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ArribaAbajo- III -

I miti della memoria ne Los ríos profundos


I.- Dopo i racconti riuniti in Agua (1935) e i romanzi Yawar Fiesta (1941), Diamantes y pedernales (1954), José María Arguedas pubblica Los ríos profundos (1958)207. Con questo nuovo romanzo, che si può ritenere il punto d'arrivo di tutta la sua narrativa precedente, egli ci dà un'opera di grande rilievo, se non la più significativa.

II Perù aveva già dato alla letteratura del novecento, nell'ambito della corrente indianista, un grande narratore, Ciro Alegría. Los perros hambrientos (1935) e El mundo es ancho y ajeno (1941) sono in tal senso romanzi di valore insostituibile; e tuttavia l'indianismo di José María Arguedas rappresenta qualche cosa di estremamente nuovo e diverso. Col suo atteggiamento questo scrittore finisce per distinguersi nettamente dagli scrittori indianisti del passato, anche immediato, in una corrente che non solo in Perù ha dato frutti notevoli. Intendo alludere soprattutto all'equatoriano Jorge Icaza e, tra diversi suoi romanzi, a Huasipungo (1934), la cui nota straziante, amatissima, prende corpo in tragici mascheroni che permangono vivi e operanti sull'usura del tempo e il mutare delle correnti letterarie.

Nel Perù l'indianismo, di profonde radici e antecedenti illustri, da Mariátegui a García Prada, aveva trovato nei romanzi di Ciro Alegría una rivalutazione poetica delle qualità indie, che sfociava in una coraggiosa protesta contro l'emarginazione delle comunità indigene dalla società peruviana, dove l'oligarchia bianca monopolizzava il potere e l'economia, l'esercito e la chiesa.

Solo nel 1962 un altro scrittore peruviano, Mario Vargas Llosa, doveva richiamare l'attenzione della critica sulla narrativa locale, allorché ottenne il Premio Formentor con il romanzo La ciudad y los perros. Fu Vargas Llosa, più tardi, con l'autorità dello scrittore la cui fama aveva superato ampiamente le frontiere americane, a sostenere il valore dell'opera di Arguedas, il suo significato nella narrativa continentale. In realtà, forse soprattutto per il carattere schivo e introverso dell'Arguedas, la sua opera riuscì con difficoltà a varcare le frontiere nazionali, a imporsi in America, quindi anche in Europa208, dove, al contrario, sia Vargas Llosa che altri componenti della «nueva ola» ispano-americana -da Cortázar a Rulfo, da Sábato a Fuentes, a García Márquez-, avevano visto consacrata la loro fama.

Mario Vargas Llosa ha definito Los ríos profundos, prima dell'apparizione del successivo romanzo, Todas las sangres (1964), l'opera principale di Arguedas209, rilevando come essa inagurasse un tipo nuovo di indianismo, che si opponeva all'esotismo modernista e alla reazione indigenista successiva, per non parlare del «criollismo» e del «cholismo»; il vizio d'origine in tutti questi movimenti era la scarsa conoscenza della realtà, un nativismo intellettualistico ed emotivo, che non si fondava su una conoscenza diretta, intima della realtà india: «Se trataba de un indigenismo epidémico»210.

José María Arguedas, al contrario, a differenza degli indigenisti di professione, parlava dell'indio con una conoscenza diretta, che veniva dall'interno, dalle sue esperienze vitali, ancor più profonde di quelle di Ciro Alegría, che pure stavano a fondamento della sua opera211. Infatti, se l'Alegría aveva trascorso a contatto degli indios parte della sua infanzia, Arguedas era cresciuto praticamente indio tra gli indios, tanto che nel 1929, quando si recò a Lima per gli studi, non conosceva se non imperfettamente il castigliano e continuava a essere un «quechua»-parlante.

Julio Ortega ricorda212 che la decisione di José María Arguedas di divenire scrittore fu dovuta alla constatazione della povertà e della falsità della letteratura che trattava i temi indigeni; il primo problema fu per lui il linguaggio, cioè la necessità di rendere in spagnolo scritto le modulazioni del tutto diverse del «quechua», lingua esclusivamente orale.

Se non bastasse l'opera narrativa e scientifica, molte confessioni di Arguedas varrebbero ad attestare l'origine e le finalità del suo impegno di scrittore e di studioso. Nel prologo a Diamantes y pedernales/Agua213 si possono leggere passaggi significativi, tratti da un saggio che lo scrittore pubblicò sul numero 9 della rivista limegna «Mar del Sur»; essi illuminano intorno al problema dell'espressione, che si presentò ad Arguedas fin dai primi racconti di Agua. Per descrivere con fedeltà il mondo minimo in cui era vissuto Yo comía en la cocina con los lacayos y concertados indios, y durante varios meses fui huésped de una comunidad»214-, al quale si sentiva legato profondamente, e descriverlo in modo tale che il suo palpito non fosse più dimenticato, «que golpeara como un río en la conciencia del lector»215, il problema principale era proprio quello della lingua, che dapprima gli si presentava insolubile216.

Ciò che dominava Arguedas di fronte al mezzo espressivo era il richiamo della memoria, con tutte le implicazioni affettive, tanto che il primo racconto di Agua, scritto nello spagnolo più corretto, ed elogiato dagli amici cui lo lesse, lo lasciò del tutto insoddisfatto, cosciente di non aver saputo esprimere in modo aderente quanto avrebbe voluto, la realtà e l'essenza del mondo evocato. La pagina, infatti, gli appariva falsa, i personaggi, l'ambiente, il paesaggio senza forza, come qualche cosa di inventato e di «letterario». Ciò dipendeva dalla lingua, finché essa veniva usata nella forma tradizionalmente letteraria:

«[...] Bajo un falso lenguaje se mostraba un mundo como inventado, sin médula y sin sangre; un típico mundo literario, en que la palabra ha consumido a la obra. Mientras en la memoria, en mi interior, el verdadero tema seguía ardiendo, intocado. Volví a escribir el relato, y comprendí definitivamente que el castellano no me serviría si seguía empleándolo en la forma tradicional literaria»217.



Davanti al problema dell'universalità Arguedas individuava chiaramente il pericolo del regionalismo, «que contamina la obra y la cerca»218. Non appena il suo spirito si confondeva con il mondo che intendeva interpretare, il mondo «quechua», iniziava la ricerca di uno stile idoneo:

«Era necesario encontrar los sutiles desordenamientos que harían del castellano el molde justo, el instrumento adecuado. Y como se trataba de un hallazgo estético, él fue alcanzado como en los sueños, de manera imprecisa»219.



Una delle maggiori difficoltà consisteva nel linguaggio da far assumere ai protagonisti; conoscendoli dal di dentro José María Arguedas si rendeva conto dell'impossibilità di farli parlare in spagnolo -lingua che nella realtà non parlavano- e, nello stesso tempo, scrivendo per un mondo di lettori di lingua ispanica e volendo diffondere un determinato messaggio, non era possibile, né pensabile, tradurre in segni grafici correnti il «quechua». Di qui il ricorso a un castigliano speciale, in sostanza una traduzione, quanto più aderente possibile, della forma di esprimersi indigena220.

Il processo di ricerca espressiva domina l'attività di Arguedas per una ventina d'anni e conclude ne Los ríos profundos, o meglio, ha un risultato definitivo in questo romanzo, perché in realtà lo scrittore non fu mai completamente soddisfatto dei risultati raggiunti. Tuttavia egli stesso, mentre stava scrivendo il libro, riteneva concluso il processo221, consistito nel creare per i personaggi andini un linguaggio che si fondava sulle parole castigliane incorporate al «quechua», sul castigliane elementare cui alcuni riuscivano a pervenire nei loro villaggi, e sul «desgarramiento»222 delle parole «quechuas», senza far perdere ad esse la luminosità, la tensione, la vita che recavano. Il castigliano diviene, quindi, per Arguedas, un mezzo di espressione «legíttima»223 del mondo peruviano delle Ande, ma fuori d'ogni falso regionalismo e d'ogni vuoto estetismo. La lingua del narratore è tesa a rendere con fedeltà lo spirito del mondo andino sul piano artistico. In tale impresa egli perviene, ne Los ríos profundos, a una prosa che non ha nulla dell'esaltazione romantica, ma che ripete i sottili incanti del paesaggio andino, si carica di suggestivi momenti lirici provocati dall'esercizio della memoria.

Ha scritto l'Ortega che l'opera di Arguedas è una metafora verbale e che rendere per iscritto l'affettività espressiva, la calda vibrazione del «quechua», significa una rottura nella lingua spagnola, «una modificación en su tono, en su estructuración y también en sus valores expresivos»224. Nella pagina del narratore peruviano, in effetti, il tono dello spagnolo cambia sostanzialmente, al fine di tradurre le forme espressive della sensibilità indigena. Ne Los ríos profundos, lo scrittore non ricorre che a pochi espedienti, per così dire «esterni», a mezzi visuali, per rendere il clima geografico-spirituale del mondo che lo interessa. L'uso dei «quechuismi» è infatti ridotto, anche se non mancano intere frasi ed espressioni in «quechua», la più parte seguite da una traduzione, in nota o inserita immediatamente nel testo. A tale tipo di richiami visivi, ma con un significato di grande rilievo sul piano spirituale, appartiene la serie delle composizioni poetiche -huaynos, jarahuis, jaquillis e letras- che lo scrittore introduce nel romanzo, in testo bilingue a fronte, «quechua» e castigliano. Ma il tono della spagnolo di Arguedas viene in particolare dall'uso intensamente affettivo del diminutivo, dall'ellissi e dall'iperbato225, dalla rivoluzione operata nell'ordine consueto della sintassi, onde rendere quello in cui si esprimono i personaggi indigeni. L'impressione di sconnessione che sembra di poter cogliere, a prima vista, è in realtà apparente; il linguaggio di, Arguedas si trasforma in linguaggio di immagini, in espressionismo poetico e raggiunge un risultato plurivalente di sensazioni. Non a torto il Vargas Llosa ha scritto che quando gli indios di Arguedas parlano si esprimono anzitutto per sensazioni, dalle quali vengono i concetti226.

Tutta l'opera di José María Arguedas si svolge al segno di una rivendicata dignità e ricchezza spirituale del mondo indigeno peruviano, al quale permane legato indissolubilmente per tutta la vita. Trasferitosi a Lima egli non riuscì mai ad acclimatarsi veramente nel mondo castiglianizzato della capitale, anzi, non fece che accentuare la propria incapacità di inserimento. Le dichiarazioni di non «aculturado» che Arguedas fa significano molto più di quanto a prima vista potrebbe sembrare; non sono una giustificazione, né una manifestazione di falsa modestia, ma l'affermazione della validità che egli attribuisce alla sua formazione «quechua». Al momento di ricevere il premio «Inca Garcilaso de la Vega», nell'ottobre 1958, Arguedas -scrittore ormai di riconosciuto valore in Perù, professore all'Università Agraria di Lima, etnologo tra i più stimati-, dichiarava di accettare con gioia la distinzione onorifica, in quanto rappresentava il riconoscimento della sua opera di diffusione e di «contagio», nel mondo peruviano, di una cultura ingiustamente emarginata e, al tempo stesso, di assimilazione della cultura di matrice ispanica. Il suo mondo, tuttavia, permaneva sempre ben definito, in quanto ciò che ne guidava l'azione, come ne ispirava la creazione artistica, era sostanzialmente una cultura che lo aveva plasmato definitivamente, intorno alla quale intendeva abbattere le mura d'incomprensione che la isolavano. In questa impresa, egli confessa, lo orientarono il socialismo e la coscienza che il Perù era «una fuente infinita para la creación»227.

Nella sua missione -così possiamo definirla, perché in tal modo la intese-, Arguedas non era preoccupato dall'idea di affermare la ricchezza artistica del popolo «quechua», della quale tutto il Perù era testimonianza dal punto di vista soprattutto architettonico, ma di farne conoscere la ricchezza, la dimensione spirituale. A tale conoscenza lo scrittore contribuì su due piani di attività, la ricerca scientifica228 e la creazione artistica. Nella sua opera di narratore Arguedas manifesta la ricchezza interiore dell'indio, ne pone in risalto l'intima comunione con la natura, le facoltà d'intelligenza, di sensibilità, di poesia, sottolinea il suo diritto a far parte del mondo.

2.- Ne Los ríos profundos la dimensione indigena è data, più che dai personaggi indios -sempre in secondo piano, come sullo sfondo, o evocati vagamente dalla memoria-, dalla sensibilità del protagonista, un ragazzo di quattordici anni, cresciuto tra gli indigeni, trasferitosi poi, per gli studi, in un collegio di gesuiti, ad Abancay. Ernesto -è il nome del ragazzo-, appare fortemente caratterizzato da connotazioni autobiografiche del romanziere; egli è, infatti, un bianco indianizzato, come lo fu Arguedas, che della civiltà, della sensibilità indigena, ha assorbito tutte le dimensioni e le essenze, e ad essa permane legato. La nota autobiografica caratterizza l'indianismo de Los ríos profundos, che si manifesta in una inconsueta sensibilità e tensione spirituale nell'azione del protagonista e nelle reazioni che egli ha di fronte al mondo che gli è estraneo e che tale continuerà a rimanergli.

La struttura narrativa del romanzo è dominata dall'intervento continuo della memoria, che crea due piani diversi, i quali si sottolineano a vicenda: il piano della realtà, essenzialmente negativo, e quello del ricordo che, pur non privo di aspetti negativi, si presenta sostanzialmente positivo e risponde alla finalità di rivendicazione dei valori spirituali del mondo indio.

Il racconto si svolge in prima persona; i dialoghi sono quasi sempre riferiti dal protagonista; le opinioni dei personaggi, le reazioni dell'ambiente e degli altri protagonisti passano sempre attraverso la relazione di Ernesto. La narrazione in prima persona accentua il grado di credibilità del narratore-eroe, come ha sottolineato il Castro Klaren229, senza togliere vigore alla struttura romanzesca. Esiste un legame costante che mantiene unita la nota autobiografica a un ambiente del quale il protagonista è parte. Ma la credibilità si accentua alla luce delle molte confessioni rese da Arguedas, lungo tutto l'arco della sua vita e della sua opera, intorno alle proprie origini, alle vicende della prima fanciullezza e della gioventù.

Los ríos profundos ha per il lettore la suggestione di una confessione che tenda a porre in rilievo una vicenda umana non dimenticata né dimenticabile, una particolarissima nota spirituale che da tale vicenda si origina. Da una posizione costante di emarginato dall'ambiente in cui si trova a vivere, appunto per la sua formazione india, il protagonista vede le cose in una dimensione diversa da quella degli altri personaggi. La sua comunione con la natura, per la quale ogni cosa si anima magicamente, lo fa creatura strana per gli altri, un «loco», come lo definisce il Padre Director del collegio. La sua natura particolare, le facoltà d'intendimento -acuite rispetto a quelle degli altri esseri che lo circondano-, provengono dalla formazione india, dal mondo affettivo continuamente evocato.

Il tempo della narrazione segue il ritmo della realtà, ma è continuamente interrotto e trattenuto nel suo svolgimento dall'intervento della memoria. La menzione del vocabolo «memoria» appare con particolare frequenza nel testo. La realtà, i fatti attuali, gli oggetti, la musica, non sono, per il protagonista, che punti d'avvio del processo di ritorno, attraverso il ricordo, a un mondo che si presenta sotto le categorie mitiche del paradiso perduto. In tal senso le presenze incaiche del Cuzco parlano a Ernesto, quando col padre si reca in città per un vano tentativo di ottenere aiuti concreti da un parente ricco e avaro: «En la oscura calle, en el silencio, el muro parecía vivo; [...]»230 .

Le presenze indigene determinano il sorgere di un clima magico. Rivolto al padre il ragazzo afferma che le pietre parlano, ma il padre gli spiega che non è così, che esse si trasferiscono nella sua mente e da lì lo inquietano231. La dimensione dei protagonisti si fa misteriosa, acquista profondità, inconsuete vibrazioni spirituali. Ciò che inquieta il protagonista-eroe non è la materialità delle presenze del passato, ma ciò che queste presenze risuscitano in lui del mondo cui è legato. Il mito è già operante per effetto della memoria, che riversa sulle cose le proprie potenzialità emotive, trasformandole in simboli che dominano la vita dei personaggi. Ernesto afferma che ovunque egli vada, le pietre che «mando formar Inca Roca» lo accompagneranno232. Il clima è ben definito; come è definito il contrasto tra il mondo indigeno e quello castiglianizzato. Nella piazza della cattedrale del Cuzco gli alberi sono piccoli, non hanno potuto crescere, perché la grandezza della cattedrale li schiaccia; la presenza di un divino d'importazione opprime la libera germinazione della natura, vale a dire del mondo indigeno.

L'opposizione mondo indigeno-bene, mondo castiglianizzato-male è chiara; Arguedas rende il contrasto con mutamenti di tono considerevoli, ricorrendo a una selezione accurata di vocabolario, per interpretare la vibrazione spirituale del mondo indio. La cattedrale cresce abnorme e sproporzionata sullo sfondo di una mitica pampa «silente»:

«Era la más extensa de cuantas había visto. Los arcos aparecían en el confín de una silente pampa de las regiones heladas. ¡Si hubiera graznado allf un yanawiku, el pato que merodea en las aguadas de las pampas!»233.



La frase finale attesta l'adesione agli elementi più apparentemente insignificanti del mondo caro ad Arguedas -quindi al protagonista del romanzo-; essi assumono, proprio per il ricordo, un significato mitico. Il panorama dell'universo «quechua» acquista dimensione su un piano spirituale proprio per questa selezione di vocabolario. Le rovine del tempio di Acllahuasi e di Amaru Cancha presentano mura «serene» Eran serenos los muros de piedras perfectas»234-; il muro del palazzo dell'Inca Roca ha pietre in grado di ripetere la musica -«[...] si alguien hubiera cantado con hermosa voz, allí, las piedras habrían repetido con tono perfecto, idéntico, la música»235-; la campana della cattedrale, la María Angola, ha il potere di trasformare il mondo col suo suono La tierra debía convertirse en oro en ese instante; yo también, no sólo los muros y la ciudad, las torres, el atrio y las fachadas que había visto»236-; ma la musica ha anche il potere di esaltare il ricordo. Le note più intensamente autobiografiche scaturiscono dall'incontro del protagonista con il suono. La campana, suonando, ripropone vivo, e con valori esaltati, mitici, il mondo dell'infanzia, vissuto da Ernesto in una comunità india, e ne esalta anche il paesaggio spirituale:

«La voz de la campana resurgía. Y me pareció ver, frente a mí, la imagen de mis protectores, los alcaldes indios: don Maywa y don Víctor Pusa, rezando arrodillados delante de la fachada de la iglesia de adobes, blanqueada, de mi aldea, mientras la luz del crepúsculo no resplandecía sino cantaba. En los molles, las águilas, los wamanchas tan temidos por carnívoros, elevaban la cabeza»237.



Dalle dichiarazioni di Arguedas238 sappiamo che le persone e l'ambiente sono quelli della sua vicenda personale; essi appaiono nel libro ravvivati dalla distanza magica in cui opera la memoria.

La musica ha spesso una funzione liberatrice, legata all'avvio del ricordo. Nella cittadina di Abancay essa apre a Ernesto prospettive di segno positivo:

«[...] Esa música me recordaba la marcha de la banda militar; abriría delante de mis ojos una avenida feliz a lo desconocido, no a lo temible [...]»239.



Tuttavia, non di rado la musica introduce anche prospettive di tristezza e di dolore, sottolineando un'esperienza lontana che il ricordo restituisce viva -«[...] cuando mi padre me rescató y vagué con él en los pueblos, encontré que en todas partes la gente sufría»240-; ma ha anche il potere di riscattare dalla colpa e dal peccato. Nel cortile del collegio, dove si trova a vivere il protagonista, luogo in cui si scatenano i bassi istinti degli interni, la musica salva l'innocenza: «nosotros sentíamos que a través de la música el mundo se nos acercaba de nuevo, otra vez feliz [...]»241.

Tra gli elementi mitici rappresentanti un clima felice, che si trasforma, nel ricordo, in àncora di salvezza sull'incapacità di inserimento nel mondo da parte del protagonista, sta la figura del padre. In tutto il romanzo Ernesto non menziona la madre -come Arguedas, del resto, nei suoi riferimenti autobiografici-; il padre, avvocato vagante in cerca di lavoro, con i suoi occhi azzurri -il colore è sempre sottolineato nel libro, quale simbolo della purezza- è, in tutto il corso della vicenda, una presenza tutelare per il fanciullo. Con il padre Ernesto era partito come verso un'impresa di proporzioni straordinarie: «"¡Será para un bien eterno!", exclamó mi padre una tarde, en Pampas, donde estuvimos cercados por el odio»242; ma tutto è invece fallimento, tanto che il ragazzo deve restarsene nel collegio di Abancay. Nell'abbandono del collegio, mondo del peccato, il padre diviene un miraggio del bene, rappresenta la felicità cui Ernesto aspira e il suo ricordo è consolazione sulle amarezze della vita quotidiana. La condizione raminga accentua il carattere misterioso del genitore; il tempo favorisce il processo di trasformazione della memoria e il padre diviene per il protagonista il simbolo della salvezza. Al colmo della tristezza Ernesto vede nella sua presenza la fine di ogni esperienza negativa, la liberazione dal mondo del peccato:

«[...] el mundo nunca fue más triste; calcinado sin esperanza, hundido en mis entrañas como un helado duelo. "¡Dios mío! -iba elidiendo-, ¡haz que encuentre a mi padre en la puerta del Colegio!243.



È questa aspirazione, mai appagata Tenía la obsesión de que encontraría a mi padre en el pueblo»244-, a ingigantire la figura del padre, per Ernesto, a mano a mano che si vanno accentuando il suo isolamento, la solitudine, l'abbandono.

Nel mondo negativo in cui il ragazzo è venuto a vivere, il paesaggio di monti e di fiumi assume un significato mitico e sacro, che il ricordo, dalla lontananza, accentua. La leggenda dà un tocco di magia agli elementi naturali ai quali lo spirito del protagonista permane legato. Quando la musica apre le «porte della memoria»245, anche il paesaggio acquista vita, per magiche facoltà di trasformazione, insieme ai miti indigeni che ne sono l'anima. Se nei grandi laghi della sierra esistono campane che suonano a mezzanotte e tori di fuoco e d'oro che a tale suono triste salgono sulle vette a muggire246, i fiumi profondi che solcano la geografia delle Ande hanno poteri divini; come l'Apurimac, «Dios que habla», che trasforma nell'intimo i viandanti:

«El sonido del Apurímac alcanza las cumbres, difusamente, desde el abismo, como un rumor del espacio. [...] A medida que baja al fondo del valle, el recién llegado se siente transparente, como un cristal en que el mundo vibrara [...]»247.



Il canto delle «chicheras», ad Abancay, evoca anche esso paesaggi della memoria. Arguedas insinua continuamente nel libro le note di tale paesaggio, ricorrendo a enumerazioni ravvivate da un'aggettivazione che scopre la sua partecipazione diretta. Significativamente egli parla di un paesaggio «presentito», perché più che visto è sentito come risonanza interiore. Infatti, quando le donne cantano con voci «delgaditas», Ernesto percepisce un panorama diverso da quello che ha davanti:

«[...] otro paisaje presentíamos; el ruido de las hojas grandes, el brillo de las cascadas que saltan entre arbustos y flores blancas de cactus, la lluvia pesada y tranquila que gotea sobre los campos de caña; las quebradas en que arden las flores del pisonay llenas de hormigas rojas y de insectos voraces [...]»248.



Tra gli elementi che assumono valore mitico e magico, per l'intima relazione che hanno col mondo indigeno, sta il «zumbayllu», trottola rudimentale il cui suono ha il potere, per il protagonista, di evocare un paesaggio legato al sentimento, ravvivandone il ricordo:

«El canto del zumbayllu se internaba en el oído, avivaba en la memoria la imagen de los ríos, de los árboles negros que cuelgan en las paredes de los abismos [...]»249.



È un potere misterioso che neppure Ernesto sa spiegarsi, ma che rappresenta per lui, nel collegio, «una aparición en el mundo hostil»250, la fonte di una felicità «fresca y pura», che ne illumina la vita251.

I miti della memoria operano attivamente nel mondo ostile, proteggendo e isolando sempre più il protagonista dall'ambiente in cui, suo malgrado, è stato posto. Per Arguedas è questo un modo per affermare la validità permanente del clima dell'infanzia, al disopra del tempo e delle esperienze negative. Il resto è ostilità, e la conseguenza immediata è il ripudio da parte del protagonista-autore.

3.- Di fronte al mondo puro di radice indigena sottolineato così profondamente nelle sue categorie spirituali, elevato a simbolo dell'innocenza e della purezza, perché fondato sugli elementi immateriali della memoria -con brevi agganci a una geografia concreta che non ne turba il clima intimo, anzi lo accentua- sta il mondo negativo di segno ispanico, che Arguedas interpreta sovrapposto arbitrariamente al primo.

Fin dalle pagine iniziali del romanzo numerosi spiragli immettono in questa posizione discriminante. Il vecchio avaro, insensibile alle sofferenze di Ernesto e del padre, l'albero di «cedrón», che nel cortile della vecchia casa cresce con difficoltà, la presenza ostile della cattedrale del Cuzco, che opprime gli alberi della piazza, sono segni evidenti della negatività morale e dell'ostilità del mondo castiglianizzato. Il protagonista parla sempre di ambiente ostile e di sofferenza; il suo termine di paragone è costantemente l'inferno, perché la condizione della fauna umana con la quale è costretto a vivere è demoniaca.

Arguedas va abilmente disseminando il testo di frasi «broche», che spiccano nel testo e danno maggior consistenza al carattere ostile dell'ambiente, alle connotazioni luciferine dei personaggi negativi, e crea momenti di riflessione in cui si percepisce, anche attraverso una sola frase, la dimensione del disorientamento del protagonista di fronte al mondo che gli è estraneo, la problematica che ne accentua l'isolamento.

La città di Abancay, dove Ernesto giunge, ancora allo inizio dell'esperienza su cui è centrato il libro, è simbolo significativo di un mondo crudele, pesantemente reale, e come tale quasi fuori del tempo. Il padre di Ernesto fugge dalla città, non tanto perché non trova lavoro come avvocato, quanto perché essa rappresenta un universo chiuso e miserabile, costruito sulla «fealdad», sul silenzio, sulla povertà, sull'egoismo che la fa prigioniera:

«[...] toda la tierra pertenecía a las haciendas; la propia ciudad, Abancay, no podía crecer porque estaba rodeada por la hacienda Patibamba, y el patrón no vendía tierras a los pobres ni a los ricos [...]»252.



Arguedas si riferisce sempre all'impossibilità di crescere delle cose, ogni qualvolta intende esprimere una condanna degli elementi negativi e violenti del mondo castiglianizzato. Ci rendiamo conto del perché Abancay «desesperaba» il padre del protagonista e di come la sua partenza, sia pure nel dolore che implicava la separazione, fosse anche per il figlio un sollievo, nella prospettiva di un futuro diverso, senza dubbio felice. Prospettive in tal senso va inseguendo Ernesto con l'immaginazione; Arguedas rende la tensione del fanciullo verso tali prospettive ricorrendo insistentemente alla congettura.

La realtà si presenta, invece, opprimente; ma lo scrittore non perviene a note polemiche di condanna o di protesta. Il mondo chiuso del latifondista si condanna da sé, con l'evidenza dei fatti, soprattutto per l'isolamento ostile in cui si chiude. È come se nel mondo castiglianizzato coesistessero, l'uno opposto all'altro, unica nota comune la violenza, due universi incomunicanti. Se la città di Abancay è circondata dalle terre della tenuta Patibamba che le impediscono di svilupparsi, questa è a sua volta un mondo isolato e chiuso, in cui gli abitanti sono più intuiti che reali:

«El patrón y su familia vivían como perdidos en la inmensa villa. [...] siempre estaban silenciosos y vacíos el parque y los corrales [...]»253.



La solitudine e il silenzio qualificano negativamente, in questo caso, un ambiente cupo e temibile. Il mondo chiuso degli «hacendados» si rivela a Ernesto anche nel collegio, quando essi si recano a rendere visita al Padre Director, in atteggiamento orgoglioso: «Cruzaban el patio sin mirar a nadie»254. Il ragazzo osserva le cose da un angolo visuale privilegiato, quello della purezza dei sentimenti, fissandole nella memoria255, ma l'inventario che va facendo delle avarie del mondo provoca in lui una sofferenza diretta. La ferita, anzi, duole maggiormente, a mano a mano che egli coglie le dimensioni dell'inferno in cui vive, appena intravisto al momento della partenza del padre, allorché l'odio e la desolazione incominciavano a stordirlo256.

I simboli del male sono in ogni luogo nel mondo castiglianizzato di Abancay, ma soprattutto nel collegio. I latifondisti, gli «hacendados», i «mayordomos» crudeli che tengono sotto la loro frusta centinaia di indios incapaci di reazione, le autorità politiche, militari e religiose, in combutta contro gli umili, sono solo elementi di contorno, in sostanza, dell'inferno reale rappresentato dal cortile del collegio, microcosmo in cui, all'ombra complice degli «excusados», si succedono gli animaleschi accoppiamenti degli interni più grandi con una mentecatta, la Opa. Si tratta di un «espacio endemoniado» da cui emana un fetore opprimente, che finisce per infiltrarsi nel sonno degli allievi più piccoli257. L'inquietante e demoniaca presenza del sesso è resa da Arguedas ricorrendo alla menzione insistita degli odori, acri, ibridi, il «duro aire de los excusados»258. I ricordi del collegio sono dominati, nel protagonista, dalla presenza negativa del sesso privo d'amore. Più tardi Mario Vargas Llosa, ne La ciudad y los perros, centrerà anch'egli la vicenda dei suoi personaggi sulle esperienze di un collegio limegno, retto da militari invece che da preti. La realtà entra con note assai crude nel romanzo di Vargas Llosa, mentre Arguedas ottiene un risultato valido nella resa di una realtà inquietante senza calcare la mano sul «feísmo». Il collegio di Vargas Llosa presenta contorni concreti dell'ambiente della capitale peruviana e reca in sé una carica di denuncia e di critica che investe le forme politiche del paese, un modo d'educazione che presenta tutti gli aspetti negativi di ciò che è affidato allo esercito, senza che sia di sua competenza; un compito per il quale non ha alcuna idoneità. Il collegio de Los ríos profundos, mondo non meno concreto, offre una nota di più ampia universalità e sulla condanna dell'educazione gesuitica prende rilievo soprattutto quella di un mondo dominato dal peccato, dalla violenza, dalla tirannia degli istinti animali.

Pur senza mai attaccare apertamente gli uomini preposti al collegio, Arguedas fissa in modo preminente la sua attenzione, conduce la sua indagine, sul Padre Director. In lui il protagonista vede l'espressione di un universo negativo che provoca il suo isolamento mortale e lo separa sempre più dal mondo259. Sul «patio odiado, Valle doliente»260 del collegio, la figura dal prete si leva enigmatica. Il suo aspetto più immediato è quello di un uomo energico, dotato di inflessibile volontà. Diviso tra ripudio e attrazione Ernesto studia la natura del religioso, che gli si presenta sotto aspetti contraddittori. Con sorpresa egli lo vede cercar di convincere «arteramente» dona Felipa -che ha capeggiato la rivolta delle «chicheras» contro il monopolio del sale261-, poi minacciarla di maledizione, quindi predicare abile e suadente agli indios dell'«hacienda», per ricondurli alla consueta obbedienza al padrone. Nell'operato del prete Arguedas denuncia il tradimento della propria missione da parte della chiesa americana, ma senza interventi polemici o forzature di tinte. La dimensione del tradimento è resa soprattutto nelle reazioni del fanciullo, con la cui purezza si scontra la doppiezza del Padre Director. Per Ernesto ogni cosa sembra complicarsi, acuendo la visione negativa del mondo, accentuando un senso interiore di freddo e di tristezza:

«El mundo nunca fue más triste; calcinado, sin esperanza, hundido en mis entrañas como un helado sueño»262.



Davanti all'ipocrita condotta del prete verso gli indios ¡Lloren, lloren -gritó-, el mundo es una cuna de llantos para las pobrecitas criaturas, los indios de Patibamba!»263- la reazione di Ernesto è una sfida silenziosa. Questa sfida avviene, in sostanza, tra la purezza e il peccato. Per il protagonista il Padre Director finisce per assumere aspetti demoniaci e quando alla fine del romanzo questi sospetta che il ragazzo sia stato con la Opa, colpita dalla peste e sul punto di morire, Ernesto scopre nei suoi occhi accusatori l'inferno: «¡Padre! -le grité- ¡Tiene usted el infierno en los ojos!»264. Ciò gli conferma l'esistenza di quel luogo di perdizione e la ripulsa si manifesta nel terrore di esserne contagiato:

«El infierno existe. Allí estaba, castañeteando junto a mí, como un fuelle de herrero. [...]

-¡Padrecito! -le volví a gritar, sentándome- ¡Padrecito! No me pregunte. No me ensucie. Los ríos lo pueden arrastrar; están conmigo. ¡El Pachachaca puede venir!»265.



Di fronte ai mali del mondo l'innocenza del protagonista si rifugia nelle presente mitiche e sacrali del mondo indigeno. La realtà diviene allucinante nelle sue distorsioni. Arguedas condanna definitivamente il piccolo universo di Abancay e in esso il mondo peruviano castiglianizzato. La tensione di Ernesto è più che mai volta alla fuga da una realtà negativa per ricongiungersi al mondo in cui fu felice.

4.- Se l'avarìa del mondo si manifesta per gradi al giovane protagonista de Los ríos profundos, in realtà egli ne aveva percepito fin dal primo momento i segni premonitori; lungo il corso della sua esperienza questi segni vengono più volte confermati. È l'atmosfera greve di possibilità negative, non ancora del tutto concretatesi, a dare un clima particolare al libro, una tensione che avvince il lettore. Se l'esistenza dell'inferno si afferma attraverso l'operato del Padre Director e la torbida luce che emana dai suoi occhi Sus ojos se habían opacado. Una especie de turbia agua flameaba en ellos, mostrando su desconcierto, las ansias todavía no bien definidas que se iban formando en su alma»266-, in realtà essa è annunziata fin dall'inizio del romanzo e il vecchio avaro del Cuzco è già per il fanciullo una manifestazione demoniaca.

La dimensione e la portata dell'avarìa del mondo sono rese, tuttavia, soprattutto attraverso le intuizioni del protagonista; egli mostra di avere una sensibilità che gli permette di presentire ciò che altri non percepiscono, il peso del futuro gravido di minaccia; ciò sottolinea l'unicità del suo carattere, una sensibilità negata al mondo castiglianizzato e che procede da radici indigene. Allorché l'esercito interviene ad Abancay per riportare l'ordine, turbato dalla rivolta delle «chicheras» guidate da doña Felipa, presentimenti di rovina assalgono Ernesto. La parola «escarmiento» è legata indissolubilmente alla presenza delle truppe, ed è parola antica e raggelante che ha lontane radici nell'esperienza del ragazzo, fin dalla prima infanzia267. Per Ernesto-Arguedas l'esercito è un simbolo del male, rappresenta una delle grandi piaghe dell'umanità e la sua comparsa è il segno che la maledizione biblica sta per compiersi. Mentre il Padre Director inneggia alle truppe vedendo in esse il mezzo con cui ristabilire l'ordine turbato, Ernesto ne coglie invece la portata malefica:

«Algún mal grande se había desencadenado para el internado y para Abancay; se cumplía quizá un presagio antiguo, o habían rozado sobre el pequeño espacio de la hacienda Patibamba que la ciudad ocupaba, los últimos mantos de luz débil y pestilente del cometa que apareció en el cielo, hacía sólo veinte años»268.



I fenomeni celesti, come l'apparizione della cometa, incidono fortemente, in senso negativo, sull'animo popolare. Tuttavia, contrastando con i presentimenti negativi, esistono anche segni della salvezza. Nella riconciliazione con l'«Hermano» del collegio, offeso da un interno, Ernesto crede di intravvedere una possibilità positiva in mezzo a tanti «presagios funestos». La tensione di un clima sospeso tra il reale e l'irreale è acuita dagli interventi profetici del protagonista:

«Ya no morirá nadie -pensaba yo-. Caerá una lluvia fresca sobre los campos. La tropa entrará, quizá tocando cornetas, a caballo»269.



La pioggia fresca ha il potere di cancellare il male. Lo esercito è, comunque, presenza terribile e misteriosa. Arguedas lo presenta con le connotazioni terrificanti di un animale mitologico e sanguinario. La ferocia di soldati e di sergenti è resa attraverso il racconto deformante di uno dei protagonisti del romanzo, Palacitos:

«Dicen que como un perro, en la guerra, los soldados, por la rabia, hasta lamen la sangre; que se levantan después, como un degollador, manchados hasta la quijada, hasta el pecho, con la sangre, y avanzan gritando; ni el trueno, ni el condenado asusta como ésos, dicen»270.



La conseguenza di questa visione è per Ernesto il ripudio della guerra, intesa come maledizione del genere umano, in cui i morti sono piuttosto parto dell'inferno che corpi degni di compianto, tanto che anche gli avvoltoi manifestano ribrezzo nei loro riguardi271.

La sovrapposizione innaturale dell'esercito al mondo peruviano è resa da Arguedas attraverso le impressioni di Ernesto; l'esercito è un mostro sospeso tra irrealtà e realtà: le uniformi dei soldati sembrano costumi di una gran «comparsa», mentre i fucili e le baionette, col loro significato di morte, richiamano una dura realtà. Il distacco del mondo militare da quello, per così dire, «umano», dei civili, è rappresentato dalla natura indecifrabile ed enigmatica che lo caratterizza:

«¿Qué densa veta del mundo representaban? ¿En qué momento iban a iniciar su danza, durante la cual quizá pudiéramos reconocerlos, comunicarnos con ellos?»272.



La realtà è una sola, quella denunciata da Palacitos alla domanda di Ernesto: «¿Para qué sirven los militares?», «Para matar, pues»273.

Nel romanzo, tuttavia, il flagello della repressione militare non si scatena; rimane sempre sospeso, incombe terrificante, ma i soldati si limitano alla persecuzione di doña Felipa. Ben altro flagello si abbatte improvvisamente su Abancay, la peste. La maledizione biblica si compie sulla città e sui suoi abitanti. Arguedas manifesta il terrore della nuova calamità nell'avanzare concentrico della notizia, nella risonanza che essa ha sul protagonista di fronte all'indifferenza della natura:

«"¡Está pasando la fiebre!" La noticia resonaba en toda la materia de que estoy hecho [...].

Algunos comuneros que conservaban la esperanza, quemaban el pasto y los arbustos en la cima de los cerros. De día, la sombra del humo nos adormecía; en la noche, la luz de los incendios descendía a lo profundo de nuestro corazón. Veíamos con desconcierto que los grandes eucaliptos no cayeran también en la peste, que dentro del barro sobrevivieran retorciéndose los lombrices»274.



Il mondo del collegio, come del resto avviene per quello della città, si svuota gradualmente di presenze umane. Il Lleras, un interno peccatore, simbolo della tirannia del sesso, quindi del male, si consuma nel fango275. Nella fuga generale Ernesto rimane unico interno del collegio; privo di famiglia non sa dove rifugiarsi e il male pur terribile della peste diviene per lui cosa secondaria. Egli presenzia, così, allo sgretolamento del mondo peccaminoso; nella sua distruzione Ernesto vede i segni della giustizia divina. La peste acquista, perciò, ai suoi occhi, un significato liberatore, la funzione determinante di restauratrice della purezza. La morte non è più una realtà temibile, ma qualcosa su cui il ragazzo fonda la restaurazione del' mondo congeniale, vittorioso di quello castiglianizzato, e al quale anela ricongiungersi definitivamente.

Nelle ultime pagine del romanzo Arguedas insiste sullo spettacolo di morte e per la prima volta interviene direttamente per spiegare l'attrazione che proprio la morte esercita sulla sua gente. Se pensiamo ai vari tentativi di suicidio dello scrittore, e alla sua fine, il brano diviene rivelatore di un atteggiamento particolarmente sincero. Scrive, infatti, Arguedas:

«Les gusta hablar mucho de la muerte, a indios y mestizos; también a nosotros. Pero oyendo hablar en quechua de ella, se abraza casi, como a un fantoche de algodón, a la muerte, o como a una sombra helada que a uno lo oprimiera en el pecho, rozando el corazón, sobresaltándolo; a pesar de que llega como una hoja de lirio suavísima, o de nieve, de la nieve de las cumbres, donde la vida ya no existe»276.



La complessità spirituale di Ernesto è la stessa, non v'è dubbio, di Arguedas. Quando il Padre Director afferma «Tú deseas la muerte, extraña criatura [...]»277, la creatura strana è lo scrittore che, come il suo personaggio principale, percepisce acutamente le disuguaglianze della terra su cui vive278.

Tra i segni della fine e del male si insinuano, come s'è detto, quelli della salvezza. Sono segni immateriali che vanno dalla musica alla trasformazione in simboli delle persone. La musica filtra costantemente le esperienze del protagonista, ne muove i sentimenti, ne accompagna la azione, dà concretezza al clima della memoria, in una valenza spirituale. Nella polemica che vide Cortázar opporsi, ingenerosamente, a Arguedas poco tempo prima della sua morte, lo scrittore argentino lo accusò di essere uno di quei provinciali «de obediencia folklórica» per i quali «las músicas de este mundo empiezan y terminan en las cinco notas de una quena»279. Nulla di più ingiusto; Los ríos profundos ne è la prova, nella profonda interpretazione dei ritmi indigeni, che esprimono una sottile spiritualità, non puro folklore. La musica è il canto operano sempre nel romanzo il miracolo di riscattare dalla materia e dal peccato, di ricostruire un'armonia perduta, fortificando, nel caso concreto, il protagonista nella sua vicenda terrena. La musica è una «materia» di cui Ernesto-Arguedas si sentono fatti280. Le qualità di finissimo intenditore dello scrittore peruviano sono attestate dalla pagina esemplare in cui «descrive» la musica della banda militare sulla piazza di Abancay281. La sinfonia si leva, nelle sue parole, a gareggiare con la meraviglia della natura, in tutte le note più delicate. I richiami del mondo della memoria, ostinatamente vivo e operante, si manifestano in messaggi di una spiritualità che nulla ha potuto distruggere. A quest'ordine di richiami appartiene anche la comparsa improvvisa del Kimichu, un suonatore indigeno la cui musica dà al protagonista l'impressione che il passato risorga dalla memoria. Al suono dell'arpa e al canto dell'accompagnatore del musico, il mondo ostile sembra trasformarsi, restituendo a Ernesto lo spirito di un altro universo, quello indigeno:

«[...] El arpa dulcificaba la canción, no tenía en ella la acerada tristeza que en la voz del hombre. ¿Por qué, en los ríos profundos, en estos abismos de rocas, de arbustos y sol, el tono de las canciones era dulce, siendo bravío el torrente poderoso de las aguas, teniendo los precipicios ese semblante aterrador? Quizá porque en esas rocas, flores pequeñas, tiernísimas, juegan con el aire, y porque la corriente aterradora del gran río va entre flores y enredaderas donde los pájaros son alegres y dichosos, más que en ninguna otra región del mundo»282.



Il paradiso perduto si ricostruisce evocato dalla musica. Ernesto ricupera in tal modo la forza necessaria a vivere nel mondo che gli è estraneo: «Yo me sentía mejor dispuesto a luchar contra el demonio mientras escuchaba este canto»283.

Tra le presenze fortificanti che si offrono come messaggi di un mondo buono, diverso da quello castiglianizzato, stanno gli «inmortales y tiernos» occhi azzurri della donna che accoglie Ernesto a Patibamba, quando il ragazzo vi si reca al seguito delle «chicheras» ribelli284. È una breve presenza nel romanzo, ma significativa; come lo è quella di doña Felipa: ribelle e in fuga davanti ai soldati, che mai la raggiungeranno, essa rappresenta il riscatto da una condizione di sopruso sofferta dai più apaticamente. La statura della «chichera» ingigantisce, perciò, nella fantasia di Ernesto, sulla generale acquiescenza; congetturando intorno alla sua fine il personaggio acquista le dimensioni del mito.

Anche la Opa, vittima innocente della violenza degli interni del collegio, acquista il significato di un segno della salvezza; essa rappresenta, nel mondo avariato nel quale vive miserabilmente e dal quale si riscatta con la morte, la purezza della sofferenza. La donna diviene per Ernesto un nume protettore; entrambi vivono in un mondo ostile e si sentono uniti; persino la morte della Opa acquista per il ragazzo il significato di un segno della salvezza: egli scamperà al contagio perché la donna ha pagato alla peste anche per lui il suo tributo.

Anche l'oro assume un significato nuovo ne Los ríos profundos, distante da quello negativo corrente. Le «libras de oro» che Ernesto riceve in regalo dall'indio Palacitos, quando questi lascia il collegio, divengono, infatti, simbolo della salvezza, in quanto «hallazgo encontrado por el ser humano entre las rocas profundas o la arena de los ríos»285. Si aprono, così, magicamente per il ragazzo due vie verso la liberazione, l'incontro col padre o la morte:

«[...] las monedas de oro que me harían llegar a cualquiera de los cielos: mi padre o los que dicen que esperan en la otra tierra a los que han sufrido»286.



La sconfitta finale del mondo negativo sta già nell'imbarazzo del Padre Director di fronte all'innocenza di Ernesto. Il prete rappresenta per il giovane un mondo carico di secoli di sospetto, di timore, di sete di castigo287; egli percepisce che davanti alla sua purezza il gesuita non solo non riesce ad attingerla, ma inevitabilmente si smarrisce:

«Me clavaba los ojos a lo profundo, y se perdía, cada vez más, como todo aquel que intenta encontrar en lo infinito indicios extraños, premeditados por su propia turbación, por los falsos pensamientos»288.



È ancora una volta l'affermazione della sanità morale del mondo indigeno, la prevalenza di quella realtà «interiore» individuata dal Vargas Llosa, «donde el elemento religioso despliega sus sutiles y eficaces poderes»289.

Perché non resti traccia del peccato, al momento di lasciare definitivamente il collegio, Ernesto, in un gesto simbolico, strappa i fiori gialli che crescono rigogliosi in un angolo dell'«excusado»: essi presenziarono gli atti del male, gli accoppiamenti tra gli interni e la Opa. È un modo per affermare il trionfo della purezza. La peste, più che un segno della fine è stata, in realtà, un segno della salvezza. Il protagonista sembra essersi salvato dal contagio, quindi dalla morte, proprio per la sua condizione spirituale che, mentre gli fa percepire l'avaria del mondo castiglianizzato, lo isola da esso e lo preserva. La sua partenza da Abancay è la liberazione definitiva dagli attacchi del peccato. Il «carillon» dell'orologio che lo sveglia all'ora di partire inaugura prospettive felici, una «avenida feliz e lo desconocido, no a lo terrible»290 .

La vittoria del mondo indigeno è la vittoria dello spirito sulla materia, sul micro-inferno rappresentato da Abancay. Mentre Ernesto congettura intorno al personaggio terrificante della peste che lo ha risparmiato -«El río la llevaría a la Gran Selva, país de los muertos ¡Como el Lleras!»291-, il clima della memoria configura definitivamente una realtà purificata, spiritualizzata e restituita a una dimensione mitica. La superiorità del mondo indigeno su quello castiglianizzato è dimostrata dalla sua permanenza sulla distruzione del secondo.

L'indianismo di José María Arguedas presenta un'evidente originalità di accenti che lo distingue nettamente dalla corrente tradizionale. Proiettata su un piano intimo, religioso, la sua denuncia è certamente più efficace di una accesa condanna. Ne Los ríos profundos egli ha trovato una formula nuova per attestare la sua diretta partecipazione al dramma della sua gente, che è poi il suo dramma. Come Arguedas, Ernesto non trova modo di inserirsi nella realtà di un mondo che gli è estraneo, perché disarmonico, roso dalle ingiustizie, tormentato dal peccato, lontano dall'ordine naturale che invece persiste nel mondo indigeno. Esattamente Mario Vargas Llosa ha affermato292 che se è lecito esigere da uno scrittore che parli delle Ande di render conto dell'ingiustizia su cui in quelle regioni si fonda la vita, non lo è esigere che lo faccia in un'unica maniera. È questa novità che fa de Los ríos profundos un romanzo diverso, che impone la sua originalità nell'ambito della narrativa ispano-americana più moderna293.



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