogarci.

Gianni Scalia.






Ariel

Alla gioventù d'America.

Quella sera, il vecchio e venerato maestro, che erano soliti chiamare Prospero per allusione al saggio maestro de La Tempesta shakespeariana, si congedava dai suoi giovani discepoli, dopo un anno di lavoro, radunandoli ancora una volta attorno a sé.

Avevano ormai raggiunto l'ampia aula in cui un gusto delicato e severo si prodigava in ogni parte a onorare la nobile presenza dei libri, fedeli compagni di Prospero. Dominava nella stanza -come nume del suo ambiente sereno- un bronzo perfetto che rappresentava l'ARIEL de La Tempesta. Vicino a questo bronzo si sedeva abitualmente il maestro, e perciò lo chiamavano con il nome del mago che, nel dramma, il fantastico personaggio interpretato dallo scultore serve e favorisce. Forse nel suo insegnamento e nel carattere c'era per quel nome una ragione e un significato più profondi.

Ariel, genio dell'aria, rappresenta nel simbolismo dell'opera di Shakespeare la parte nobile e alata dello spirito. Ariel è il dominio della ragione e del sentimento sui bassi stimoli dell'irrazionalità; è l'entusiasmo generoso, il movente alto e disinteressato nell'azione, la spiritualità della cultura, la vivacità e la grazia dell'intelligenza, il termine ideale a cui ascende la selezione umana, che rettifica nell'uomo superiore le tenaci vestigia di Calibano, simbolo di sensualità e di rozzezza, con lo scalpello perseverante della vita.

La statua, arte vera, riproduceva il genio aereo nell'istante in cui, liberato dalla magia di Prospero, sta per lanciarsi in aria per poi svanire in un lampo. Spiegate le ali, sciolta e fluttuante la veste leggera che la carezza della luce sul bronzo damaschinava d'oro, eretta la fronte spaziosa, le labbra socchiuse in un sereno sorriso, tutto nell'atteggiamento di Ariel accusava in maniera mirabile il leggiadro slancio del volo; e con felice ispirazione l'arte, che aveva dato solidità scultorea alla sua immagine, era riuscita a conservarle in essa, allo stesso tempo, l'apparenza serafica e la levità ideale.

Prospero accarezzò, meditando, la fronte della statua; dispose poi il gruppo giovanile attorno a sé; e con voce ferma -voce magistrale che aveva nel fissare l'idea e insinuarsi nella profondità dello spirito, sia la chiarificatrice penetrazione del raggio di luce, sia il colpo incisivo dello scalpello sul marmo, sia il tocco impregnante del pennello sulla tela o dell'onda sulla sabbia- cominciò a parlare in presenza di un'attenzione affettuosa.


- I -

Vicino alla statua che avete visto presiedere, ogni sera, i nostri colloqui di amici in cui ho cercato di spogliare l'insegnamento da ogni ingrata austerità, vi parlerò di nuovo, perché il nostro commiato sia come sigillo impresso in un accordo di sentimenti e di idee.

Invoco ARIEL come mio nume. Per la mia parola vorrei ora il più dolce e persuasivo fervore che essa abbia mai avuto. Penso che parlare alla gioventù di nobili ed elevati motivi, quali che siano, è un genere di oratoria sacra. Penso anche che lo spirito della gioventù è un terreno generoso dove il seme di una parola opportuna è solito produrre, in breve tempo, i frutti di una immortale vegetazione.

Desidero collaborare a una pagina del programma che, nel preparara a respirare l'aria libera dell'azione, esprimerete senza dubbio, nell'intimità del vostro spirito, per conformare la vostra personalità morale e il vostro sforzo.

Questo stesso programma -che a volte si formula e si scrive, altre volte si riserva per essere rivelato nel medesimo corso dell'azione- non manca mai nello spirito dei gruppi e dei popoli, qualcosa di più che le folle. Se, in relazione alla scuola della volontà individuale, Goethe poté dire profondamente che è degno della liberta e della vita solo chi è capace di conquistarle per sé giorno dopo giorno, a maggior ragione si potrebbe dire che l'onore di ogni generazione umana esige che si conquistino attraverso la perseverante attività del pensiero, del proprio sforzo, della fede in una definita manifestazione dell'ideale e della posizione nello sviluppo delle idee.

Nel conquistarle, dovete iniziare con il riconoscere un primo contenuto di fede in voi stessi. La giovinezza che vivete è una forza della cui applicazione siete gli artefici e un tesoro del cui investimento siete i responsabili. Amate questo tesoro e questa forza; fate sì che l'elevato sentimento del suo possesso rimanga in voi ardente ed efficace. Io vi dico, con Renan1: «La giovinezza è la scoperta di un orizzonte immenso che è la Vita». La scoperta che rivela le terre ignote ha bisogno di essere completata dallo sforzo virile che le soggioghi. E nessun altro spettacolo si può immaginare più adatto a catturare allo stesso tempo l'interesse del pensatore e l'entusiasmo dell'artista, se non quello che mostra una generazione umana in cammino verso l'incontro col futuro, vibrante per l'impazienza dell'azione, con la fronte alta, e sul sorriso un altero sdegno del disinganno, l'anima ricolma di dolci e remoti miraggi che diffondono misteriosi stimoli, come le visioni di Cipango e di El Dorado nelle cronache eroiche dei conquistatori.

Dal rinascere delle speranze umane, dalle promesse che affidano eternamente all'avvenire la realtà delle cose migliori, acquista la sua bellezza l'anima che si schiude al soffio della vita, dolce e ineffabile bellezza, formata, come lo era quella dell'aurora per il poeta de Le Contemplazioni2, di «una traccia di sogno e un principio di pensiero».

L'umanità, rinnovando di generazione in generazione la sua attiva speranza e la sua ansiosa fede in un ideale, attraverso la dura esperienza dei secoli, faceva immaginare a Guyau l'ossessione di quella povera alienata la cui strana e commovente follia consisteva nel credere giunto, regularmente, il giorno delle sue nozze. Preda della sua fantasia, cingeva ogni mattina la fronte paluda con la corona di sposa e faceva scendere dal suo capo il velo nuziale. Con un dolce sorriso, si disponeva a ricevere l'illusorio promesso sposo, fino a che le ombre della sera, dopo la vana attesa, portavano la delusione alla sua anima. Allora la sua follia assumeva una tinta melanconica. Ma la sua ingenua fiducia riappariva con l'aurora seguente e, ormai senza il ricordo del disincanto passato, mormorando: Oggi verrà, tornava a cingersi la corona e il velo e a sorridere in attesa del promesso sposo3.

Così, morta l'efficacia di un ideale, l'umanità veste ancora i suoi abiti nuziali per attendere la realtà dell'ideale sognato con nuova fede, con tenace e commovente follia. Provocare questo rinnovamento, inalterabile come un ritmo della Natura, è in ogni tempo la funzione e l'opera della gioventù. Delle anime di ogni primavera umana è tessuta quell'acconciatura da sposa. Quando si cerca di soffocare questa sublime ostinazione della speranza che scaturisce alata dal seno della delusione, tutti i pessimismi sono vani. Sia quelli che si fondano sulla ragione sia quelli che partono dall'esperienza devono essere riconosciuti inutili per contrastare il fiero non importa che sorge dal fondo della Vita. Ci sono momenti in cui, per un'apparente alterazione del ritmo trionfale, attraversano la storia umana generazioni destinate a personificare, fin dalla culla, la perplessità e lo scoraggiamento. Ma esse passano -non senza aver posseduto forse il proprio ideale, come le altre, in forma negativa e con amore inconsapevole-; e di nuovo si illumina nello spirito dell'umanità la speranza nello Sposo bramato la cui immagine, dolce e radiosa come nei versi d'avorio dei mistici, è sufficiente a mantenere la vivacità e il piacere della vita anche quando non potrà mai incarnarsi nella realtà.

La giovinezza, che esprime nell'anima degli individui e in quella delle generazioni luce, amore, energia, esiste in egual modo anche nel processo evolutivo delle società. Proprio dei popoli che sentono e considerano la vita come voi, saranno sempre la fecondità, la forza, il dominio dell'avvenire. Ci fu un tempo in cui gli attributi della gioventù umana divennero, più che in nessun altro momento, gli attributi di un popolo, i caratteri di una civiltà, e un soffio di incantevole adolescenza passò sfiorando la fronte serena di una razza. Quando nacque la Grecia, gli dèi le regalarono il segreto della loro inestinguibile giovinezza. La Grecia è l'anima giovane. «Colui che a Delfi contempla la folla ammassata degli Ioni -dice uno degli inni omerici- immagina che non debbano invecchiare mai»4. La Grecia fece grandi cose perché, della gioventù, ebbe la gioia che è l'ambiente dell'azione, e l'entusiasmo che è la leva onnipotente. Il sacerdote egizio con cui Solone parlò nel tempio di Sais diceva al legislatore ateniese, compatendo i greci per la loro volubilità turbulenta: Non siete altro che bambini! E Michelet ha paragonato l'attività dell'anima ellenica a un gioco festoso intorno a cui si raggruppano e sorridono tutte le nazioni del mondo. Ma da quel divino gioco di bambini sulle spiagge dell'Arcipelago e all'ombra degli ulivi della Ionia, nacquero l'arte, la filosofia, il pensiero libero, la curiosità della ricerca, la coscienza della dignità umana, tutti gli impulsi di Dio che sono anche la nostra ispirazione e il nostro orgoglio. Assorto nella sua austerità ieratica, il paese del sacerdote rappresentava intanto la senilità che si raccoglie per sperimentare il riposo dell'eternità e allontana, con mano sdegnosa, ogni frivolo sogno. La grazia, l'inquietudine sono proscritte dagli atteggiamenti della sua anima, come la vita dal gesto delle sue figure. E quando la posterità volge loro lo sguardo, trova solo una sterile nozione dell'ordine che presiede allo sviluppo di una civiltà che è vissuta per tessersi un sudario e per edificare i suoi sepolcri: l'ombra di un compasso che si stende sulla sterilità della sabbia.

Le doti dello spirito giovane -l'entusiasmo e la speranza- corrispondono, nelle armonie della storia e della natura, al movimento e alla luce. Dovunque volgerete gli occhi, le troverete come l'ambiente naturale di ogni cosa forte e bella. Sollevateli all'esempio più alto: l'idea cristiana, su cui ancora si fa pesare l'accusa di aver rattristato la terra proscrivendo la gioia del paganesimo, è un'ispirazione essenzialmente giovanile finché non si allontana dalla sua culla. Il cristianesimo nascente è nell'interpretazione di Renan -che io credo tanto più vera quanto più poetica- un quadro di giovinezza immarcescibile. Di giovinezza dell'anima o, che è poi lo stesso, di un vivo sogno di grazia, di candore, è composto l'aroma divino che fluttua sulle lente giornate del Maestro attraverso i campi di Galilea; sulle sue prediche che si dipanano estranee a ogni forma di gravità penitente; presso un lago celeste; nelle valli colme di frutti; ascoltate dagli «uccelli del cielo» e dai «gigli dei campi», con cui sono adornate le parabole; propagando la gioia del «regno di Dio» sul dolce sorriso della Natura. Da questo quadro felice sono assenti gli asceti che accompagnavano nella solitudine le penitenze del Battista. Quando Gesù parla di coloro che lo seguono, li paragona ai paraninfl di un corteo nuziale. E l'impressione di quel divino piacere che, incarnandosi nell'essenza della nuova fede, si sente persistere attraverso l'odissea degli evangelisti; diffonde nello spirito delle prime comunità cristiane la sua candida felicità, la sua ingenua gioia di vivere, quella che, giungendo a Roma con gli ignorati cristiani di Trastevere, apre loro un facile vareo nei cuori, perché essi trionfarono opponendo l'incanto della loro giovinezza interiore -della loro anima aromatizzata dalla libagione del vino nuovo- alla severità degli stoici e alla decrepitezza dei mondani.

Siate, dunque, possessori consapevoli della forza benedetta che portate in voi stessi. Non crediate tuttavia che non corra il pericolo di perdersi e svanire, come un impulso senza oggetto, nella realtà. Dalla Natura proviene il dono del prezioso tesoro, ma dalle idee che sia fecondo, o che venga prodigato vanamente, o frazionato e disperso nelle coscienze personali non si manifesti nella vita delle società umane come una forza benefattrice. Uno scrittore sagace ricercava, poco fa, nelle pagine del romanzo del nostro secolo -quell'immensa superficie speculare in cui si riflette intera l'immagine della vita negli ultimi vertiginosi cento anni- la psicologia, gli stati d'animo della gioventù, come sono stati nelle generazioni che vanno dai giorni di René fino a quelli che hanno visto passare Des Esseintes. La sua analisi constatava una progressiva diminuzione di giovinezza interiore e di energia nella serie di personaggi rappresentativi che ha inizio con gli eroi, malati ma spesso virili e sempre intensi di passione, dei romantici, e finisce con gli esseri snervati di volontà e di cuore in cui si riflettono sconsolanti manifestazioni dello spirito del nostro tempo come quella del protagonista di A rebours o quella del Robert Greslou di Le disciple. Ma l'analisi constatava pure una lusinghiera rinascita di vivacità e di speranza nella psicologia della gioventù di cui suole parlarci una letteratura che forse è foriera di trasformazioni più profonde; rinascita che personificano gli eroi nuovi di Lemaître, di Wizewa, di Rod, e la cui rappresentazione più compiuta sarebbe forse il David Grieve con cui una romanziera inglese contemporanea ha riassunto in un solo carattere tutte le pene e le inquietudini ideali di diverse generazioni, per risolverle in un supremo finale di serenità e di amore5).

Maturerà nella realtà questa speranza? Voi, che passerete, come l'operaio in cammino verso le officine che lo aspettano, sotto il portico del nuovo secolo, rifletterete forse sull'arte che produca per voi immagini più luminose e trionfali di quelle che di noi sono rimaste? Se i tempi divini in cui le anime giovani offrivano modelli per i dialoganti radiosi di l'latone furono possibili solo in una breve primavera del mondo; se è inevitabile «non pensare agli dèi» come consiglia la Forchia del secondo Faust6) al coro di prigioniere, non ci sarà lecito almeno sognare l'apparizione di generazioni umane che restituiscano alla vita un senso ideale, un grande entusiasmo, in cui siano un potere il sentimento, la vigorosa resurrezione delle energie della volontà che scaccia, con eroico clamore, dal fondo delle anime, tutte le viltà morali che si nutrono al seno della delusione e del dubbio? Sarà di nuovo la giovinezza una realtà della vita collettiva come lo è della vita individuale?

Questa è la domanda che mi inquieta, quando vi guardo. Le vostre prime pagine, le confessioni che ci avete fatto finora del vostro mondo intimo parlano spesso di indecisione e di stupore, mai di snervamento né di una definitiva frantumazione della volontà. Io so bene che l'entusiasmo è una sorgente viva in voi. Io so bene che le note di scoraggiamento e di dolore che l'assoluta sincerità del pensiero -virtù ancor più grande della speranza- ha potuto far sgorgare dalle torture della vostra meditazione nei tristi e inevitabili appuntamenti del Dubbio, non erano indizio di uno stato d'animo permanente e non hanno significato in nessun caso la vostra sfiducia rispetto all'eterna virtualità della Vita. Quando un grido di angoscia è salito dal fondo del vostro cuore, non lo avete soffocato prima che passasse attraverso le vostre labbra con Faustera e muta fierezza dello stoico nel supplizio, ma lo avete compiuto con un'invocazione all'ideale che verrà7 con una nota di speranza messianica.

Del resto, quando vi parlo dell'entusiasmo e delle speranze come di alte e feconde virtù, non è mia intenzione insegnarvi a tracciare la linea insuperabile che separa lo scetticismo dalla fede, la delusione dalla gioia. Niente di più lontano dal mio animo dell'idea di confondere con gli attributi naturali della gioventù, con la gaia spontaneità della sua anima, quell'indolente frivolezza del pensiero che, incapace di vedere oltre il motivo di un gioco nell'attività, compra l'amore e il piacere della vita al prezzo della sua incomunicabilità con tutto ciò che possa rallentare il passo dinanzi al volto misterioso e grave delle cose. Non è questo il nobile significato della giovinezza individuale, e nemmeno quello della giovinezza dei popoli. Io ho considerato sempre vano il proposito di quelli che ponendosi come vedette scrutatrici del destino d'America, come custodi della sua tranquillità, vorrebbero soffocare, con timoroso sospetto prima che giungesse a noi, qualunque risonanza del dolore umano, qualunque eco venuta da letterature straniere che, per quanto triste e insana, metta in pericolo la fragilità del loro ottimismo. Nessuna salda educazione dell'intelligenza può essere fondata sull'isolamento ingenuo o sull'ignoranza voluntaria. Ogni problema proposto al pensiero umano dal Dubbio, ogni sincero rimprovero che si scagli contro Dio o la Natura, dal seno dello sconforto e del dolore, hanno diritto di essere lasciati pervenire alla nostra coscienza e di essere affrontati. La nostra forza d'animo deve mettersi alla prova accettando la sfida della Sfinge, e non evitando il suo formidabile enigma. Non dimenticate che in certe amarezze del pensiero c'è, come nelle sue gioie, la possibilità di trovare un punto di partenza per l'azione, e spesso suggestioni feconde. Quando il dolore snerva, quando il dolore è l'irresistibile china che conduce al marasma o il consigliere perfido che conduce all'abdicazione della volontà, la filosofia che lo porta nelle viscere è cosa indegna di anime giovani. Può allora il poeta definirlo come l'«indolente soldato che milita sotto le bandiere della morte»8. Ma quando ciò che nasce dal seno del dolore è l'anelito virile della lotta per conquistare o recuperare il bene che esso ci nega, il ferreo pungolo dell'evoluzione è il più poderoso impulso della vita; non diversamente dal tedio che, per Helvétius, arriva ad essere la maggiore e la più preziosa delle prerogative umane, dal momento in cui, impedendo alla nostra sensibilità di snervarsi nella sonnolenza dell'ozio, diventa il vigilante stimolo dell'azione9.

In questo senso, si è detto bene che ci sono pessimismi che hanno il significato di un ottimismo paradossale. Lungi dal supporre la rinuncia e la condanna dell'esistenza, essi propagano, con la loro insoddisfazione del mondo attuale, la necessità di rinnovarla. Ciò che all'Umanità interessa salvare contro ogni negazione pessimistica è non tanto l'idea della relativa bontà del presente, quanto della possibilità di raggiungere un termine migliore attraverso lo svolgimento della vita, accelerato e orientato mediante lo sforzo degli uomini. La fede nel futuro, la fiducia nell'efficacia dello sforzo umano sono l'antecedente necessario di ogni azione energica e di ogni proposito fecondo. È la ragione per cui ho voluto cominciare a raccomandarvi l'immortale eccellenza di quella fede che, essendo nella gioventù un istinto, non deve aver bisogno di esservi imposta da alcuno insegnamento, da quando indefettibilmente la troverete lasciando agire nel fondo del vostro essere la suggestione divina della Natura.

Incoraggiati da questo sentimento, entrate nella vita che vi apre i suoi profondi orizzonti, con la nobile ambizione di farvi sentire la vostra presenza da quando la affronterete con il fiero sguardo del conquistatore. Spetta allo spirito giovanile l'audace iniziativa, la genialità innovatrice. Forse oggi unanimemente l'azione e l'influenza della gioventù nel cammino delle società umane sono meno concrete e intense di quanto dovrebbero essere. Gaston Deschamps10 lo faceva notare in Francia poco tempo fa commentando l'iniziazione tardiva delle giovani generazioni alla vita pubblica e alla cultura di quel popolo, e la scarsa originalità con cui contribuiscono all'abbozzo delle idee dominanti. Le mie impressioni sul presente dell'America, in quanto possono avere un carattere generale malgrado il doloroso isolamento in cui vivono i popoli che la costituiscono, giustificherebbero forse una simile osservazione. E tuttavia io credo di vedere ovunque espressa la necessità di una attiva rivelazione di forze nuove; io credo che l'America abbia estremo bisogno della sua gioventù. Ecco perché vi parlo. Ecco perché mi interessa straordinariamente la direzione morale del vostro spirito. L'energia della vostra parola e del vostro esempio può giungere fino a incorporare le forze vive del passato nell'opera del futuro. Penso con Michelet che il vero concetto dell'educazione non comprende solo la cultura dello spirito dei figli da parte dell'esperienza dei genitori, ma anche, e con frequenza molto maggiore, quella dello spirito dei genitori da parte dell'ispirazione innovatrice dei figli.

Parliamo, dunque, di come tenete contò della vita che vi aspetta.




- II -

La differenza delle vocazioni personali imprimerà diverse direzioni alla vostra attività e farà predominare una disposizione, un'attitudine speciflca, nello spirito di ciascuno di voi. Alcuni di voi saranno uomini di scienza, altri saranno uomini d'arte, altri saranno uomini d'azione. Ma al di sopra degli affetti che dovranno obbligarvi individualmente a diversi impegni e a diversi modi di vita, deve vegliare, nell'intimo dell'anima, la coscienza dell'unità fondamentale della nostra natura che esige che l'individuo umano sia prima di tutto e sopra ogni altra cosa un esemplare non mutilato dell'umanità, in cui nessuna nobile facoltà dello spirito resti cancellata e nessun altro interesse collettivo perda la sua virtù comunicativa. Prima dei mutamenti di professione e di cultura c'è l'adempimento del destino comune degli esseri razionali. «C'è una professione universale che è quella di uomo», ha detto mirabilmente Guyau. E Renan, ricordando a proposito delle civiltà squilibrate e parziali che il fine della creatura umana non può essere esclusivamente il sapere né il sentire né l'immaginare ma l'essere in realtà e per intero umana, definisce l'ideale di perfezione verso cui deve indirizzare le sue energie come la capacita di offrire in un tipo individuale un quadro sintetico della specie.

Aspirate dunque a sviluppare per quanto possibile non un aspetto ma la pienezza del vostro essere. Non alzate le spalle dinanzi ad alcuna nobile e feconda manifestazione della natura umana con il pretesto che la vostra struttura individuale vi lega di preferenza a manifestazioni dissimili. Siate spettatori attenti dove non potete essere attori. Quando un falsissimo e volgarizzato concetto dell'educazione11, concepita come subordinata esclusivamente al fine utilitario, si impegna a mutilare, attraverso questo utilitarismo e una specializzazione prematura, l'integrità naturale degli spiriti e anela a sopprimere dall'insegnamento ogni elemento disinteressato e ideale, non si cura più a sufficienza del pericolo di preparare per il futuro spiriti angusti che, incapaci di considerare solo l'aspetto della realtà con cui sono in immediato contatto, vivranno separati in gelidi deserti dagli spiriti che, all'intemo della stessa società, abbiano aderito ad altre manifestazioni della vita.

La necessità della consacrazione particolare di ciascuno di noi a un'attività determinata, a uno specifico modo di cultura, non eselude certo la tendenza a realizzare con intima armonia di spirito il destino comune degli esseri razionali. Questa attività e questa cultura saranno solo la nota fondamentale dell'armonia. Il celebre verso in cui lo schiavo della scena antica affermò che, essendo uomo, non gli era estraneo nulla di ciò che era umano12, partecipa del grido che per il suo senso inesauribile risuonerà eternamente nella coscienza dell'umanità. La nostra capacità di comprendere deve avere come unico limite l'impossibilità di comprendere gli spiriti angusti. Essere incapaci di vedere della Natura più di una faccia, e più di una delle idee e degli interessi umani, equivale a vivere awolti in un'ombra di sonno trafitta da un solo raggio di luce. L'intolleranza, l'esclusività che, quando nascono dal tirannico assorbimento di un elevato entusiasmo, dal traboccare di un disinteressato proposito ideale, possono mentare giustificazione e anche simpatia, diventano la più esacrabile inferiorità quando nel circolo della vita volgare manifestano il limite di un cervello che non è in grado di riflettere se non una parziale apparenza delle cose.

Sfortunatamente, nelle epoche e nelle civiltà che hanno raggiunto una compiuta e raffinata cultura, il pericolo di questa limitazione degli spiriti ha un'importanza più concreta e conduce a risultati più temibili. Infatti, la legge dell'evoluzione, manifestandosi nella società come nella Natura attraverso una crescente tendenza alla eterogeneità, vuole che, nell'avanzare della cultura generale delle società, sia limitata congiuntamente l'estensione delle attitudini individuali e si debba circoscrivere il campo d'azione di ciascuno a una specialità più ristretta. Senza escludere di formare una condizione necessaria di progresso, questo sviluppo dello spirito di specializzazione porta con sé vistosi svantaggi che non si limitano a restringere l'orizzonte di ogni intelligenza, alterando necessariamente il suo concetto del mondo, ma toccano e pregiudicano, per via della dispersione delle affezioni e delle abitudini individuali, il sentimento della solidarietà. Augusto Comte ha segnalato bene questo pericolo delle civiltà avanzate. Per lui un alto stato di perfezione sociale ha un grave inconveniente nella facilità con cui suscita l'apparizione di spiriti deformati e angusti, di spiriti «molto capaci sotto un solo aspetto e mostruosamente inetti sotto tutti gli altri». Il restringersi di un cervello umano per il commercio continuo di un solo genere di idee, per l'esercizio indefinito di un solo tipo di attività, è per Comte un risultato paragonabile alla misera sorte dell'operaio che è costretto dalla divisione del lavoro di fabbrica a consumare nell'invariabile operazione di un dettaglio meccanico tutte le energie della sua vita. Nell'uno e nell'altro caso, l'effetto morale è di ispirare una rovinosa indifferenza per l'aspetto generale degli interessi dell'umanità. E sebbene questa specie di automatismo umano -soggiunge il pensatore positivista- non costituisca fortunatamente se non l'estrema influenza disorganica del principio di specializzazione, la sua realtà ormai assai frequente esige che si attribuisca alla sua valutazione un'autentica importanza13.

Non meno che alla solidità, questa influenza disorganica è dannosa all'estetica della struttura sociale. La bellezza incomparabile di Atene14, l'imperituro modello concesso dalle sue mani di dea all'ammirazione e al fascino dell'umanità nascono dal fatto che quella città di prodigi ha fondato la sua concezione della vita sull'accordo di tutte le facoltà umane, sulla libera e armonica espansione di tutte le energie capaci di contribuire alla gloria e al potere degli uomini. Atene seppe ampliare allo stesso tempo il sentimento dell'ideale e del reale, la ragione e l'istinto, le forze dello spirito e del corpo. Scolpì le quattro facce dell'anima. Ogni ateniese libero descrive attorno a sé, per contenere la sua azione, un cerchio perfetto, in cui nessun impulso disordinato spezzerà la leggiadra proporzione della linea. È atleta e scultura vivente nel ginnasio, cittadino nella Pnix, polemista e pensatore nei portici. Esercita la volontà in ogni sorta di azione virile e il pensiero in ogni cura feconda. Per questo Macaulay15 afferma che un giorno della vita pubblica dell'Attica è un programma di insegnamento più brillante di quelli che oggi formuliamo per i nostri moderni centri d'istruzione. E da quella libera e unica fioritura della pienezza della nostra essenza sorse il miracolo greco: una inimitabile e incantevole mescolanza di vivacità e di serenità, una primavera dello spirito umano, un sorriso della storia.

Nei tempi nostri, la crescente complessità della civiltà priverebbe di ogni serietà il pensiero di restaurare quell'armonia, possibile solamente tra gli elementi di una bella semplicità. Ma all'interno della stessa complessità della nostra cultura, della differenziazione progressiva di caratteri, attitudini, meriti, che è l'inevitabile conseguenza del progresso nello sviluppo sociale, è necessario salvare una ragionevole partecipazione di tutti a idee e sentimenti fondamentali che mantengano l'unità e l'armonia della vita, a certi interessi dell'anima, dinanzi ai quali la dignità dell'essere razionale non consente l'indifferenza di nessuno di noi.

Quando il sentimento dell'utilità materiale e del benessere domina nel carattere delle società umane con la forza che ha nel presente, i risultati dello spirito angusto e della cultura unilaterale sono particolarmente funesti alla diffusione di quelle preoccupazioni puramente ideali che, essendo oggetto d'amore per coloro che consacrano le energie più nobili e instancabili della loro vita, diventano una remota e forse insospettata regione per un'immensa parte di altri. Ogni genere di meditazione disinteressata, di contemplazione ideale, di tregua intima, nella quale gli affanni quotidiani per l'utilità cedono temporaneamente il loro dominio a uno sguardo nobile e sereno intento alie cose dall'alto della ragione, rimane ignorato nello stato attuale delle società umane per milioni di anime civilizzate e coltivate che l'influenza dell'educazione o della consuetudine riduce all'automatismo di una attività in definitiva materiale. Ebbene: questa specie di servitù deve essere considerata la più triste e disonorevole di tutte le condanne morali. Io vi prego di difendervi, nella milizia della vita, contro la mutilazione del vostro spirito da parte della tirannia di un obiettivo unico e interessato. Non consegnate mai all'utilità o alla passione se non una parte di voi. Anche nella schiavitù materiale c'è la possibilità di salvare la liberta interiore: quella della ragione e del sentimento. Non cercate di giustificare assorbendo nel lavoro o nel combattimento la schiavitù del vostro spirito.

Trovo il simbolo di ciò che deve essere la nostra anima in un racconto che rievoco da un impolverato angolo della mia memoria. Cera un re patriarcale nell'Oriente indeterminato e ingenuo dove piace fare il nido all'allegro stormo dei racconti. Il suo regno viveva la candida infanzia delle tende di Ismaele e dei palazzi di Pilo. La tradizione lo chiamò poi, nella memoria degli uomini, il re ospitale. Immensa era la pietà del re. A dissolversi in essa tendeva, quasi per il suo stesso peso, ogni sventura. Alla sua ospitalità ricorrevano sia il miserabile per il bianco pane, sia l'anima desolata per il balsamo della parola che accarezza. Il suo cuore rifletteva, come una sensibile lamina sonora, il ritmo degli altri. Il suo palazzo era la casa del popolo. Tutto era libertà e fervore all'interno di questo augusto recinto il cui ingresso non fu mai vietato dalle guardie. Sotto i portici aperti formavano crocchio i pastori quando consacravano a rustici concerti i loro ozî; sul cadere della sera conversavano gli anziani; e freschi gruppi di donne disponevano, sopra giunchi intrecciati, i fiori e i grappoli di cui era composta unicamente la decima reale. Mercanti di Ofir, chincaglieri di Damasco, attraversavano a tutte le ore le spaziose porte, e ostentavano in concorrenza, davanti agli sguardi del re, le stoffe, i gioielli, i profumi. Vicino al trono riposavano i pellegrini abbagliati. Gli uccelli si davano appuntamento a mezzogiorno per raccogliere le briciole dalla sua tavola; e all'alba i bambini arrivavano in bande chiassose ai piedi del letto in cui dormiva il re dalla barba d'argento e gli annunciavano la presenza del sole. Sia gli esseri senza fortuna, sia le cose senz'anima raggiungevano la sua infinita liberalità. Anche la Natura sentiva l'attrazione del richiamo generoso; venti, uccelli e piante sembravano cercare -come nel mito di Orfeo e nella leggenda di San Francesco d'Assisi- l'amicizia umana in quell'oasi di ospitalità. Dal seme caduto per caso germogliavano e fiorivano, nelle commessure dei pavimenti e dei muri, le violacciocche delle rovine, senza che una mano crudele le strappasse o le calpestasse un piede maligno. Attraverso le aperte finestre si stendevano all'interno delle stanze del re rampicanti audaci e curiosi. I venti affaticati abbandonavano a lungo sulla fortezza reale il loro carico di aromi e di armonie. Sollevandosi dal vicino mare, come volessero cingerla in un abbraccio, le onde la spruzzavano con la loro schiuma. E una libertà paradisiaca, una illimitata reciprocità di confidenze mantenevano dovunque l'animazione di una festa inestinguibile...

Ma all'interno, molto all'interno, isolata dalla fortezza rumorosa con canali coperti, nascosta allo sguardo volgare -come la «chiesa perduta» di Uhland16 nella remota solitudine del bosco- al termine di sconosciuti sentieri, si estendeva una misteriosa sala in cui a nessuno era consentito mettere piede tranne che al re, la cui ospitalità si trasformava, varcate le soglie, nell'apparenza di un ascetico egoismo. Spessi muri la circondavano. Né una eco del brusio esterno, né una nota sfuggita al concerto della Natura, né una parola uscita da labbra di uomini, riuscivano a trapassare lo spessore dei blocchi di porfido e sommuovere un'onda dell'aria nella stanza proibita. Un religioso silenzio velava la castità dell'aria addormentata. La luce, che le vetrate smaltate filtravano, giungeva languida, con il passo scandito da una invariabile regolarità. È si diluiva, come fiocco di neve che invade un nido tiepido, nella calma di un ambiente celeste. Mai ha regnato una così profonda pace, né in grotta oceanica, né in solitudine boschiva. Talvolta -quando la notte era diafana e tranquilla- aprendosi, al modo di due valve di madreperla il soffitto a cassettoni lasciava scorgere in suo luogo la magnificenza delle ombre serene. Nell'ambiente fluttuava come un'onda che non si dissipa la casta essenza del nenùfaro, il profumo suggestivo dell'assopirsi pensoso e della contemplazione del proprio essere. Gravi cariatidi custodivano le porte di avorio nell'atteggiamento del silenziario. Sulle testiere, immagini scolpite parlavano di idealità, di raccoglimento, di riposo... E il vecchio re assicurava che, anche quando a nessuno fosse concesso di accompagnarlo fin lì, la sua ospitalità continuava a essere nella misteriosa roccaforte cosi generosa e grande come sempre, solo che quelli che egli riuniva all'interno delle sue mura discrete erano invitati impalpabili e ospiti evanescenti. Lì sognava, lì si liberava della realtà il re leggendario; lì i suoi sguardi si volgevano all'interno e brillavano nella meditazione i suoi pensieri come i ciottoli lavati dalla spuma; lì si dispiegavano sulla sua nobile fronte le bianche ali di Psiche... E poi, quando la morte venne a ricordargli che non era stato altro se non un ospite in più nel suo palazzo, l'impenetrabile stanza rimase chiusa e muta per sempre; per sempre inabissata nel riposo infinito; nessuno mai la profano, perché nessuno avrebbe osato posare il piede irriverente là dove il vecchio re aveva voluto restare solo con i suoi sogni e isolato nell'ultima Thule della sua anima17.

Do al racconto lo scenario del vostro regno interiore. Aperto con salutare liberalità, come la casa del monarca fiducioso, a tutte le correnti del mondo, esista in esso insieme la celia nascosta e misteriosa sconosciuta agli ospiti profani e non appartenga che alla ragione serena. Solo quando penetrerete nell'inviolabile roccaforte potrete chiamarvi, in realtà, uomini liberi. Non lo sono coloro che, alienando insensatamente il dominio di sé a favore della disordinata passione o dell'interesse utilitario, dimenticano che, secondo il saggio precetto di Montaigne, il nostro spirito può essere oggetto di prestito, non di cessione. Pensare, sognare, ammirare: ecco i nomi degli evanescenti visitatori della mia cella. Gli antichi li classificavano nell'ambito della loro nobile interpretazione dell'ozio, che ritenevano il massimo impiego di una esistenza autenticamente razionale e lo identificavano con la libertà del pensiero emancipato da ogni ignobile giogo. L'ozio nobile era l'investimento del tempo che opponevano, quale espressione della vita superiore, all'attività economica. Vincolata esclusivamente a questa alta e aristocratica idea del riposo la concezione della dignità della vita, lo spirito classico trova la sua correzione e il suo complemento nella nostra moderna credenza nella dignità del lavoro utile; entrambe le attenzioni dell'anima possono comporre, nell'esistenza individuale, un ritmo sul cui necessario mantenimento non sarà mai inopportuno insistere. La scuola stoica, che illuminò il tramonto dell'antichità come con un anticipato bagliore del cristianesimo, ci ha trasmesso una semplice e commovente immagine della salvezza della libertà interiore, anche in mezzo ai rigori della schiavitù, nella bella figura di Cleante18; di quel Cleante che, obbligato a impiegare la forza delle sue braccia d'atleta per immergere il secchio in una fonte e muovere la pietra di un mulino, concedeva alla meditazione le pause dell'attività miserabile e tracciava, con mano incallita, sulle pietre della strada, le massime udite dalle labbra di Zenone. Ogni educazione razionale, ogni perfetta elaborazione della nostra natura prenderanno come punto di partenza la possibilità di stimolare in ciascuno di noi la duplice attività che Cleante simboleggia.

Ancora una volta: il principio fondamentale del vostro sviluppo, il vostro lemma nella vita, devono consistere nel mantenere l'integrità della vostra condizione umana. Nessuna funzione particolare mai deve prevalere su questa finalità suprema. Nessuna forza isolata può soddisfare gli scopi razionali dell'esistenza individuale, come non può produrre l'ordinata armonia dell'esistenza collettiva. Come la deformità e la riduzione sono, nell'anima degli individui, il risultato di un oggetto esclusivo imposto all'azione e di un unico modo di cultura, la falsità di ciò che è artificiale fa diventare effimera la gloria delle società che hanno sacrificato il libero sviluppo della loro sensibilità e del loro pensiero, ora all'attività mercantile come in Fenicia, ora alla guerra come a Sparta, ora al misticismo come nel terrore del millennio, ora alla vita di società e di salotto come nella Francia del XVIII secolo. E preservandovi contro ogni mutilazione della vostra natura morale, aspirando all'espansione armoniosa del vostro essere in ogni nobile senso, pensate a un tempo che la più facile e frequente delle mutilazioni nel carattere attuale delle società umane è quella che obbliga l'anima a privarsi di questo genere di vita interiore, in cui hanno il proprio luogo tutte le cose delicate e nobili che, alle intemperie della realtà, il soffio della passione impura brucia e l'interesse utilitario proscrive: la vita di cui fanno parte la meditazione disinteressata, la contemplazione ideale, l'ozio antico, l'impenetrabile stanza del mio racconto!




- III -

Come il primo impulso della profanazione sarà dirigersi verso la parte più sacra del santuario, la regressione che involgarisce contro la quale vi metto in guardia comincerà con il sacrificare la parte più delicata dello spirito. Di tutti gli elementi superiori dell'esistenza razionale, quello che più facilmente è consunto dall'aridità della vita, limitata alla invariabile descrizione della cerchia volgare, è il sentimento del bello, la chiara visione della bellezza delle cose trasformata nell'attribuzione di una minoranza che, all'interno di ogni società umana, la custodisce come il deposito di una preziosa rinuncia. L'emozione della bellezza è per il sentimento delle idealità come lo smalto dell'anello. L'effetto del contatto brutale inizia fatalmente con essa, è su di essa che opera in modo più sicuro. Un'assoluta indifferenza finisce per essere il carattere normale rispetto a ciò che dovrebbe essere universale amore delle anime. Non è più intenso lo stupore dell'uomo selvaggio, in presenza degli strumenti e delle forme materiali della civiltà, di quello che esperimenta un numero relativamente grande di uomini colti, dinanzi agli atti in cui si rivelino il proposito e l'abitudine a concedere una seria realtà alla bella relazione con la vita.

L'argomento dell'apostolo traditore dinanzi alla coppa di nardo rovesciata inutilmente sopra la testa del Maestro è, ancora, una delle formule del senso comune19. La superfluità dell'arte non vale, per la massa anonima, i trecento denari. Se forse la rispetta, è come verso un culto esoterico. E pure, fra gli elementi di educazione umana che possono contribuire a formare un ampio e nobile concetto della vita, nessuno giustificherebbe più dell'arte un interesse universale, perché nessuno contiene -secondo la tesi sviluppata in eloquenti pagine da Schiller- la virtualità di una cultura più estesa e completa nel senso di prestarsi a un armonico stimolo di tutte le facoltà dell'anima.

Anche se l'amore e l'ammirazione della bellezza non rispondessero a una nobile spontaneità dell'essere razionale e non avessero sufficiente valore a essere coltivati per se stessi, sarebbe un motivo superiore di moralità ad autorizzare di proporre la cultura dei sentimenti estetici come un alto interesse per tutti. Se a nessuno è concesso di rinunciare all'educazione del sentimento morale, questo dovere ha implicito il dovere di disporre l'anima a una chiara visione della bellezza. Considerate l'educato senso del bello come il collaboratore più efficace nella formazione di un delicato istinto di giustizia. La dignificazione, la nobilitazione interiore non avranno mai artefice più adeguato. Mai la creatura umana aderirà nel modo più sicuro al compimento del dovere se non quando, oltre a sentirlo come un'imposizione, lo senta esteticamente come un'armonia. Mai sarà più compiutamente buona se non quando saprà rispettare, in forme in cui si manifesti attivamente la sua virtù, il sentimento del bello negli altri.

È certo che la santità del bene purifica ed esalta tutte le apparenze superficiali. Essa può indubbiamente realizzare la sua opera senza darle il prestigio esteriore della bellezza. L'amore di carita può arrivare alla sublimità con modi grezzi, sgradevoli e volgari. Ma non è solo più bella, bensi più grande, la carità che anela a trasmettersi nelle forme del delicato e dell'eletto perché aggiunge ai suoi doni un beneficio in più, una dolce e ineffabile carezza che non è sostituita da nulla, ed esalta il bene che si concede come un tocco di luce.

Far sentire il bello è un'opera di misericordia. Coloro che esigerebbero che il bene e la verità si manifestassero invariabilmente in forme austere e severe mi sono sempre apparsi amici traditori del bene e della verità. La virtù è anche un genere di arte, un'arte divina che sorride maternamente alle Grazie. L'insegnamento che si proponga di fissare negli spiriti l'idea del dovere come la più seria realtà deve tendere a farla concepire insieme come la più alta poesia. Guyau, che è il sovrano delle belle comparazioni, si avvale di una di esse, insostituibile, per esprimere questo duplice oggetto della cultura morale. Il pensatore ricorda gli schienali scolpiti del coro di una chiesa gotica, in cui il legno intarsiato sotto l'ispirazione della fede presenta su di un lato scene della vita di un santo, e sull'altro lato ornamentali cerchi di fiori. In questo modo, a ogni gesto del santo significativo della sua pietà o del suo martirio, a ogni tratto della sua fisionomia o del suo atteggiamento, corrisponde sul lato opposto una corolla o un petalo. Per accompagnare la rappresentazione simbolica del bene compaiono ora un giglio, ora una rosa. Guyau pensa che in maniera non diversa deve essere scolpita la nostra anima; e lui stesso, il dolce maestro, non è forse per la bellezza evangelica del suo genio di apostolo un esempio di questa viva armonia?

Credo sia indubbio che colui che ha appreso a distinguere dalla delicatezza la volgarità, il brutto dal bello, abbia già percorso metà del cammino per distinguere il male dal bene. Non è di sicuro il buon gusto, come vorrebbe un certo superficiale dilettantismo morale, l'unico criterio per apprezzare la legittimità delle azioni umane; ma ancor meno si deve considerarlo, con il criterio di un angusto ascetismo, una tentazione dell'errore e una sirte ingannevole. Noi non lo indicheremo come il sentiero stesso del bene, ma come una strada parallela e vicina che mantiene molto prossimo il passo e lo sguardo del viaggiatore. A misura che l'umanità avanza, si concepirà più chiaramente la legge morale come un'estetica della condotta. Si fuggirà dal male e dall'errore come da una dissonanza; si cercherà il bene come il piacere di un'armonia. Quando la severità stoica di Kant detta, simbolizzando lo spirito della sua etica, le austere parole: «Dormivo, e sognai che la vita era bellezza, mi svegliai, e mi resi contò che essa è dovere», ignora che, se il dovere è la realtà suprema, in essa può trovare realtà l'oggetto del suo sogno, perché la coscienza del dovere gli darà con la visione chiara del bene il compiacimento del bello.

All'anima del redentore, del missionario, del filantropo si deve esigere anche comprensione della bellezza, la necessità che collaborino certi elementi del genio dell'artista. È immensa la parte che corrisponde al dono di scoprire e rivelare l'intima bellezza delle idee nell'efficacia delle grandi rivoluzioni morali. Parlando della più alta di tutte, Renan ha potuto dire con profondità che «la poesia del precetto, che lo fa amare, significa più del precetto stesso preso come verità astratta». L'originalità dell'opera di Gesù non sta in realtà nell'accezione letterale della sua dottrina -dal momento che essa può essere ricostruita tutta intera senza uscire dalla morale della Sinagoga, cercandola dal Deuteronomio fino al Talmud-, ma nell'aver reso sensibile, con la sua predica, la poesia del precetto, ossia la sua bellezza intima.

Sarà paluda gloria quella delle epoche e delle comunità che disdegnino la dimensione estetica della loro vita o della loro propaganda. L'ascetismo cristiano, che seppe affrontare una sola faccia dell'ideale, escluse dal suo concetto della perfezione tutto ciò che rende la vita amabile, delicata e bella; e il suo spirito angusto servì perché l'istinto indomabile della libertà, ritornando a una di queste impetuose reazioni dello spirito umano, generasse nell'Italia del Rinascimento un tipo di civiltà che considerò vanità il bene morale e credette solo nella virtù dell'apparenza forte e piacevole. Il puritanesimo che perseguì ogni forma di bellezza e di selezione intellettuale coprì indignato la casta nudità delle statue; professò l'affettazione della bruttezza nelle maniere, nell'abito, nei discorsi; la setta triste, che imponendo dal Parlamento inglese il suo spirito ordinò di estinguere le feste che manifestassero gioia e di abbattere gli alberi che dessero fiori, stese vicino alla virtù, divorziandola dal bello, un'ombra di morte che l'Inghilterra ancora non ha scongiurato rateramente e perdura nelle meno amabili manifestazioni della sua religiosità e dei suoi costumi. Macaulay dichiara di preferire la grossolana «cassa di piombo» in cui i puritani conservarono il tesoro della libertà al ricercato scrigno scolpito in cui la corte di Carlo II accumulò le sue raffinatezze20. Ma poiché né la libertà né la virtù hanno bisogno di essere conservate in casse di piombo, varranno per l'educazione dell'umanità, sempre molto di più di tutte le severità di asceti e di puritani, la grazia dell'ideale antico, la morale armoniosa di Platone, il movimento raffinato ed elegante con cui la mano di Atena prese, per portarla alle labbra, la coppa della vita.

La perfezione della moralità umana consisterebbe nell'infiltrare lo spirito della carità nelle forme dell'eleganza greca. E questa soave armonia ha avuto nel mondo una passeggera realizzazione. Quando la parola del cristianesimo nascente arrivava con San Paolo in seno alle colonie greche della Macedonia, a Tessalonica e a Filippi, e il Vangelo, ancora puro, si diffondeva nell'anima di quelle società sensibili e spirituali, in cui il sigillo della cultura ellenica manteneva un'incantevole spontaneità di distinzione, si poté credere che i due ideali più alti della storia fossero sul punto di congiungersi per sempre. Nello stile epistolare di San Paolo rimane la traccia di quel momento in cui la carità si ellenizza. Questo dolce consorzio durò poco. L'armonia e la serenità della concezione pagana della vita si allontanarono sempre più dall'idea nuova che procedeva aflora alla conquista del mondo. Ma per concepire il modo in cui si potrebbe indicare un passo avanti rispetto al perfezionamento morale dell'umanità, sarebbe necessario sognare che l'ideale cristiano si riconcilii di nuovo con la serena e luminosa gioia dell'antichità, immaginare che il Vangelo si propaghi un'altra volta a Tessalonica e a Filippi.

Coltivare il buon gusto non significa solo perfezionare una forma esteriore della cultura, sviluppare un'attitudine artistica, curare con una squisitezza superflua un'eleganza della civiltà. Il buon gusto è «una briglia salda del criterio». Martha21 ha potuto attribuirgli esattamente il significate di una seconda coscienza che ci orienta e ci restituisce alla luce mentre la prima si oscura e vacilla. Il senso delicato della bellezza è, per Bagehot22, un alleato del tatto sicuro della vita e della dignità dei costumi. «L'educazione al buon gusto-aggiunge il saggio pensatore- tende a favorire l'esercizio del buon senso che è il nostro principale punto d'appoggio nella complessità della vita civilizzata» . Se alcune volte vedete questa educazione congiunta, nello spirito degli individui e delle società, allo smarrimento del sentimento o della moralità, è perché in tali casi è stata coltivata come forza isolata ed esclusiva, rendendo impossibile in questo modo l'effetto di perfezionamento morale che può esercitare all'interno di un ordine di cultura in cui nessuna facoltà dello spirito sia sviluppata prescindendo dalla relazione con le altre. Nell'anima che sia stata oggetto di uno stimolo armonico e perfetto, la grazia intima e la delicatezza del sentimento del bello saranno una cosa stessa con la forza e la rettitudine della ragione. Non diversamente Taine osserva che nelle grandi opere dell'architettura antica la bellezza è una manifestazione sensibile della solidità, l'eleganza si identifica con l'apparenza della forza: «Le stesse linee del l'artenone che lusingano lo sguardo con proporzioni armoniose soddisfano l'intelligenza con promesse di eternità».

C'è una relazione organica, una naturale e stretta simpatia che vincola le sovversioni del sentimento e della volontà alle falsità e alle violenze del cattivo gusto. Se ci fosse concesso di penetrare nel misterioso laboratorio delle anime e si ricostruisse la storia intima di quelle del passato per trovare la formula dei loro definitivi caratteri morali, sarebbe un interessante oggetto di studio determinare la parte che corrisponde, tra i fattori della raffinata perversità di Nerone, al germe dell'istrionismo mostruoso che la retorica artefatta di Seneca ha depositato nell'anima di quel comico sanguinario. Quando si evoca l'oratoria della Convenzione e si vede apparire da ogni parte come la pelle felina del giacobinismo l'abitudine di una abominevole perversione retorica, è impossibile fare a meno di mettere in relazione, come i raggi che partono da uno stesso centro e le manifestazioni di una medesima demenza, lo smarrimento del gusto, la vertigine del senso morale e la limitazione fanatica della ragione.

Indubbiamente, tra i risultati dell'estetica il più sicuro è quello che ci insegna a distinguere, nella sfera della relatività, il bene e il vero dal bello, e accettare la possibilità di una bellezza del male e dell'errore. Ma non c'è bisogno di ignorare questa verità, definitivamente vera, per credere nella concatenazione simpatica di tutti gli alti scopi dell'anima e considerare ciascuno di essi come il punto di partenza non unico ma più sicuro, da cui sia possibile volgersi all'incontro con gli altri.

L'idea di un superiore accordo tra il buon gusto e il senso morale è quindi esatta, nello spirito degli individui e nello spirito delle società. Per quanto riguarda queste ultime, la relazione potrebbe avere il suo simbolo in quella che Rosenkranz23 afferma esistere da una parte tra la libertà e l'ordine morale, e dall'altra la bellezza delle forme umane come un risultato dell'evoluzione della razza umana nel tempo. Questa bellezza tipica riflette, per il pensatore hegeliano, l'effetto nobilitante della libertà; la schiavitù imbruttisce allo stesso tempo che svilisce; la coscienza del loro armonioso sviluppo imprime alle razze umane il sigillo esterno della bellezza.

Nel carattere dei popoli i doni derivati da un gusto fine, il dominio delle forme aggraziate, la delicata attitudine a interessare, la virtù a rendere amabili le idee si identificano inoltre con il «genio della propaganda», ossia con il potente dono dell'universalità. È risaputo che in gran parte al possesso di quegli attributi eletti debba essere riferito il significato umano che lo spirito francese riesce a comunicare a quanto sceglie e consacra. Le idee acquistano ali potenti e veloci non nel gelido seno dell'astrazione, ma nel luminoso e caldo ambiente della forma. La loro superiorità di diffusione, la loro prevalenza dipendono a volte dal fatto che le Grazie le abbiano bagnate con la loro luce. Così, nelle evoluzioni della vita queste incantatrici sembianze della natura che sembrano rappresentare soltanto il dono di una capricciosa superfluità, la musica, il colorito piumaggio degli uccelli, e come richiamo per l'insetto propagatore del polline fecondo, la sfumatura dei fiori, il loro profumo, hanno adempiuto tra gli elementi della concorrenza vitale a una funzione realissima; dal momento che significando una superiorità di motivi, una ragione di preferenza per le attrazioni dell'amore hanno fatto prevalere nell'ambito di ogni specie gli esseri meglio dotati di bellezza su quelli qualitativamente meno dotati.

Per uno spirito in cui esista l'amore istintivo del bello, esiste senza dubbio un certo tipo di mortificazione nel rassegnarsi a difenderlo con una serie di argomenti che si fondano su un'altra ragione, su un altro principio rispetto allo stesso irresponsabile e disinteressato amore della bellezza, in cui trova soddisfazione uno degli impulsi fondamentali dell'esistenza razionale. Sfortunatamente, questo motivo superiore perde il suo dominio su un immenso numero di uomini, a cui è necessario insegnare il rispetto dovuto a questo amore di cui non partecipano, rivelando loro i rapporti che lo vincolano ad altri generi di interessi umani. Per questo si dovrà lottare molto spesso con il concetto volgare di tali rapporti. Di fatto tutto ciò che tenda a mitigare i contorni del carattere sociale e dei costumi, acuire il senso della bellezza, fare del gusto una delicata sensibilità dello spirito, e della grazia una forma universale delle attività, equivale per il criterio di molti devoti della severità e della utilità a svalutare l'indole virile ed eroica delle società da una parte e la loro capacità utilitaria e positiva dall'altra. Ho letto ne I lavoratori del mare24 che quando una nave a vapore solcò per la prima volta le onde del canale della Manica i contadini del Jersey la condannavano in nome di una tradizione popolare che considerava elementi inconciliabili, fatalmente destinati alla discordia, l'acqua e il fuoco. Il criterio comune abbonda nella credenza di simili inimicizie. Se vi proponete di diffondere il rispetto per il bello, iniziate con il far comprendere la possibilità di un armonico concerto fra tutte le legittime attività umane, sarà più facile compito che tramutare direttamente l'amore della bellezza per se stessa in attributo della moltitudine.

Perché la maggioranza degli uomini non si senta inclinata a espellere le rondini dalla casa25 seguendo il consiglio di Pitagora, è necessario convincerla non con la grazia monastica dell'uccello, né con la sua leggenda di virtù, ma con il fatto che la permanenza dei nidi non è in alcun modo inconciliabile con la sicurezza dei tetti.




- IV -

Alla concezione della vita razionale che si fonda sul libero e armonioso evolversi della nostra natura, e include perciò tra i suoi fini essenziali quello che si soddisfa con la sentita contemplazione del bello, si oppone -come norma della condotta umana- la concezione utilitaria per cui la nostra attività, tutta intera, si orienta verso l'immediata finalità dell'interesse.

L'accusa di utilitarismo ottuso, che si suole rivolgere allo spirito del nostro secolo in nome dell'ideale e con rigori di anatema, si fonda in parte sull'ignoranza del fatto che i suoi titanici sforzi per la subordinazione delle forze della natura alla volontà umana e l'estensione del benessere materiale sono un lavoro necessario che preparerà, come il laborioso arricchimento di una terra esausta, la fioritura di idealismi futuri. La transitoria predominanza della funzione di utilità, che ha assorbito dalla vita agitata e febbrile di questi cento anni le sue più potenti energie, spiega tuttavia -senza giustificarle- molte nostalgie dolorose, insoddisfazioni e insulti all'intelligenza, che si traducono sia nella melanconica ed esaltata idealizzazione del passato, sia nella disperazione crudele sull'avvenire. C'è dunque un fecondissimo, fortunato pensiero nel proposito di un certo gruppo di pensatori delle ultime generazioni -tra i quali voglio soltanto citare ancora una volta la nobile figura di Guyau- che hanno tentato di suggellare la riconciliazione definitiva delle conquiste del secolo con il rinnovamento di molte vecchie devozioni umane e hanno investito in quest'opera benedetta molti tesori e d'amore e di genio.

Con frequenza avrete sentito attribuire a due cause fondamentali lo straripare dello spirito di utilità che connota la fisionomia morale del presente secolo, a danno della considerazione estetica e disinteressata della vita. Le rivelazioni della scienza della natura -che secondo interpreti, contrari o favorevoli, convergono a distruggere ogni idealità al suo fundamento- sono l'una; l'universale diffusione e il trionfo delle idee democratiche sono l'altra. Mi propongo di parlarvi esclusivamente di quest'ultima causa, perché confido nel fatto che la vostra prima iniziazione alle rivelazioni della scienza sia stata orientata a preservarvi dal pericolo di una interpretazione volgare. Sulla democrazia grava l'accusa di guidare l'umanità, rendendola mediocre, verso un Sacro Impero dell'utilitarismo. L'accusa si riflette con vibrante intensità nelle pagine -per me sempre piene di suggestivo incanto- del più gentile tra i maestri dello spirito moderno, nelle seducenti pagine di Renan, alla cui autorità mi avete già sentito varie volte riferirmi e di cui penso di tornare a parlarvi spesso. Leggano Renan quelli di voi che ancora non lo conoscono, e dovranno amarlo come me. Nessuno come lui mi sembra tra i moderni padrone di quell'arte di «insegnare con grazia» che Anatole France considera divina. Nessuno è riuscito come lui ad affratellare la pietà con l'ironia. Anche nel rigore dell'analisi, sa posare l'unzione del sacerdote. Anche quando insegna a dubitare, la sua squisita dolcezza distende un'onda balsamica sul dubbio. I suoi pensieri sono soliti dilatarsi nella nostra anima in echi tanto ineffabili e vaghi da far pensare a una religiosa musica di idee. Per la sua infinita intellegibilità ideale, le classificazioni della critica hanno l'abitudine di personificare in lui l'allegro scetticismo dei dilettanti che trasformano in costume carnevalesco il mantello del filosofo; ma se qualche volta vi addentrerete nell'intimità del suo spirito, vedrete che la tolleranza volgare degli scettici si distingue dalla sua tolleranza come l'ospitalità galante di un salotto dal vero sentimento della carita.

Pensa dunque il maestro che un'alta preoccupazione per gli interessi ideali della specie è del tutto opposta allo spirito della democrazia. Pensa che la concezione della vita, in una società dove domini questo spirito, si adatterà progressivamente al perseguimento esclusivo del benessere materiale come beneficio propagabile al maggior numero di persone. Serondo lui, essendo la democrazia l'intronizzazione di Calibano, Ariel non può che essere il vinto di quel trionfo. Affermazioni simili a queste di Renan abbondano nella parola di molti dei più autorevoli rappresentanti che gli interessi della cultura estetica e la selezione dello spirito hanno nel pensiero contemporaneo. Così, Bourget propende a credere che il trionfo universale delle istituzioni democratiche farà perdere alla civiltà in profondità ciò che le fa guadagnare in esterisione. Scorge il suo forzato limite nel dominio di un individualismo mediocre. «Chi dice democrazia -aggiunge il sagace autore di André Cornélis26- dice evoluzione progressiva delle tendenze individuali e diminuzione della cultura». Nella questione che impostarlo questi giudizi severi, c'è un interesse vivissimo per noi che amiamo per convinzione allo stesso tempo l'opera della Rivoluzione che nella nostra America si collega inoltre con le glorie del suo Genesi, e per istinto la possibilità di una vita spirituale nobile ed eletta che in nessun modo debba vedere sacrificata la sua serenità augusta ai capricci della moltitudine. Per affrontare il problema è necessario iniziare con il riconoscimento che quando la democrazia non esalta il suo spirito attraverso l'influenza di una forte preoccupazione ideale, e condivida il suo dominio con la preoccupazione per gli interessi materiali, conduce fatalmente alla supremazia della mediocrità e manca, più che in qualsiasi altro regime, di efficaci barriere che assicurino dentro un ambiente adeguato l'inviolabilità dell'alta cultura. Abbandonata a se stessa, la democrazia -senza la costante rettifica di un'attiva autorità morale che la depuri e incanali le sue tendenze nel senso della dignificazione della vita- estinguerà gradualmente ogni idea di superiorità non tradotta in una maggiore e più ardita attitudine alle lotte dell'interesse che sono la forma più ignobile delle brutalità della forza. La selezione spirituale, l'esaltazione della vita dovuta alla presenza di stimoli disinteressati, il gusto, l'arte, la soavità dei costumi, il sentimento di ammirazione per il perseverante proposito ideale e di devozione a ogni nobile supremazia, saranno debolezze indifese là dove l'uguaglianza sociale, che ha distrutto le gerarchie imperative e infondate, non le sostituisca con altre che abbiano nell'influenza morale la loro unica forma di dominio e il loro principio in una classificazione razionale.

L'uguaglianza di condizioni è nell'ordine delle società, come l'omogeneità in quello della Natura, un equilibrio instabile. Dal momento in cui la democrazia avrà realizzato la sua opera di negazione, con la rimozione delle ingiuste superiorità, l'uguaglianza conquistata non può significare che un punto di partenza. Resta l'affermazione. E l'aspetto affermativo della democrazia e della sua gloria consisteranno nel suscitare, con efficaci stimoli, nel suo seno la rivelazione e il dominio delle vere superiorità umane.

In rapporto alle condizioni di vita dell'America, la necessità di precisare il reale concetto del nostro regime sociale acquista un doppio imperativo. La frettolosa crescita delle nostre democrazie per l'incessante aggregazione di un'enorme moltitudine cosmopolita, per l'affluenza immigratoria che si fonde a un nucleo ancora debole per dare luogo a un atuvo lavoro di assimilazione e incanalare il torrente umano con i mezzi che offrono la solidità secolare della struttura sociale -l'ordine politico sicuro e gli elementi di una cultura che si sia intimamente radicata-, ci espone nell'awenire ai pericoli della degenerazione democratica che soffoca sotto la forza cieca del numero la nozione di qualità, fa smarrire nella coscienza delle società il giusto sentimento dell'ordine; e affidando il suo ordinamento gerarchico alla rozzezza del caso conduce forzatamente a far trionfare le supremazie più ingiustificate e ignobili.

È indubbio che il nostro interesse egoistico dovrebbe portarci, in mancanza di virtù, a essere ospitali. Tempo fa la suprema necessità di colmare il vuoto morale del deserto fece dire a un pubblicista illustre che, in America, governare è populare27. Ma questa formula famosa racchiude una verità contro la cui stretta interpretazione è necessario essere prevenuti perché condurrebbe ad attribuire una incondizionata efficacia civilizzatrice al valore quantitativo della folla. Governare è popolare, in primo luogo assimilando, educando e selezionando poi. Se la comparsa e la fioritura nella società delle più elevate attività umane, che determinano l'alta cultura, richiedono come condizione indispensable l'esistenza di una popolazione numerosa e densa, è precisamente perché questa importanza quantitativa della popolazione, mentre da luogo alla più complessa divisione del lavoro, facilita la formazione di forti elementi direttivi che rendano concreto il dominio della qualità rispetto al numero. La moltitudine, la massa anonima, non è nulla per se stessa. La moltitudine sarà uno strumento di barbarie o di civiltà a seconda che sia carente o meno del coefficiente di un'alta direzione morale. Ce una verità profonda nell'intimo del paradosso di Emerson28 che ogni paese del globo sia giudicato secondo la minoranza e non secondo la maggioranza dei suoi abitanti. La civiltà di un popolo acquista il suo carattere non dalle manifestazioni della prosperità o dalla grandezza materiale, ma dalle maniere superiori di pensare e di sentire possibili; e già Comte dimostrava come in questioni di intellettualità, di moralità, di sentimento sarebbe insensato pretendere che la qualità possa essere sostituita sempre dal numero, poiché né dall'accumulo di molti spiriti volgari si otterrà mai l'equivalente di un cervello di genio, né dall'accumulo di molte virtù mediocri l'equivalente di un tratto di abnegazione o di eroismo. La nostra democrazia nell'istituire l'universalità e l'uguaglianza di diritti sancirebbe dunque il predominio ignobile del numero, se non si prendesse cura di mantenere molto elevata la nozione delle legittime superiorità umane e di fare dell'autorità vincolata al voto popolare non l'espressione del sofisma dell'uguaglianza assoluta ma, secondo le parole che ricordo di un giovane pubblicista francese, «la consacrazione della gerarchia che emana dalla libertà».

L'opposizione fra il regime della democrazia e l'alta vita dello spirito è una realtà fatale se quel regime significa il disconoscimento delle disuguaglianze legittime e la sostituzione della fede nell'eroismo -nel senso di Carlyle29- con una concezione meccanica di governo. Tutto ciò che nella civiltà è qualcosa di più che un elemento di superiorità materiale e di prosperità economica costituisce un rilievo che non tarda ad essere rimosso se l'autorità morale appartiene allo spirito della mediocrità. In assenza della barbarie che irrompe e scatena le sue orde sopra i fari luminosi della civiltà, con eroica e a volte rigeneratrice grandezza, l'alta cultura delle società deve premunirsi contro l'opera mite e disgregante di quelle altre orde pacifiche, magari azzimate, le orde inevitabili della volgarità, il cui Attila potrebbe essere personificato in M. Homais, l'eroismo del quale è l'astuzia messa al servizio d'una ripugnanza istintiva verso ciò che è grande essendone l'attributo la rasiera livellatrice. Essendo l'indifferenza inalterabile e la superiorità quantitativa le manifestazioni normali della loro forza, non sono per questo incapaci di raggiungere l'ira épica e di cedere agli impulsi dell'aggressività. Charles Morice le chiama allora «falangi di Prudhommes feroci che hanno per lemma la parola mediocrità e marciano animate dall'odio per lo straordinario»30.

Pervenuti in alto, questi Prudhommes faranno della loro volontà trionfante una battuta di caccia organizzata contro tutto ciò che manifesti l'attitudine e l'audacia del volo. La formula sociale sarà una democrazia che conduce alla consacrazione del pontefice «Qualunque», all'incoronazione del monarca «Uno dei tanti». Odieranno nel merito la ribellione. Nei loro dominî ogni nobile superiorità si trovera nelle condizioni della statua di marmo collocata sul bordo di un sentiero fangoso, dal quale il carro che passa manda una frustata di melma. Chiameranno saggezza il dogmatismo del senso volgare; gravità, la meschina aridità del cuore; sano criterio, l'adattamento perfetto a ciò che è mediocre; spregiudicatezza virile, il cattivo gusto. La loro concezione della giustizia li porterebbe a sostituire l'immortalità del grand'uomo nella storia sia con l'identità di tutti nell'oblio comune, sia con la memoria egualitaria di Mitridate, di cui si racconta che conservava nel ricordo i nomi di tutti i suoi soldati. La loro idea di repubblicanesimo verrebbe soddisfatta rendendo autorità decisiva al procedimento probatorio di Fox31, che usava sperimentare i suoi progetti sul criterio del deputato che gli sembrava la più perfetta personificazione del country-gentleman per la limitazione delle sue facoltà e per la rozzezza dei suoi gusti. Così si sarà alle frontiere della zoocrazia, di cui ha parlato una volta Baudelaire. La Titania di Shakespeare, che depone un bacio sul capo asinino32, potrebbe essere l'emblema della Libertà che elargisce il suo amore ai mediocri. Mai attraverso una conquista più feconda si potrà giungere a un risultato più funesto.

Inebriate il suggeritore delle insolenze della mediocrità che vedete passare accanto a voi, istigatelo a fare da eroe, trasformate la sua docilita burocratica in vocazione di redentore, e avrete allora l'ostilità rancorosa e implacabile contro tutto ciò che è bello, contro tutto ciò che è degno, contro tutto ciò che è delicato nello spirito umano, ancora più ripugnante del barbaro spargimento di sangue nella tirannide giacobina che dinanzi al suo tribunale trasforma in colpa la sapienza di Lavoisier, il genio di Chénier, la dignità di Malesherbes33; tra le grida abituali nella Convenzione fa udire le parole: Diffidate di quell'uomo che ha fatto un libro!; e riferendo l'ideale della semplicità democratica al primitivo stato di natura di Rousseau potrebbe scegliere il simbolo della discordia, istituito tra la democrazia e la cultura, nella illustrazione con cui quel sofista geniale accompagnò la prima edizione della sua celebre diatriba contro le arti e le scienze in nome della moralità dei costumi34: un satiro imprudente che cercando di abbracciare, avido di luce, la torcia che porta in mano Prometeo ascolta dal titano filantropo che il suo fuoco è mortale per chi lo tocca!

La ferocia egualitaria non ha manifestato le sue violenze nell'evoluzione democratica del nostro secolo, né si è opposta in forme brutali alla serenità e all'indipendenza della cultura intellettuale. Ma alla stregua di una bestia feroce nella cui posterità addomesticata l'aggressività si fosse mutata in mansuetudine maliziosa e ignobile, l'egualitarismo nella forma mite della tendenza a ciò che è utilitario e volgare può essere materia reale d'accusa contro la democrazia del XIX secolo. Non ha sostato davanti ad essa nessuno spirito delicato e sagace che non abbia pensato, con angoscia, all'aspetto sociale e politico dei suoi risultati. Espellendo con indignata energia dallo spirito umano la falsa concezione dell'uguaglianza che suggerì i delirî della Rivoluzione, l'eletto pensiero contemporaneo ha tenuto sulla realtà e sulla teoria della democrazia una severa ispezione che permette a voi, che collaborerete all'opera dell'avvenire, di definire il vostro punto di partenza non certo per distruggere ma per educare lo spirito del regime che trovate in atto.

Da quando il nostro secolo ha assunto personalità e indipendenza nell'evoluzione delle idee, mentre l'idealismo tedesco correggeva l'utopia egualitaria della filosofia del XVIII secolo e sublimava, sebbene con viziosa tendenza cesarista, il ruolo riservato nella storia alla superiorità individuale, il positivismo di Comte, senza riconoscere all'uguaglianza democratica altro carattere che di un «dissolvente transitorio delle disuguaglianze antiche» e negando con pari convinzione l'efficacia definitiva della sovranità popolare, cercava nei principî delle classificazioni naturali il fondamento della classificazione sociale sostitutiva delle gerarchie recentemente distrutte. La critica della realtà democratica prende forme severe nella generazione di Taine e di Renan. Sapete che solo l'uguaglianza di quel regime sociale, essendo come in Atene «una uguaglianza di semidei», soddisfaceva questo delicato e mite ateniese35). Quanto a Taine, è colui che ha scritto le Origini della Francia contemporanea; e se, da una parte, la sua concezione della società come un organismo lo conduce logicamente a respingere ogni idea di uniformità che si opponga al principio della dipendenza e della subordinazione organiche, d'altra parte il suo finissimo istinto di selezione intellettuale lo porta ad aborrire l'invasione delle cime da parte della moltitudine. La grande voce di Carlyle aveva già predicato contro ogni irriverenza livellatrice la venerazione dell'eroismo ritenendolo il culto di qualunque nobile superiorità. Emerson rifiette quella voce nell'ambito della più positivista delle democrazie. La scienza nuova parla di selezione come di una necessità di ogni progresso. Nell'arte, in cui il senso di ciò che è eletto ha il suo più naturale adeguamento, vibrano con profonda risonanza le note che rivelano il sentimento, che potremmo chiamare di stupore dello spirito, nel mezzo delle moderne condizioni di vita. Per ascoltarle non è necessario avvicinarsi al parnassianesimo di stirpe delicata e malata che un aristocratico disdegno del presente condusse a rinchiudersi nel passato. Tra le ispirazioni costanti di Flaubert -da cui usa far derivare direttamente la più democratizzata delle scuole letterarie nessuna è più intensa dell'odio per la mediocrità imbaldanzita dal livellamento e per la tirannide irresponsabile del numero. Nella contemporanea letteratura del Nord, nella quale la preoccupazione per le grandi questioni sociali è così viva, emerge spesso l'espressione della stessa idea, dello stesso sentimento: Ibsen sviluppa l'attiva arringa del suo Stockmann36 intorno all'affermazione secondo cui «le maggioranze compatte sono il nemico più pericoloso della libertà e della verità»; e il formidabile Nietzsche oppone all'ideale di un'umanità sottomessa l'apoteosi delle anime che si ergono sopra il livello dell'umanità come una viva marea. L'aspirazione vivissima a una rettifica dello spirito sociale, che assicuri alla vita dell'eroicità e del pensiero un ambiente più puro di dignità e giustizia, vibra oggi dovunque, e si direbbe che costituisce uno dei fondamentali accordi che questo tramonto di secolo propone per le armonie che il secolo venturo deve comporre.

E tuttavia lo spirito della democrazia è essenzialmente per la nostra civiltà un principio di vita contro il quale sarebbe inutile ribellarsi. Le insoddisfazioni trapelate dalle imperfezioni della sua forma storica attuale hanno portato spesso all'ingiustizia insieme a ciò che quel regime ha di definitivo e di fecondo. Così l'aristocraticismo saggio di Renan formula la più esplicita condanna del principio fundamentale della democrazia, l'uguaglianza dei diritti; crede questo principio inesorabilmente distinto dal possibile dominio della superiorità intellettuale; e giunge perfino a indicare in esso, con un'energica immagine, «gli antipodi delle vie di Dio, poiché Dio non ha voluto che tutti vivessero allo stesso grado la vita dello spirito». Tali paradossi ingiusti del maestro, con l'integrazione del suo celebre ideale di un'oligarchia onnipotente di uomini saggi, sono paragonabili alla riproduzione, esagerata e deformata nel sogno, di un pensiero reale e fecondo che ci ha preoccupato nella veglia. Disconoscere Topera della democrazia nella sua essenza perché, ancora inconclusa, non è giunta a conciliare definitivamente la sua impresa d'uguaglianza con una forte garanzia sociale di selezione, equivale a disconoscere l'opera parallela e concorde della scienza, interpretata secondo il criterio ristretto di una scuola che ha potuto nuocere talvolta allo spirito di religiosità o allo spirito di poesia. La democrazia e la scienza sono infatti i due insostituibili sostegni su cui riposa la nostra civiltà o, esprimendosi con una frase di Bourget, le due «operaie» dei nostri destini futuri. «In esse siamo, viviamo, ci muoviamo». Se è insensato pensare, come Renan, di ottenere una consacrazione più positiva di tutte le superiorità morali, la realtà di una ragionata gerarchia, il dominio efficace delle alte doti dell'intelligenza e della volontà di distruzione dell'uguaglianza democratica, è necessario pensare solo all'educazione della democrazia e alla sua riforma. È necessario pensare che progressivamente si incarnino, nei sentimenti del popolo e nei suoi costumi, l'idea delle necessarie subordinazioni, la nozione delle superiorità vere, il culto cosciente e spontaneo di tutto ciò che moltiplica, agli occhi della ragione, la cifra del valore umano.

L'educazione popolare acquista in relazione a tale opera, come sempre quando la si osserva con il pensiero dell'avvenire, un interesse supremo3738. Nella scuola, nelle cui mani procuriamo che passi la dura argilla delle moltitudini, si trova la prima e più generosa manifestazione dell'equità sociale che consacra per tutti l'accessibilità del sapere e dei mezzi più efficaci di superiorità. Essa deve completare un così nobile compito, facendo oggetto di educazione preferenziale e attenta il senso dell'ordine, l'idea e la volontà della giustizia, il sentimento delle legittime autorità morali.

Nessuna distinzione può più facilmente confondersi e annullarsi nello spirito del popolo di quella che insegna che l'uguaglianza democratica può significare una uguale possibilità, mai una uguale realtà, d'influenza e di prestigio tra i membri di una società organizzata. In tutti c'è un identico diritto ad aspirare alle superiorità morali che devono dar ragione e fundamento alle superiorità effettive; soltanto a coloro che hanno raggiunto veramente il possesso delle prime deve essere concesso il premio delle altre. Il vero, il degno concetto dell'uguaglianza riposa sul pensiero secondo cui tutti gli esseri razionali sono dotati per natura di facoltà capaci di una nobile evoluzione. Il dovere dello Stato consiste nel collocare tutti i membri della società in condizioni non distinte di tendere al loro perfezionamento. Il dovere dello Stato consiste nel predisporre i mezzi adeguati per produrre uniformemente la rivelazione delle superiorità umane, dovunque esistano. Così, al di là della uguaglianza iniziale, ogni disuguaglianza sarà giustificata perché sarà la sanzione delle misteriose scelte della natura o dello sforzo meritorio della volontà. Concepita in questo modo, l'uguaglianza democratica, lungi dall'opporsi alla selezione dei costumi e delle idee, è il più efficace strumento di selezione spirituale, è l'ambiente provvidenziale della cultura. Sarà favorita da tutto ciò che favorisca il predominio dell'energia intelligente. In senso non diverso Tocqueville poté affermare che la poesia, l'eloquenza, le grazie dello spirito, i fulgori dell'immaginazione, la profondità del pensiero, «tutti quei doni dell'anima, distribuiti dal cielo a caso», furono collaboratori nell'opera della democrazia, e la servirono perfino quando si trovarono dalla parte dei suoi avversarî, perché convennero tutti nel metiere in rilievo la naturale, non ereditata grandezza di cui il nostro spirito è capace. L'emulazione, che è il più potente stimolo fra quanti possano sovreccitare la vivacità del pensiero e delle altre attività umane, ha bisogno per realizzarsi allo stesso tempo dell'uguaglianza nel punto di partenza e della disuguaglianza, che darà vantaggio ai migliori e più adatti, come scopo finale. Solo un regime democratico può conciliare in sé queste due condizioni dell'emulazione, quando non degenera in egualitarismo livellatore e si limita a considerare, come un bello ideale di perfettibilità, una futura corrispondenza degli uomini con la loro ascesa allo stesso grado di cultura.

Razionalmente concepita, la democrazia ammette sempre un insopprimibile elemento aristocratico che consiste nello stabilire la superiorità dei migliori, consolidandola sul consenso libero degli associati. Essa consacra, come le aristocrazie, la distinzione delle qualità, ma la risolve a favore delle qualità realmente superiori, quelle della virtù, del carattere, dello spirito; e senza pretendere di immobilizzarle in classi costituite separatamente dalle altre, che mantengano a loro favore il privilegio esecrabile della casta, rinnova senza sosta la sua aristocrazia dirigente nelle fonti vive del popolo e la fa accettare con la giustizia e l'amore. Riconoscendo, così, nella selezione e nel predominio dei più dotati la necessità di ogni progresso, eselude da questa legge universale della vita, con la sanzione dell'ordine della società. Peffetto di umiliazione e di dolore che, negli eventi della natura e in quelli delle altre organizzazioni sociali, è il duro bottino del vinto. «La grande legge della selezione naturale -ha detto luminosamente Fouillée- continuerà a realizzarsi nel seno delle società umane soltanto se essa si realizzerà sempre di più per via della libertà». Il carattere odioso delle aristocrazie tradizionali traeva origine dal fatto che erano ingiuste nel loro fondamento e oppressive in quanto la loro autorità era un'imposizione. Oggi sappiamo che non esiste altro limite legittimo alla uguaglianza umana se non quello che consiste nel dominio dell'intelligenza e della virtù, consentito dalla libertà di tutti. Ma sappiamo anche che è necessario che questo limite esista realmente. D'altra parte, la nostra concezione cristiana della vita ci insegna che le superiorità morali, come motivo di diritti, sono soprattutto un motivo di doveri, e che ogni spirito superiore deve donarsi agli altri in uguale proporzione di quanto li supera nella capacita di realizzare il bene. L'antiegualitarismo di Nietzsche che un solco così profondo traccia in quella che potremmo chiamare la nostra moderna letteratura di idee - ha portato alla sua potente rivendicazione dei diritti, che considera impliciti nelle superiorità umane, un abominevole, reazionario spirito; negando ogni fratellanza, ogni pietà, pone nel cuore del superuomo che deifica un disprezzo satanico per i diseredati e per i deboli; legittima nei privilegiati della volontà e della forza il ministero del boia; e con risoluzione logica giunge in ultimo ad affermare che «la società non esiste per sé ma per i suoi eletti». Non è, certamente, questa concezione mostruosa che può opporsi, come vessillo, al falso egualitarismo che aspira al livellamento di tutti alla comune volgarità. Per fortuna, finché esisterà nel mondo la possibilità di disporre di due pezzi di legno a forma di croce, cioè sempre, l'umanità continuerà a credere che è l'amore il fondamento di ogni ordine stabile, e la superiorità gerarchica nell'ordine non deve essere altro che una superiore capacità di amare!

Fonte di inesauribili ispirazioni morali, la scienza nuova ci suggerisce, nel chiarire le leggi della vita, come il principio democratico possa essere conciliato nell'organizzazione delle collettività umane con una aristarchia della moralità e della cultura. Da una parte -come ha fatto notare, ancora una volta, in un simpatico libro Henri Bérenger39-, le affermazioni della scienza contribuiscono a sancire e a rafforzare nella società lo spirito della democrazia rivelando quanto sia il valore naturale dello sforzo collettivo, quale la grandezza dell'opera dei piccoli, quanto imponente la parte dell'azione riservata al collaboratore anonimo e oscuro in ogni manifestazione dell'evoluzione universale. Non meno della cristiana, questa nuova rivelazione esalta la dignità degli umili e attribuisce nella natura all'opera degli infinitamente piccoli, e al lavoro della nummulite40 e del briozoo41 nel fondo oscuro dell'abisso, la costruzione delle fondamenta geologiche; fa emergere dalla vibrazione della cellula informe e primitiva l'intero impulso ascendente delle forme organiche; manifesta il potente ruolo che nella nostra vita psichica è necessario attribuire ai fenomeni più impercettibili e più vaghi, fino alle fugaci percezioni di cui non abbiamo coscienza; e, pervenendo alla sociologia e alla storia, restituisce all'eroismo spesso abnegato delle moltitudini la parte che gli negava il silenzio nella gloria dell'eroe individuale, rende patente il lento accumulo delle ricerche che, attraverso i secoli nell'ombra, nell'officina, o nel laboratorio di operai dimenticati, prepararlo le scoperte del genio.

Ma al tempo stesso che manifesta l'immortale eficacia dello sforzo collettivo e dignifica la partecipazione dei collaboratori ignorati nell'opera universale, la scienza dimostra come nell'immensa società delle cose e degli esseri sia condizione necessaria di ogni progresso l'ordine gerarchico; siano principio della vita le relazioni di dipendenza e di subordinazione fra le componenti individuali di quella società e gli elementi dell'organizzazione dell'individuo; e sia, per ultimo, una necessità inerente alla legge universale di imitazione, se messa in relazione con il perfezionamento delle società umane, la presenza in esse di modelli vivi e influenti, che le innalzino con la progressiva generalizzazione della loro superiorità.

Per dimostrare ora che entrambi gli insegnamenti universali della scienza possono essere tradotti nei fatti, conciliandosi con l'organizzazione e lo spirito della società, è sufficiente insistere sulla concezione di una democrazia nobile, giusta; di una democrazia guidata dalla nozione e dal sentimento delle vere superiorità umane; di una democrazia in cui la supremazia dell'intelligenza e della virtù -unici limiti per l'equivalenza di merito degli uomini- riceva autorità e prestigio dalla libertà, e discenda sulle moltitudini con l'effusione benEfica dell'amore.

Conciliando i due grandi risultati dell'osservazione dell'ordine naturale, si realizzerà in una tale società -come osserva nello stesso libro di cui vi parlavo il Bérenger-, l'armonia dei due impulsi storici che hanno comunicato alla nostra civiltà i loro caratteri essenziali, i principî regolatori della loro vita. Dallo spirito del cristianesimo nasce infatti il sentimento di uguaglianza, viziato da un certo ascetico disprezzo per la selezione spirituale e per la cultura. Dall'eredità delle civiltà classiche nascono il senso dell'ordine e della gerarchia, e il rispetto religioso del genio, viziati da un certo aristocratico disdegno per gli umili e per i deboli. L'avvenire sintetizzerà entrambe le suggestioni del passato in una formula immortale. Allora la democrazia avrà trionfato definitivamente. La democrazia, che quando minaccia con l'ignobiltà della rasiera livellatrice giustifica le proteste adirate e le amare malinconie di coloro che hanno creduto sacrificate dal suo trionfo ogni distinzione intellettuale, ogni illusione d'arte, ogni delicatezza della vita, avrà anche più delle vecchie aristocrazie inviolabili garanzie per la coltivazione dei fiori dell'anima che appassiscono e periscono nell'ambiente della volgarità e fra le empietà del tumulto!



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