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Abajo

Del tradurre: riflessioni, ragioni ed esperienze

Giuseppe Bellini






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Non v'è chi non ricordi l'accusa fatta dal Foscolo a Vincenzo Monti, per la quale passò alla storia letteraria spregiativamente come «traduttor dei traduttor d'Omero»; eppure felice traduttore dell' Iliade, poiché senza la sua fatica, che faceva tesoro di altre, molte generazioni, incluso la mia, non avrebbero letto il grande poema. D'altra parte il Monti teneva in primo piano, nel suo lavoro, il testo originale, anche se lo interessava, e lo aiutava, vedere come altri lo avevano tradotto, cosa del tutto legittima e giustificata, non solo, ma raccomandabile.

Nel tempo, il ricorso dei traduttori non all'originale, ma ad altra traduzione in una lingua più accessibile, o semplicemente più vicina, è pure avvenuto: si tratta in questo caso realmente di traduttori dei traduttori. Per rimanere nell'ambito ispanico, le prime traduzioni dei grandi romanzieri russi furono realizzate su traduzioni francesi e circolarono ampiamente tanto in Spagna come in Ispanoamerica, divenendo nutrimento di giovani che poi furono grandi scrittori, da Baroja a Gallegos, a Icaza. Senza questo lavoro di ri-traduzione, chissà per quanto tempo ancora sarebbero stati ignorati testi rilevanti e di tanto impatto come le opere di Dostoevski, di Tolstoy e di altri grandi scrittori russi. Ciò è avvenuto anche in Italia, dove l'editoria si è sempre orientata su Parigi1.

In tempi a noi più vicini una traduttrice italiana, Joyce Lussu, affermava con tutta tranquillità di aver realizzato sulla spiegazione orale, in francese più o meno corretto, della sua poesia da parte del poeta turco Hikmet, la traduzione italiana e dichiarava di essere del tutto digiuna di conoscenze della lingua turca2. Ma vi è anche chi si avvale di traduzioni già realizzate nella propria lingua per contrabbandarne di proprie. Peccato mortale, questo, se il primo può essere considerato, in determinati casi di lingue inaccessibili, veniale. Operazione legittima di confronto, invece, se il testo viene rivisitato con tutta onestà, al fine di pervenire a una nuova traduzione. È legittimo, infatti, che traduttori diversi possano ritradurre all'infinito le medesime opere, di narrativa, saggistica, teatro o poesia, come avviene, per rimanere nel settore di mia competenza, con il Chisciotte, i drammi di Lope, di Calderón o di Alarcón, i saggi di Unamuno, di Ortega o di Alfonso Reyes, la poesia di Góngora, di Quevedo o di Neruda, le opere di quant'altri si voglia autori che, resistendo al tempo, determinano un costante interesse.

Naturalmente è lecito che lo stesso traduttore possa rivedere o cambiare del tutto, a distanza di tempo, la propria traduzione di un testo. Il gusto del momento, l'evoluzione della lingua, hanno il loro peso. Assurdo sarebbe che si ricorresse di proposito oggi alla lingua italiana in uso neppure mezzo secolo fa. Il traduttore deve far caso, comunque, soprattutto alla lingua del testo originale, che non deve svigorire o emendare nella traduzione: per fare un solo esempio, che l'esclamazione carajo, così ricorrente nella narrativa indianista ispanoamericana, possa venire tradotta pudicamente con «diamine», «perdinci» o «perbacco», farebbe ridere; ma del pari risulta malsonante, detto en passant, che si pervenga alla brutale traduzione letterale, come avviene ne I meticci, di Jorge Icaza3, quando si può riprodurre il termine tale e quale, in corsivo, essendo ormai da tutti compreso.




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Ma perché tradurre, se si continua ad avere scarsa fiducia non tanto nel traduttore quanto nell'esito della traduzione rispetto all'originale? Non è ancora archiviata del tutto la definizione, spesso accentuata con sarcasmo: «traduttore=traditore». Oggi, con la diffusione delle conoscenze linguistiche, l'impresa del tradurre sembrerebbe superflua; senonché, per insinuare solo qualche dubbio, quanti conoscono il cinese o il giapponese, ma più «umanamente», per noi europei, lo svedese, il norvegese, il finlandese, il danese, il tedesco, l'olandese, l'ungherese, il polacco, il russo, e via dicendo, così da pervenire per via diretta alle manifestazioni creative dei rispettivi ambiti linguistici? Come lo fu per decenni il francese, una sorta di lingua franca è oggi rappresentata dall'inglese, ma non tutto è tradotto in questa lingua, che peraltro ancora molti non dominano completamente o addirittura non conoscono.

D'altra parte, non è raro neppure il caso, se restiamo nel campo della letteratura, che uno scrittore pubblichi prima la sua opera in traduzione che nella propria lingua; talvolta, addirittura, il testo è reso pubblico solo nella traduzione. Il Nobel Asturias pubblicò prima in traduzione francese Trois de quatre soleils, e solo dopo la sua morte fu edito il testo originale, Tres de cuatro soles; Neruda diede alle stampe prima in traduzione italiana che nel testo spagnolo il libro Donde nace la lluvia, primo del Memorial de Isla Negra, e non è raro il caso, come accadde anche a me con Octavio Paz e con altri poeti ispanoamericani, inclusi Asturias e Neruda, che testi ancora inediti siano facilitati dall'autore al traduttore e vedano quindi la luce prima nella traduzione che nell'originale.

Tradurre è oltre che utile necessario, onde attingere la produzione di altri paesi, ma lo è anche per quel contatto che definirei «ginnico» e di vasi comunicanti, che si stabilisce, attraverso la traduzione, tra le culture dei vari popoli, sempre che la traduzione sia nella sostanza, non dirò perfetta, poiché la perfezione non si raggiunge mai, ma onesta. Ed è un esercizio sempre più impegnativo, se stiamo ai testi poetici, da quando, a partire dall'immediato secondo dopoguerra, s'incominciò a porre, a fronte della traduzione, il testo originale.

Il tradurre, comunque, non attiene solamente all'ambito letterario, bensì a tutta una varietà di testi che rendono necessaria la loro comprensione a una molteplicità di persone. Un individuo che ritenga superfluo conoscere il prodotto letterario di altri paesi può anche pensare che tradurre sia esercizio inutile, ma quando è posto di fronte alle istruzioni in giapponese di un apparecchio qualsiasi, elettronico o fotografico, si rende conto che, senza la traduzione, non dico nella sua stessa lingua, ma in inglese o in francese, non gli sarebbe possibile comprenderne l'esatto funzionamento. Tradurre, perciò, è necessario, non solo per ragioni culturali, ma per ragioni pratiche.

Naturalmente occorre competenza. Fu il mio problema quando, in anni giovanili, fui chiamato in Tribunale a tradurre un repertorio di rifornimenti, tra cui infinite varietà di pezzi di ricambio meccanici, viti e bulloni per misteriosi usi, forniti dal governo italiano a Perón, ormai defenestrato, e il cui pagamento era contestato dal nuovo governo argentino: dovetti farmi tutta una cultura. E ancora, quando, in anni remotissimi, per una rivista dell'Alfa Romeo -cosa non si fa per sopravvivere!- dovetti tradurre termini attinenti a ruote e motori: ricordo che un mio grosso problema fu la traduzione di «battistrada». Il vocabolario cui ricorsi, il solito Ambruzzi -allora vi era scarsità di vocabolari tecnici-, mi dava, come ancora dà: «batidor, carrerista, jinete que precedía el coche del señor, hoy tan sólo de los soberanos», e poi espressioni come «fare da battistrada a uno = preceder y anunciar a alguien», e anche «llanta de la rueda», ma non «banda de rodaje», termine esatto, del quale mi informò dalla Spagna, dopo vari giorni -non esisteva ancora internet, né posta celere- un amico.




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I modi di tradurre sono, come si sa, infiniti. Non credo che possano esistere regole, anche se se ne discute da secoli; lo stesso Eco è giunto alla conclusione sostanziale e più che logica, che per tradurre occorre conoscere bene la lingua. Vale la pena di considerare il passo in cui Eco chiarisce ciò che si deve pretendere dalla traduzione di un'opera straniera:

«... che la traduzione possa dirmi al meglio possibile cosa c'era scritto nell'originale. Riterrò come truffaldini tagli di brani o di interi capitoli, certamente m'irriterò per evidenti errori di traduzione [...] e a maggior ragione mi scandalizzerò se poi scoprirò che il traduttore ha fatto dire o fare a un personaggio (per imperizia o per deliberata censura) il contrario di quel che aveva detto o fatto»4.



Ciò vale per la traduzione di un trattato o di un romanzo, ma vale anche, s'intende, per altri generi di testi e per la poesia, per la quale ultima sono necessari anche una sensibilità viva, un buon orecchio musicale e scelte oculate di termini. E allora, chi meglio di un poeta? Ma i poeti, e peggio coloro che pretendono di essere tali e non lo sono, spesso conoscono imperfettamente la lingua e ad ogni modo ricreano il testo a loro piacere, attenti più al ritmo, alla rima che allo spirito. Sono perciò non di rado traduttori arbitrari, che si ritengono autorizzati a reinterpretare il testo. Lo ha fatto Ungaretti per la poesia brasiliana, per citare un nome, senza volergli disconoscere meriti, e Quasimodo per la lirica di Neruda, tanto che il poeta cileno ebbe ad affermare più volte, riservatamente, che la traduzione delle sue poesie, nell'antologia einaudiana del 1952, illustrata da Guttuso5, rappresentava in realtà l'amico italiano su tema suo. Un'antologia, detto en passant, che ebbe grande successo e che, giunta alla nona edizione, quando fummo a Torino per informarci sui diritti mai percepiti, fruttò a Neruda, assai timido nel difendere i propri interessi -io e la moglie andammo dall'editore-, solo una modestissima somma di scarsa consolazione, con la quale, poiché pioveva, andò subito a comprarsi un impermeabile, che da quel momento chiamò «l'Einaudi». A detta degli amministratori i diritti erano stati sempre versati al traduttore e più non indagammo.

Nell'ambito letterario rileviamo, naturalmente, una gran varietà di linguaggi; non si scopre nulla di nuovo se si afferma che un testo saggistico, un testo tecnico sono altra cosa da un testo narrativo, teatrale e soprattutto poetico; e anche che, entro queste grandi categorie creative, vi sono caratteristiche di cui tener conto, quali l'epoca, la tendenza letteraria, la sensibilità, il gusto della lingua, in primis l'autore, che fa diversi i testi. Come deve allora comportarsi il traduttore? È qui che inizia la serie delle mie esperienze di cui intendo trattare.




4

Anzitutto: in quale circostanza e modo sono pervenuto alla traduzione? Come alcuni credo abbiano presente, mi sono specializzato, molti anni fa' ormai, in lingua e letteratura spagnola, alla scuola di Franco Meregalli. Divenuto suo assistente, essendo egli uno dei pochi ispanisti, realmente pochi -e con un solo ordinario, Giovanni Maria Bertini-, allora interessati alla letteratura ispano-americana, mi incoraggiò a dedicarmi a questo settore, autorizzandomi presto a tenere cursillos integrativi della sua disciplina. Le vicende portarono il Maestro prima in Spagna, poi in Germania e io rimasi all'Università Bocconi in posizione precaria, che tuttavia nel 1959 mi fruttò che il Senato accademico decidesse di introdurre ufficialmente nello Statuto della Facoltà di Lingue e letterature straniere, quale materia complementare, l'insegnamento della Letteratura ispano-americana, affidandone a me l'incarico, cui si aggiunse quasi subito quello di Lingua e letteratura spagnola.

Era la prima volta che nell'Università italiana faceva la sua comparsa ufficiale la Letteratura ispano-americana, in parallelo con la già consolidata Letteratura anglo-mericana. Poco a poco, non senza dura lotta e dopo vari decenni, doveva aver luogo la proliferazione di incarichi, più limitata quella di ordinari, e in tempi ancora recenti di associati e ricercatori.

Dall'ambito accademico, tuttavia, bisognava uscire, o meglio, l'interesse studentesco si nutriva inevitabilmente di un più diffuso pubblico esterno all'accademia. Occorreva andare all'assalto dell'editoria, da sempre restia a tradurre opere spagnole, che non fossero il solito Don Quijote, le Novelas ejemplares o La vida es sueño, isaggi di Unamuno e di Ortega e l'onnipresente Blasco Ibáñez della mia giovinezza. Fu addirittura una novità per l'Italia l'apparizione, quando ero studente, delle poesie di Bécquer, curate dal Macrí, allora professore di scuola media a Parma, e questo aveva potuto aver luogo non con una grande casa editrice, bensì con una di secondaria importanza6.

Se si osserva l'editoria oggi, non è facile farsi un'idea di quanto profondo fosse, negli anni dal '30 al '60, in Italia, il vuoto di conoscenza nei riguardi della letteratura ispano-americana. A malapena alcuni «entendidos» conoscevano l'esistenza di un Martín Fierro, non certo letto nell'originale, ma nella traduzione italiana pubblicata in Argentina7; inoltre si avevano notizie vaghe di qualche narratore avventurosamente proposto, come l'argentino Manuel Gálvez, del quale nel 1933 Ugo E. Imperatori pubblicava la traduzione di Miércoles Santo8, e un altro argentino, Ricardo Güiraldes, di cui Carlo Bo traduceva nel 1940 Don Segundo Sombra9. L'attenzione verso la regione del Río de la Plata era determinata dalla massiccia presenza di nostri immigrati. Nel 1944 Attilio Dabini pubblicava Anaconda, dell'uruguaiano Horacio Quiroga10, e l'anno seguente Il carrettone, titolo originale La carreta, dell'ugualmente uruguaiano Enrique Amorim11.

A questi titoli se ne dovevano aggiungere pochi altri: nel 1946, Doña Bárbara, del venezolano Rómulo Gallegos, nella più che infedele traduzione di Carlo Bo12; nel 1949 il romanzo dell'equatoriano Jorge Icaza, I meticci, titolo originale Cholos13; nel 1948 Enzo Giachino contribuiva ad estendere l'attenzione al Messico, pubblicando Il coltello di pietra, titolo originale El luto humano, di José Revueltas14; nello stesso anno Ettore De Zuani traduceva, con il titolo Il deserto di calce, il romanzo di Mauricio Magdaleno, El resplandor15.

Bo ebbe, bisogna riconoscerlo, il merito di avviare in Italia la conoscenza di vari autori, narratori e poeti non solo spagnoli, ma ispanoamericani16. A lui si deve anche la prima diffusione, nella traduzione di Maria Vasta Dazzi e di Adriana Pellegrini, dei romanzi poi famosi di Alejo Carpentier17, che purtroppo ebbero lunga vita sulle bancherelle dei libri scontati e, ripresi a distanza di decenni, un tardissimo apprezzamento da parte dei lettori italiani sulla scia del boom del romanzo latino-americano.

Pochi altri testi di narrativa si possono contare nel periodo che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta, e ancor meno per quanto attiene alla poesia18, ambito nel quale, nell'immediato secondo dopoguerra, si ebbe pure notizia di una certa Gabriela Mistral, poetessa cilena vagamente localizzata sulla riviera ligure, Premio Nobel nel 1945.

Tuttavia, nella seconda metà degli anni '50 Borges diveniva noto in Italia, incluso in antologie di narrativa19, ma anche tradotto per singoli testi. Il merito va a Franco Lucentini, che nel 1955 traduceva Ficciones, con il titolo di La Biblioteca di Babele20, e a Francesco Tentori Montalto, il quale nel 1959 pubblicava una versione de L'Aleph21, mentre nel 1961 Mario Pasi curava la Storia universale dell'infamia22. Gli anni successivi, tra il '60 e il '70, segnarono il trionfo di Borges nel nostro paese23; lo scrittore argentino era destinato a godere, fino a tempi piuttosto recenti, di un vero e proprio culto da parte della nostra intellettualità militante, nonostante la posizione politica e negli ultimi tempi le sue spesso imbarazzanti dichiarazioni a favore dei militari argentini e del golpista Pinochet.

Nel 1958 un altro scrittore, questa volta guatemalteco, Miguel Ángel Asturias, veniva introdotto in Italia: Elena Mancuso traduceva, infatti, per Feltrinelli, El Señor Presidente, con un titolo allusivo a un nostrano personaggio: L'uomo della Provvidenza24. Così era stato definito Mussolini alla firma dei «Patti Lateranensi», che mettevano fine alla «Questione romana». L'anno seguente Attilio Dabini pubblicava presso gli Editori Riuniti un altro romanzo di Asturias, propaganda anticattolica per il titolo, Il Papa verde25, anche se il libro nulla aveva a che fare con il Papa, ma del quale in Spagna pure la censura franchista, proprio per quanto poteva significare, nell'accezione volgare, «dissoluto, libertino, scostumato», aveva proibito la circolazione. Ricordo che comprai il romanzo clandestinamente, a Madrid, da un intellettuale-libraio amico, Enrique Canito, direttore della nota rivista letteraria Ínsula, e dallo stesso acquistai sottobanco le Obras poéticas di Neruda26, autore più che proibito dal regime franchista.

Il periodo fascista in Italia aveva perseguito verso l'America latina interessi politici più che letterari, focalizzando l'attenzione soprattutto sul Río de la Plata: Argentina e Uruguay. Si può dire che, alla fine della seconda guerra mondiale, ben pochi italiani conoscessero l'esistenza di altri stati latinoamericani; in secondo termine veniva il Messico, mentre taluni avevano appena scoperto un mitico Venezuela dove, per la ricchezza petrolifera, non si pagavano tasse, e verso cui si dirigeva una recente e qualificata emigrazione di professionisti più o meno compromessi con il fascismo, i quali valsero in buona misura a modernizzare il grande paese caraibico e a trasformare dal punto di vista edilizio la sua capitale.

Anni dopo si scoprirà anche il Costarica. Il paese centroamericano farà ponti d'oro fiscali agli investitori stranieri e gli italiani timorosi del «sorpasso» delle sinistre nel loro paese vi investiranno capitali ingenti, trasferendovisi, comperando terre e allevamenti, andando così ad annoiarsi mortalmente in un bel paese dell'America, poiché privi di vero interesse per il luogo e la nuova attività. Unica evasione per le signore le compere a Miami, e in loco pettegolezzo, invidia e maldicenza, testimone la nostra rappresentanza diplomatica.




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I primi traduttori in Italia di testi ispano-americani danno l'impressione di operare nel deserto. Gli editori non li favoriscono; il loro nome è di norma relegato al controfrontespizio e in caratteri quasi illeggibili, vizio che, purtroppo, si perpetua fino ad oggi. L'Imperatori, per rassicurare il lettore di Mercoledì Santo, accentua, in una breve nota bio-bibliografica, il valore di Manuel Gálvez, aggiungendo che «è cattolico e filofascista», «grande amico dell'Italia», unico paese in cui fino al momento non si è pubblicata alcuna sua opera, e assicura che Mercoledì Santo rappresenta, prendendo da F. Casnati, che ne trattava in Vita e Pensiero dell'agosto 1933, «un monumento elevato all'eroismo e alla santità del sacerdozio»27.

Curioso, e certamente significativo come tentativo di promozione, è il concorso che l'editore modenese Guanda -benemerito diffusore, in seguito, da Parma dove presto si trasferisce, della grande poesia internazionale dalla collana «La Fenice»28- lancia tra i lettori, con due premi di lire mille (il libro ne costava originalmente 10, portate presto a 15), da assegnarsi il 30 giugno e il 31 ottobre 1940 «a chi avrà espresso i migliori giudizi sui due romanzi» -oltre a Barbara Naderer, dell'austriaco Max Mell, Don Segundo Sombra di Guiraldes-, e due di lire duecento da assegnarsi «ai due librai che avranno venduto i volumi ai vincitori dei concorsi»29.

La situazione cambierà radicalmente, soprattutto a partire dal boom della narrativa ispano-americana, dalla pubblicazione di Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez, e in particolare in seguito alle vicende politiche per le quali un Asturias finì per essere di casa in Italia30 e Neruda realizzò nel nostro paese vari viaggi e soggiorni, all'inizio contrastati31. Queste presenze favorirono la diffusione della letteratura latino-americana in senso ampio, di quella ispano-americana soprattutto, ma anche della letteratura brasiliana.

Tuttavia, nel 1959 e negli anni immediatamente successivi, non esistendo ancora un vero pubblico lettore all'esterno dell'Università, si rendeva necessario crearlo. Come fare? Attraverso l'intensificazione delle traduzioni di opere che richiamassero l'attenzione, o comunque rispondessero a quanto si tentava di fare nell'Università. Di qui, da parte mia, l'antologia Poeti delle Antille, la traduzione di Huasipungo, di Jorge Icaza, de Los perros hambrientos di Ciro Alegría, la scelta di poesie di Octavio Paz, Libertà sulla parola, e dello stesso autore la traduzione de El laberinto de la soledad, che corrispondevano ai miei corsi universitari, quindi i numerosi altri titoli seguiti, fino alla traduzione quasi completa, negli anni, della poesia e della prosa nerudiane, ma anche del romanzo Week-end en Guatemala, di Miguel Ángel Asturias e della sua poesia nell'antologico Parla il Gran Lengua, e al teatro di Suor Juana Inés de la Cruz32.

Un lavoro piuttosto intenso, non di rado realizzato come dicono gli spagnoli, «a título gracioso» -come le edizioni di Neruda e di Asturias presso l'editore Tallone, paghi, autore e curatore, della bellezza dei risultati-, ma che contribuì, insieme a quello di altri validi ispano-americanisti, quali Cesco Vian, Dario Puccini, Francesco Tentori e in anni successivi Giovanni Battista De Cesare, Antonio Melis, Roberto Paoli, Tommaso Scarano e Angelo Morino, a fare della letteratura ispanoamericana tra il pubblico non un vago fantasma, bensì qualche cosa di realmente consistente.

È doveroso ricordare qui l'opera traduttoria di Enrico Cicogna, iniziale diffusore, dalle edizioni Feltrinelli, della narrativa di Gabriel García Márquez, con la traduzione del citato Cien años de soledad, e di opere di altri romanzieri sudamericani, vero fomentatore del boom della narrativa latinoamericana nel nostro paese.

Le vicende politiche -la rivoluzione castrista a Cuba, quella sandinista in Nicaragua, la caduta di Trujillo a Santo Domingo, l'avvento delle dittature militari in Argentina e in Cile, la situazione a Panamá ai tempi di Noriega, gli interventi degli immancabili marines nelle isole caraibiche- aiutarono non poco, nei decenni finali del secolo XX, a diffondere l'interesse in Italia per il mondo americano e ne trasse vantaggio la letteratura. La storia è lunga e fatta di molte casualità e non è qui il luogo per insistervi. Accontentiamoci di constatare che, se quando nel 1959, mentre mi stavo presentando alla Libera docenza in letteratura ispano-americana, un eminente germanista, Amoretti, mi aveva chiesto stupito se mai esistesse tale letteratura, dopo pochi anni nessuno si sarebbe azzardato a farlo.




6

Molti sono i problemi che pone la traduzione, iniziando dal titolo dell'opera. Un noto romanzo di Miguel Ángel Asturias, Maladrón, fu presentato con il titolo Il ladrone, per nulla attrattivo e oltre tutto traditore del significato originale «Cattivo ladrone», allusione a quello che sulla croce rifiutò la salvezza che gli prometteva Gesù. Meglio sarebbe stato in questo caso mantenere il titolo spagnolo, Maladrón, più suggestivo certamente per il possibile acquirente del volume.

Neppure Mulata de tal ebbe un'attraente intitolazione con Mulatta senzanome, poiché il titolo non rende la personalità equivoca, demoniaca e distruttrice del personaggio, cosa che si poteva ottenere ricorrendo a titoli com Quella tal mulatta..., o Quel demonio di mulatta e forse meglio ancora Quella puttana della mulatta, perché il titolo originale richiama l'espressione spagnola «Hija de tal...», vale a dire «Figlia di puttana...».

Tradurre letteralmente il titolo di un'opera può risultare negativo e bene fece il traduttore, o chi per esso, nel caso del romanzo di Asturias Los ojos de los enterrados, rendendolo con Gli occhi che non si chiudono33; la traduzione letterale, Gli occhi dei sepolti, o dei sotterrati, avrebbe allontanato probabilmente i lettori dall'acquistare il libro, con gesti di scongiuro. A prova di quanto dico, sta una lettera dello stesso Asturias in occasione del progetto di edizione economica di Week-end en Guatemala, che si prospettava in due volumi: uno dal titolo citato, l'altro intitolato, prendendo da un diverso episodio, Cadaveri per la pubblicità. Proprio quest'ultima intitolazione inquietava lo scrittore, il quale mi scriveva: «Me parece que el título con la palabra "CADÁVERES" no es apropiado. En todo caso es de mal agüero, y ya sabe usted que por español y por indio, me llevo de magias y agüeros»34. Purtroppo non fu accontentato.

Alcune situazioni di grande facilità apparente, non lo sono affatto. Cien años de soledad fu reso facilmente in Cent'anni di solitudine, ma la prima edizione originale recava nel titolo la «E» di «SOLEDAD» volta all'indietro e presto il lettore, inizialmente perplesso, si rendeva conto che ciò aveva a che fare con il contenuto del romanzo: denunciava, infatti, la natura introversa della famiglia Buendía. Ma ripetere in italiano l'operazione con la parola «SOLITUDINE» era del tutto impossibile.

A me è accaduto più volte di dover scegliere tra titolo originale e titolo da dare all'opera presentata in traduzione. Fu facile per Los perros hambrientos di Alegría, I cani affamati; meno lo fu per Huasipungo, termine intraducibile del romanzo di Icaza, che decisi di mantenere nell'originale, peraltro di richiamo, proprio perché a prima vista indecifrabile per un italiano, che poi apprende dalla lettura trattarsi della capanna, con relativo ridotto spazio di terra coltivabile intorno, dato in uso agli indios.

Ma certamente perse efficace richiamo tradurre El mundo es ancho y ajeno, di Ciro Alegría, con I peruviani, titolo che sembra piuttosto annunciare un libro sugli abitanti del Perù o sulla loro civiltà, perdendo il significato profondo del titolo originale, che meglio avrebbe potuto essere reso con Il mondo è grande e degli altri, ma non, come fu fatto per una nuova edizione, con Il mondo è grande e alieno, dove «alieno» genera equivoco con gli extraterrestri o con individui alienati.

Spesso piccoli problemi divengono grandi al momento di intitolare un testo; il libro nerudiano Fin de mundo, come avrebbe dovuto essere reso in italiano? Il poeta intendeva denunciare che siamo giunti al momento che precede di qualche decennio la fine del nostro mondo, per l'imperversare di guerre e dell'intolleranza; tradurre Fine di mondo sarebbe apparso del tutto stonato, per cui optai per Fine del mondo, più accettabile, anche se nella sostanza più immediatamente catastrofico.




7

Ma torniamo al testo vero e proprio. Già ho sottolineato come la qualità prima di un buon traduttore sia la conoscenza della lingua straniera, ma lo è anche della lingua in cui il testo viene tradotto. Se si conosce male la lingua d'origine, la traduzione sarà inadeguata, ma lo sarà anche se sarà povera o imperfetta la conoscenza di quella in cui si traduce. Occorre inoltre, soprattutto se si traduce poesia, sensibilità e, diciamo, «orecchio», in modo da riprodurre la musicalità del testo, avendo ben presente che ogni autore ha la sua musica, con caratteristiche che vanno rispettate e rese il più possibile nella traduzione. Non è lecito tradurre autori diversi nel medesimo modo, poiché ciascuno rappresenta tutto un mondo proprio. Bisogna, quindi, preoccuparsi di tradurre in modo corrispondente al «carattere» di ogni autore, senza cadere nello stucchevole, dando nella lingua di arrivo una versione esatta, senza eliminare difficoltà, cercando, anzi, ad ogni costo, di risolverle. In particolare occorre evitare approssimazioni che, specie tra lo spagnolo e l'italiano, inducono a grossolani errori. Per molto tempo è stato evidente tra noi che tutti si ritenevano in grado di tradurre dallo spagnolo, pur non conoscendolo perfettamente o non conoscendolo affatto.

Alle origini della mia attività mi fu di lezione la revisione di un libro di estetica di Aranguren: il direttore editoriale della Bompiani, Celestino Capasso, me lo inviò pregandomi di controllare la traduzione, evidentemente perché venuto in sospetto, nonostante il traduttore fosse un noto personaggio della nostra cultura, di cui mi nascose il nome, ma che dedussi dall'involucro delle bozze. Nel testo tradotto trovai presto delle perle che ancora ricordo: in un passo dove si illustrava la magnificenza dell'Acázar di Siviglia il testo diceva che le pareti di una certa stanza erano tutte ricoperte di azulejos, e il traduttore traduceva «azalee», mentre trattando del salone degli ambasciatori si menzionavano le enormi arañas che pendevano dal soffitto, e nella traduzione diventavano enormi «ragni», invece di lampadari.

È pur vero che l'abbaglio è facile, favorito dalla fretta degli editori, i quali affidato oggi il lavoro lo vorrebbero pronto il giorno prima, specie se si tratta di un Nobel appena assegnato, o di opere postume di un autore affermato. Ma tradurre bene è sempre contrario alla fretta.

Sostanziali sono, naturalmente, i problemi interpretativi. Spesso l'esistenza in vita degli autori è d'aiuto ai traduttori di testi contemporanei. Io me ne avvalsi per Icaza, soprattutto, per intendere e rendere la terminologia indigena presente in Huasipungo, e per talune espressioni guatemalteche quando tradussi Week end en Guatemala di Asturias.

Più che in altre occasioni, se ci si cimenta con la poesia, il problema fondamentale è la resa musicale e del significato profondo. Liberati ormai dalla tirannia della rima, ritengo si debba rimanere fedeli al messaggio del poeta, conservando del testo l'afflato lirico. Rimangono spesso, naturalmente, difficoltà interpretative: di fronte a un verso del poema «Débil del alba», della prima Residencia en la tierra, «Yo lloro en medio de lo invadido, entre lo confuso», per vario tempo sono rimasto in dubbio su come rendere invadido, se in alcune edizioni diveniva invalido, né mai l'autore volle risolvermi il problema, divertendosi anzi visibilmente davanti al mio dubbio; ma forse neppure lui ricordava bene cosa a suo tempo aveva scritto. La traduzione poteva essere «Io piango in mezzo a ciò che è invaso...», oppure «a ciò che è indebolito, senza forza, malato», finché Hernán Loyola ultimamente ha ristabilito il termine esatto: «invadido»35.

E ancora, come tradurre quel pueblo che compare nel secondo dei Veinte poemas de amor?


Del sol cae un racimo en tu vestido oscuro.
De la noche las grandes raíces
crecen de súbito desde tu alma,
y a lo exterior regresan las cosas en ti ocultas,
de modo que un pueblo pálido y azul
de ti recién nacido se alimenta.



Si tratterà di «popolo» o di «paese», di «villaggio»? Nelle mie varie traduzioni ho pencolato tra le due interpretazioni. Nella sua traduzione Quasimodo interpretava «popolo»:


Un po' di sole scende sulla tua veste scura.
Le grandi radici della notte
crescono d'improvviso dalla tua anima
e tornano fuori le cose in te nascoste,
e così un popolo pallido e azzurro
nato appena da te si nutre.



La mia traduzione era sostanzialmente diversa; dapprima interpretai pueblo oscillando tra «popolo» e «paese», poi, in edizioni successive ricorsi al termine «villaggio», e così fino all'ultima versione in ordine di tempo36:


Dal sole cade un grappolo sul tuo vestito oscuro.
Le grandi radici della notte
crescono d'improvviso dalla tua anima,
e all'esterno tornano le cose in te nascoste,
così che un villaggio pallido e azzurro
appena sorto da te si alimenta.



La ragione di questa scelta? L'interpretazione che tutto un mondo sorgeva dall'amore.




8

Chi osservi con attenzione le due traduzioni del passo nerudiano appena citato, vi troverà qualcosa di fondamentalmente diverso. Credo si colga subito la maggior libertà traduttoria di Quasimodo, ma anche un certo appiattimento per la scelta discorsiva e l'eliminazione di immagini che, al contrario, io ho ritenuto importanti: «Un po' di sole» non equivale, infatti, a un «grappolo» di sole, tenuto conto del significato vitale che Neruda ha da sempre attribuito all'uva, oltre che dell'effetto luminoso proiettato sul poema, accentuando il contrasto con l' «oscuro» del vestito. Così pure, tradurre, all'inizio della lirica, «las viejas hélices del crepúsculo» con «le antiche spirali del crepuscolo», oltre a eliminare il riferimento al Futurismo, toglie valore dinamico al vento, che avvolge, nella sera, spirando fortemente, la donna, dando ad essa e al sentimento che da lei si origina un tono intensamente drammatico, in sostanza quella novità nella concezione dell'amore consegnata da Neruda nei Veinte poemas.

Insisto su Neruda perché la sua poesia ha costituito la mia più rilevante esperienza traduttoria e interpretativa, sembra con soddisfazione del poeta, se in una sua lettera da Parigi Asturias mi scriveva -mi si conceda la citazione-: «Aquí hemos hablado, malas ausencias se entiende, con Pablo, del Prof. Bellini. No hay elogio que no haga de usted, Neruda, y yo lo corroboro»37.

La musica della poesia nerudiana, verso e prosa, era così penetrata in me che tradurre mi dava una vera gioia e trovavo in dettagli apparentemente minimi una suggestione viva, come ad esempio nella prosa dal titolo La copa de sangre, con quell'avvio che immette in una regione mitica, geografia interiore del poeta:

«Cuando remotamente regreso y en el extraordinario azar de los trenes, como los antepasados sobre las cabalgaduras, me quedo sobredormido y enredado en mis exclusivas propiedades, veo a través de lo negro de los años, cruzándolo todo como una enredadera nevada, un patriótico sentimiento, un bárbaro viento tricolor en mi investidura: [...]»38.



Tradurre questo passo letteralmente significa distruggerne il senso profondo. Occorrono, perciò, scelte meditate di vocaboli e mantenere il ritmo evocativo:

«Quando remotamente ritorno e nella straordinaria avventura dei treni, come i miei antepassati sulle cavalcature, resto come assente e irretito nei miei esclusivi domini, vedo attraverso il nero degli anni, tutto attraversandolo come un rampicante niveo, un patriottico sentimento, un barbaro vento tricolore nella mia sostanza: [...]».



È il caso di spiegare le scelte: anzitutto la fedeltà al ritmo evocativo iniziale; poi azar reso con «avventura», non con «azzardo», tenuto conto di ciò che il treno ha sempre rappresentato per il poeta in ambito sentimentale: il padre ferroviere, più volte ricordato, cantato infine in «El padre», del Memorial de Isla Negra, le avventure dell'infanzia sul «tren lastrero» condotto dal genitore, «marinero en tierra», la miseria della vita contadina consegnata in «Sueño de trenes», di Estravagario, gli entusiasmi del poeta per le locomotive, che ebbi modo di constatare direttamente negli incontri a casa Tallone.

All'ingresso della sua residenza-stamperia di Alpignano, il noto maestro della tipografia aveva sistemato una grossa locomotiva delle Ferrovie dello Stato, con il cui fumo, ottenuto bruciando stracci bagnati, accoglieva Neruda: fu un momento memorabile, con abbracci e fotografie del poeta felice, ora al posto di comando, ora seduto sui grossi respingenti39.

Tornando al testo, ho optato per «antepassati», in luogo di antenati, onde approfondire il senso delle generazioni lontane; per la traduzione di sobredormido con «come assente», perché questo è il significato, non «semiaddormentato», e infine per la traduzione di mi investidura con «sostanza», in quanto significa «formazione», «carattere».

Della poesia nerudiana mi hanno sempre suggestionato, oltre alle grandi immagini della morte e della miseria dell'uomo, da «Sepultura en el Este» a «Sólo la Muerte», al «Canto sobre unas ruinas», di España en el corazón, quegli originali tempi verbali con i quali, come in «Ya se fue la ciudad», di Estravagario, il poeta rende il senso dell'abisso in cui l'essere precipita con la morte:


Hasta que al fin caemos en el tiempo, tendidos,
y nos lleva, y ya nos fuimos, muertos,
arrastrados sin ser, hasta no ser ni sombra,
ni polvo, ni palabra, y allí se queda todo
y en la ciudad en donde no viviremos más
se quedaron vacíos los trajes y el orgullo.



Versi da me tradotti come segue:


Finché alla fine cadiamo nel tempo, distesi,
e ci porta via, e ormai ce ne siamo andati, morti,
trascinati senza vita, fino a non essere neppur ombra,
né polvere, né parola, e lì rimane tutto
e nella città in cui più non vivremo
sono rimasti vuoti i vestiti e l'orgoglio.



Traduzione che, a distanza di tempo, mi sembra non del tutto adeguata e che forse avrei potuto rendere meglio, rispettando i tempi verbali dell'originale, traducendo nos fuimos con «ce n'andammo» e se quedaron con «rimasero», a rendere più profondo il senso implicito di limite umano e di immediata perduta memoria.

Nell'impresa di tradurre vi sono problemi che restano, purtroppo, senza soluzione, anche se molti possono essere facilmente risolti, come, nel «Testamento de otoño», di Estravagario, il neologismo con cui Neruda definisce se stesso «un hombre claro y confundido», «lluvioso y alegre, / enérgico y otoñabundo», termine, quest'ultimo, che può essere reso tranquillamente con autunnabondo, implicando autunnale ed errabondo.

Tutto fila liscio con la prosa, narrativa o saggistica, di autori contemporanei come Borges, Reyes, Zea, eccetera, ma quando si affronta la narrativa contemporanea, ad esempio di Icaza, di Vargas Llosa o di scrittori come Asturias, i problemi divengono notevoli. Come rendere i neologismi, le onomatopee, il vigore sostanziale di una pagina del Señor Presidente, o ancor più di Mulata de tal? Ogni traduzione finisce per tradire il vigore dell'originale. Si veda nella traduzione della Mancuso l'inizio del primo romanzo di Asturias, dove descrive l'ambito infernale in cui sono sottoposti a suplizio gli accattoni:

«Riluci, lume d'allume, lucente Lucifero della luce! Il rumore insistente delle campane del vespro restava nelle orecchie come un ronzio: dava fastidio quella luce che finiva nell'ombra, quell'ombra che finiva nella luce. Riluci, lume d'allume, lucente Lucifero della luce, riluci sul putridume! Riluci, lume d'allume, riluci sul putridume. Lucifero della luce! Riluci, riluci, lume d'allume... lume... lume... lume, lume d'allume...».



Altro vigore presenta l'originale:

«¡Alumbra, lumbre de alumbre, Luzbel de piedralumbre! Como zumbido de oídos persistía el rumor de las campanas a la oración, maldoblestar de la luz en la sombra, de la sombra en la luz. ¡Alumbra, lumbre de alumbre, sobre la podredumbre, Luzbel de piedralumbre! Alumbra, alumbra, lumbre de alumbre... alumbra... alumbra... alumbra, lumbre de alumbre... alumbra... alumbre...».



Brano che, forse, poteva essere reso con più efficacia se tradotto semplicemente, cercando per quanto possibile adeguate onomatopee, correndo anche il rischio di un neologismo come «maldoppiostare», sulla scia di quello di Asturias, e in modo da conservare il richiamo di fondo al suono delle campane che si va esaurendo:

«Illumina, luce d'allume, Lucifero di pietralume! Come ronzio d'orecchie persisteva il rumore delle campane all'orazione, maldoppiostare della luce nell'ombra, dell'ombra nella luce. Illumina, luce d'allume, sul putridume, Lucifero di pietralume! Illumina, illumina, luce d'allume... illumina... illumina... illumina. luce d'allume... illumina... illumina...».



Una della maggiori fatiche traduttorie relazionate con l'opera di Asturias fu affrontata da Cesco Vian con il romanzo Mulata de tal, lavoro gigantesco, perfetto nell'aderenza all'originale, ma in un italiano estremamente colto, che attenua, a mio parere, il vigore di un testo ricco d'invenzione linguistica, di neologismi e di onomatopee, problematico da riprodurre in altra lingua.

Come rendere con aderenza, ad esempio, la pagina in cui Celestino Yumí si presenta con la brachetta aperta nella chiesa di San Martín Chile Verde? O il «mujerío amapolado por el calor de la hora», il lusso barocco che Asturias profonde a piene mani nella sua prosa? L'impresa appare spaventosa per qualsiasi esperto dello spagnolo, e Vian lo è. D'altra parte, se non avesse affrontato l'improba fatica, pochi in Italia avrebbero avuto accesso a questo capolavoro.

Diverso è il caso di Uomini di mais. Valga il capitolo intitolato al «Coronel Chalo Godoy», che il Vian rende con efficacia anche nel passo più difficile, quello della tempesta che scuote le piante nel tratto attraversato dall'ufficiale e dal suo aiutante, essenzialmente fondato sull'onomatopea.

Io affrontai solo una volta la fatica di tradurre un testo narrativo di Asturias, Week-end en Guatemala, e mi riproposi di non più farlo, ed era certo più facile di Mulata de tal. La poesia era cosa diversa, e fu agevole renderla in Parla il Gran Lengua.




9

Problema fondamentale nel tradurre è, naturalmente, comprendere il testo e quindi renderlo fedelmente nella traduzione. Se osserviamo, ad esempio, le traduzioni del Petrarca realizzate da Enrique Garcés nei Sonetos y Canciones -libro pubblicato a Madrid nel 1591 e ancora circolante nelle numerose ristampe-, mentre possiamo lodare l'impresa in quanto prima traduzione del nostro poeta al castigliano, è lecito sottolineare come non sempre l'esito sia stato felice. Si consideri, ad esempio il sonetto che inizia con il verso «Solo et pensoso i più deserti campi...», che il Garcés traduce nel modo seguente:


    Con tardos pasos, solo voy midiendo
pensativo los campos más desiertos,
y los ojos contino llevo abiertos
por de humanos encuentros yr huyendo.
   Que otro medio no veo, ni aun entiendo
como pueda escapar de indicios ciertos,
porqu'en mis actos de alegría muertos
se lee, fuera, que voy dentro ardiendo.
   De tal modo que pienso, antes lo digo,
que no hay parte en el mundo que no tenga
de mi triste vivir noticia cierta.
   Y ahora poblada sea, hora desierta,
ninguna entiendo que hay donde no venga
de mis cosas tratando Amor conmigo.



Se non avessimo presente il testo originale italiano la traduzione sarebbe facilmente accettata; ma se facciamo un esame comparativo notiamo subito nella traduzione diversi scadimenti, ad iniziare già dal quarto verso della prima quartina, dove l'ampiezza e l'indeterminatezza del «vestigio human» petrarcheso è reso con banali «humanos encuentros»; nei primi due versi, poi, della seconda quartina «schermo» è ridotto a «medio», e generici sono gli «indicios ciertos»; ancor meno aderenti allo spirito del testo sono le due terzine del sonetto, che rivelano l'incapacità del traduttore di percepire e rendere la raffinata malinconia del Petrarca.

Ma esistono mancanze più gravi. Prendiamo ad esempio la traduzione italiana del Primero Sueño di Sor Juana Inés de la Cruz, realizzata da Insel Marty, poetessa rioplatense, non so se argentina o uruguiana. Anche qui è da lodare il fatto che sia la prima traduzione poetica del Sueño sorjuanino realizzata in Italia40, ma subito dopo vengono le riserve.

Anzitutto le dichiarazioni, nell'introduzione intitolata «Del traduttore», esplicative dell'approdare della traduttrice al testo di Sor Juana e alla sua decisione di renderlo in italiano, i criteri guida, le difficoltà incontrate e la domanda sul perché tradurre. La Marty dichiara di sentirsi, con la sua decisione, «un infiltrato, un abusivo, necessariamente un travestito» nell'ambito dei traduttori e rivela di essersi posta a tradurre perché non aveva altro da fare, come avviene con un amore a prima vista, aggiungendo che, se in questo lavoro apprese qualche cosa, fu intorno all'amore, non alla traduzione, ma che «potrebbero avere a che fare l'una con l'altro, visto che sempre di tradimento si tratta»41.

Dichiarazione curiosa, un «desparpajo» direbbero gli spagnoli, e poi bisogna aver chiaro che nel Primero Sueño la suora messicana non tratta in alcun modo d'amore. Ancora, la traduttrice afferma che tradurre è un esercizio di illusionismo, o meglio, di prospettiva illusionista, in quanto la relazione del traduttore si stabilisce con il testo-oggetto, non con il soggetto autore42.

Ma vediamo come traduce la Marty che, essendo sudamericana, tende a rendere difficili momenti di facile comprensione e resa. Benché la traduzione sia suscettibile di molti miglioramenti, mi limito a qualche fraintendimento identificabile nel seguente passo dove la suora descrive il sonno universale, versi 98-107:


   En los del monte senos escondidos
cóncavos de peñascos mal formados
-de su aspereza menos defendidos
que de su obscuridad asegurados-,
cuya mansión sombría
ser puede noche en la mitad del día,
incógnita aún al cierto
montaraz pie del cazador experto
-depuesta la fiereza
de unos y de otros el temor depuesto-
yacía el vulgo bruto,
a la Naturaleza
el de su potestad pagando impuesto,
universal tributo;
[...]



La traduzione italiana è la seguente:


   Nei seni del monte nascosti,
nei cavi di rocce disformi,
dall'asprezza resi sicuri,
la cui ombrosa dimora notte fece
a mezzo il giorno
e incerta al piede certo
del montanaro cacciatore esperto,
-deposta la cruda forza
gli uni, gli altri il timor deposto-,
giaceva il volgo bruto
pagando alla Natura
l'universal tributo
dal suo potere imposto;
[...]



Orbene, appare chiara l'infedele e pesante traduzione dei versi 99-100: la traduzione di sombría del verso 101, con «ombrosa», quando significa «cupa»; l'applicazione, nel verso 106 della traduzione, di montaraz a «cacciatore», quando l'originale lo applica al piede; la cacofonia bruttissima, nel verso 105 della versione italiana data da «incerta» e «certo»; la traduzione di fiereza, del verso 105 del testo, con «cruda forza».

Bene, invece, si muove l'équipe che sotto la guida di Angelo Morino realizza nel 1995 una nuova traduzione del Primero Sueño43, almeno nel passo citato, che così è reso:


   Nei seni più reconditi del monte,
concavi di macigni mal formati
-meno difesi dalla loro asprezza
che dall'oscurità resi sicuri-,
il cui ombroso soggiorno
essere notte può a metà del giorno,
ignoto alla sicura
selvaggia orma del destro cacciatore
-deposta la fierezza
gli uni, e gli altri deposta la paura-,
giaceva il volgo bruto,
alla forte natura
l'imposto dal potere suo pagando,
generale tributo;
[...]



Il neo semmai sta nel richiamo in nota a «volgo bruto», dove si spiega che si tratta degli animali quadrupedi; è vero che «bruto» in spagnolo significa anche quadrupede, ma un buon dizionario pone, tra i vari significati, quello che certamente intendeva la suora: «animal irracional», ossia tutti gli animali. Si tratta di una quisquiglia, certamente. Molto più gravi sono gli arbitri presenti nelle varie altre traduzioni di poesie di Sor Juana, dovuti all'ossessione della rima.

Senza preoccupazioni di rima Roberto Paoli ci aveva offerto nel 1983 efficaci versioni di liriche di Suor Juana. Possiamo cogliere la differenza in un rapido confronto con quelle presenti nel libro curato dal Morino. Prendiamo il famoso sonetto dove Juana Inés «Procura desmentir los elogios que a un retrato de la poetisa inscribió la verdad, que llaman pasión»:


   Este que ves, engaño colorido,
que del arte ostentando los primores,
con falsos silogismos de colores
es cauteloso engaño del sentido;
   éste, en quien la lisonja ha pretendido
excusar de los años los horrores,
y venciendo del tiempo los rigores
triunfar de la vejez y del olvido,
   es un vano artificio del cuidado,
es una flor al viento delicada,
es un resguardo inútil para el hado:
   es una necia diligencia errada,
es un afán caduco y, bien mirado,
es cadáver, es polvo, es sombra, es nada.



L'antologia del Morino presenta la seguente traduzione:


    Questo, che vedi, inganno colorito,
che dell'arte ostentando gli splendori,
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dai sensi percepito;
   questo, in cui la lusinga ha persistito
a sottrarre degli anni i grandi orrori,
e vincendo del tempo i bui rigori
trionfar su oblio e vecchiezza riverito:
   è un artificio vano ed accurato,
è un fiore esposto al vento più inclemente,
è un inutile scudo contro il fato,
   è una premura errata e inconsistente,
è un affanno caduco e, ben guardato,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.



La traduzione è in sé valida, ma qualche significativo scostamento dal testo la impoverisce, come «ha pretendido» tradotto con «ha persistito», quando significa «ha preteso», che include il senso di una operazione vana; inoltre non esistono né i «grandi orrori» e neppure i «bui rigori», che acquistano altro significato, né si comprende il quarto verso delle seconda quartina: «trionfar su oblio e vecchiezza riverito»; inoltre «accurato» non traduce cuidado, che significa «cura», «preoccupazione di evitare...», e nel secondo verso della prima terzina non esiste un «vento più inclememente», ma è il fiore che è al viento delicado; infine tradurre nella seconda terzina, primo verso «è una premura errata e inconsistente», svuota di significato il testo che pone es una necia diligencia errada, e per concludere, tradurre «nada» con «niente» attenua il valore della terrificante prospettiva del «nulla».

E allora, come avrebbe tradotto questo ipercritico censore? Avendo ben presente che ogni traduttore ha una sua sensibilità, legittima purché non commetta errori o, come afferma il citato Eco, non faccia dire cose diverse dal testo originale, tradurrei in questo modo, senza alcuna pretesa che la mia traduzione sia quella esemplare, ma solamente corrispondente alla mia sensibilità:


    Questo che vedi, inganno colorato,
che dell'arte ostentando gli splendori,
con falsi sillogismi di colori
è un astuto raggiro per i sensi;
   questo, in cui la lusinga ha preteso
d'evitare degli anni gli orrori,
e vincendo del tempo i rigori
trionfar di vecchiaia e dell'oblio,
   è un vano artificio della cura,
è un fiore al vento delicato,
è una difesa inutile dal fato:
   è una stolta astuzia errata,
è un vano affanno e, ben guardato,
è cadavere, è polvere, ombra, nulla.



Certo, manca la rima e quindi la musica che permea il sonetto nell'originale, ma perseguire la rima è in disuso e peraltro rischioso, in quanto può portare a deformare il significato del testo o a banalizzarlo. Peraltro, il significato di un testo può essere, se non falsato, risultare alquanto modificato anche quando non esiste necessità di rima, per fraintendimento o non perfetta conoscenza non solo della lingua.

Credo bastino questi esempi per rendere la difficoltà del tradurre. Molti altri se ne potrebbero addurre, ma non si farebbe che ribadire che, oltre alla conoscenza della lingua del testo e di quella in cui si traduce, è necessaria sensibilità nell'interpretazione, lasciando da parte ogni equilibrismo.







 
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