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ArribaAbajo Un filosofo alla corte di Bisanzio

Michele Psello, Imperatori di Bisanzio (Cronografia). Introduzione di Dario Del Corno, testo critico a cura di Salvatore Impellizzeri, commento di Ugo Criscuolo, traduzione di Silvia Ronchey. Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano, 1984, 2 vol.


Stefano Arduini


Universidad de Bolonia

Il nome di Bisanzio è spesso associato, in Occidente, a qualcosa di negativo: un che di oscuro, misterioso, una cultura sclerotica e contorta, un mondo chiuso che ha realizzato nella sua capitale un microcosmo perfetto. Non è da escludere che questa immagine sia dovuta ad una fondamentale ignoranza, e meglio ancora all’incomprensione di una civiltà che è ellenica e cristiana al tempo stesso, che ha inoltre ereditato e conservato, in una maniera che non è nemmeno concepibile per il medioevo barbarico, l’eredità di Roma come impero universale. In questa incomprensione v’è forse anche lo smarrimento ed il sospetto innanzi ad un impero millenario che in innumeri cambiamenti ha conservato il nucleo del suo essere, l’orgoglio della propria tradizione.

Credo che un lettore sensibile ed attento non possa far a meno di pensare queste cose leggendo un libro come quello che Michele Psello scriveva verso la metà del secolo XI «... ove si narrano i fatti degli imperatori Basilio e Costantino, che videro la luce nella Sala della porpora, Romano Argiro, loro successore, e dopo di lui Michele il Paflagone, e Michele suo nipote, che fu cesare e regnò dopo di lui, e quindi Donna Zoe e Donna Teodora, le due sorelle porfirogenite, e Costantino Monomaco, che ne condivise il trono, e Donna Teodora,   —468→   che regnò anche sola,... e dopo costui Isacco Comneno, sino alla proclamazione di Costantino Duca» (p. 7).

Michele Psello era nato a Costantinopoli, sotto l’imperatore Basilio II il Bulgaroctono, nel 1018 da famiglia piccolo-borghese ed era stato battezzato con il nome di Costantino, mutato in Michele durante la breve, e forse opportunistica, vita monacale. Dopo anni di studio e di tirocinio legale, lo ritroviamo, nel 1041, funzionario della cancelleria imperiale da dove inizierà la sua splendida carriera che lo porterà, già nel 1043, ad essere segretario personale dell’imperatore Costantino IX Monomaco. Uomo di una versalità straordinaria e al contempo di una profondità inusitata, sarà sulla scena di Bisanzio per circa un trentennio monopolizzandone, in certo senso, la vita culturale e politica. Le molteplici occupazioni politiche, letterarie, mondane, non gli impedirono tuttavia di dedicarsi al suoi studi prediletti e di farsi maestro fondando una delle scuole più famose non solo in Oriente ma anche in Occidente, cosa che gli meritò un ruolo principale, fu console dei filosofi, quando Costantino Monomaco decise la fondazione dell’Università di Costantinopli. Dopo la breve esperienza del convento, nel 1057, Michele viene richiamato a corte ad esercitare la sua abilità politica e diplomatica che lo condurrà a vivere da vicino le esperienze di altri tre imperatori e ad essere stretto collaboratore di Eudocia, la moglie di Costantino X, nei mesi in cui questa resse l’impero in nome dei figli. Con Michele VII Duca (ma la cronaca dei Duca risulta aggiunta in un secondo tempo, sotto lo stesso Michele VII, e lasciata incompiuta per la morte dell’autore) si conclude la Cronografia e poco sappiamo della vita di Psello dopo questo imperatore, sembra che avesse perso quella fortuna che lo aveva sempre accompagnato, morì probabilmente poco dopo l’incoronazione, nel 1078, di Niceforo III Botaniate.

Per questa straordinaria versatilità, per il suo essere uomo totale, la vita di Psello è emblematica del mondo bizantino, non a caso, non solo credo per una personale vanità, essa si intreccia alla narrazione storica presente nella Cronografia: «Psello dimostra una straordinaria capacità di trovarsi sempre, al momento giusto, dalla parte guista -scrive Dario Del Corno che ha introdotto la presente edizione-. La sua autorità a corte seppe sopravvivere a una decina di imperatori, lungo un periodo di trent’anni, ed egli contribuì in maniera determinate a farne e disfarne più d’uno» (p. XVIII). È la vita di un maestro di filosofia, di un erudito, di un politico, di un abilissimo retore, che riassume in sé la grandezza della cultura bizantina, anche per quel tanto di pedante, o al contrario, di spregiudicato che stupisce un moderno lettore. In Psello si mostra patente e si riassume il dissidio fondamentale di tutto il mondo bizantino: il contrasto fra la realtà complessa, che continuamente sfugge all’indagine dello studioso, e la cultura millenaria che tenta di interpretare quella realtà.

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Questo aspetto credo si rinvenga in un altro libro807 di recente pubblicazione in Italia che meriterebbe un discorso a parte ma che qui può essere utile per confermare quanto ora accennato. Scorrendo gli autori di questa antologia della letteratura bizantina, abbracciante più di mille anni, il dissidio fra la realtà che muta continuamente e la tradizione della cultura si fa evidente. E forse il motivo è proprio da ricercare in quei quattro elementi unificanti che i curatori (Umberto Albini ed Enrico Maltese) individuano nella civiltà bizantina. Motivi che tuttavia io riordinerei diversamente dando in primo luogo la precedenza al fatto che Bisanzio sa resistere agli attacchi che per secoli la circondano adoperando armi diverse, diplomazia, esercito, denaro, tradimento; «... per i bizantini qui è in gioco una qualità psicologica, incline a contemplare i propri strumenti logici e verbali fino a dimenticare l’oggetto e ovattarlo, quasi che solo la moltiplicazione dei percorsi mentali e linguistici potesse garantire la desiderata sicurezza esistenziale» (Albini-Maltese, p. XIII). In secondo luogo è importante ricordare la concezione teocratica del potere. L’imperatore è il 13.º apostolo ed in quanto tale, in quanto sacerdote, controlla, fin nei più minimi particolari, ogni attività quotidiana. Bisanzio è, in terzo luogo, il punto d’incontro di due culture, quella greca, utilizzata anche come struttura valida della fede cristiana, e quella ecumenica romana. Infine, a coronamente di tutto questo occorre ricordare «il privilegio accordato al segno. A Bisanzio la cosa indicata conta meno del gesto e del vocabolo che indicano, la ritualità si sovrappone all’atto decisivo e determinante e lo veste, lo abbellisce e al tempo stesso lo nasconde» (Albini-Maltese, p. XIII).

Psello vive tutto questo, sente l’intimo dissidio che ne deriva e per dominare la contraddizione che sussiste fra mondo dei segni e realtà, fra tradizione e presente contingenza, egli percorre tutte le contrade dello spirito umano. Tutta la filosofia, dagli ultimi interpreti fino ai primi filosofi, e poi ancora la teologia, la medicina, la musica, l’astronomia, financo gli studi misterici e le scienze occulte lo vedono accanito studioso ed interprete. Non si tratta, si badi bene, di semplice enciclopedismo; Psello percorre sia le tecniche base per la formazione filosofica, sia i livelli più alti del sapere, con la consapevolezza che tutto è legato, che il buon filosofo non può far altro che risalire i nodi della rete ormai immensa in cui si è configurato il sapere umano ed in questo modo tentare di porre ordine nella realtà, che la tradizione ha lasciato un patrimonio immenso da custodire ed interpretare, egli è ormai convinto che tutto sia stato detto ed occorra soprattutto ritornare alle fonti originali del sapere: «E se qualcuno -scrive Psello- volesse lodare la mía cultura... lo faccia perché, se qualche stilla di sapienza ebbi a raccogliere, io non la mendicai da fonte corrente, ma da quelle sorgenti ch’io trovai sigillate e che dissuggellai e purgai, con molto   —470→   affanno facendone scaturire quella vena d’acqua che correva nel profondo» (p. 289).

Questo programa non era certo fine a se stesso, non era in altri termini un programa soltanto libresco. Nel ripercorrere tutti i classici v’era anche un’educazione alla vita proprio nella misura in cui la vita, quella di un popolo come quella dell’imperatore, è parte della storia e la storia è cultura. E quando entrambe sono guidate dalla Provvidenza allora i classici entrano nel percorso necessario per giungere alle verità cristiane. «Contro gli ideali ascetici che negano all’uomo il diritto all’umanità, la filosofia esprime l’armoniosa integrazione dell’uomo nella realtà, dove la natura è l’intermediario fra la creatura e il creatore... Il bios theoretikos, la solitaria contemplazione fra i monti, è destino di pochi eletti; ma il cammino degli uomini corre soprattutto fra i propri simili» (Dal Corno, p. XXIII). In questo senso Psello ha una visione esemplare, egli scrive nell’Encomio per Costantino Lichudi: «Io preferisco trovarmi dalla parte degli uomini partecipi della sympatheia, e venire accusato di non avere raggiunto la perfezione nella sapienza, piuttosto che apparire insensibile e aysympathes nella mia natura». In questa affermazione occorre trovare il significato del diretto coinvolgimento di Psello nella vita politica del suo tempo, un impegno che al di là degli intrighi e delle abilità diplomatiche supera la semplice affermazione personale e diviene aperta adesione del filosofo al mondo degli uomini, un’adesione che in un altro ambiente e cultura realizzava il molto terenziano «Homo sum: humani nihil a me alienum puto». È per questo che la voce di Pselo ci giunge straordinariamente limpida attraverso nove secoli, perché quanto scrive, oltre a illuminarci su una cultura e su un mondo in gran parte sconosciuti, ci dice qualcosa, proprio quando parla di imperatori, cesari e generali, sull’uomo. Con questa rappresentazione, che dal singolo, dall’imperatore centro del mondo, si espande fino a toccare gli aspetti multiformi della vita umana, Michele Psello ci ha lasciato, del mondo bizantino, un quadro straordinario e il lettore moderno forse a volte intravvede, in quelle ombre che popolano la reggia, qualcosa di molto più vicino di quanto il tempo non lasci immaginare.