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Il mondo allucinante: da Asturias a García Márquez studi sul romanzo ispano-americano della dittatura

Giuseppe Bellini



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ArribaAbajo- I -

L'America come problema


Nella letteratura ispano-americana la situazione economico-politica e sociale, la condizione umana, in definitiva, del continente, è stata sempre oggetto di indagine appassionata, continua fonte di una problematica che non ha cessato di darle vita e attualità1. Proprio nella preoccupazione politica numerosi critici hanno sottolineato l'esistenza di una costante, relativamente ai secoli XIX e XX, ossia, secondo l'espressione di Ricardo Navas Ruiz, la presenza di un interesse «positivo e centrale» per avvenimenti di significato politico: «una guerra que cambia el destino de un pueblo, una revolución, una forma de gobierno»2. Sta a dimostrarlo, nella narrativa, la fioritura di opere seguita alla rivoluzione messicana3, alla guerra del Chaco4, all'insediamento statunitense nella zona del Canaie di Panama5 e, ultima in ordine di tempo, la serie di romanzi cui ha dato origine la rivoluzione castrista. Il tema della dittatura, poi, è divenuto motivo d'obbligo per gran parte degli scrittori che guardano all'America come problema.

Le radici della preoccupazione politica ispano-americana, tema che qui interessa, affondano nel passato più remoto. L'Inca Garcilaso de la Vega era già, secondo l'esatta interpretazione di Miguel Ángel Asturias6, uno scrittore impegnato, anche se incapace di risolvere definitivamente il conflitto che lo teneva spiritualmente sospeso tra il mondo paterno e quello della madre. Né meno impegnato con la realtà americana era Juan del Valle y Caviedes, stigma tizzatore ardito dell'avaria del mondo peruviano del secolo XVII. La stessa Juana Inés de la Cruz può essere interpretata come una contestatrice del sistema nel Messico secentesco, agli albori dei «lumi». In epoche successive altri scrittori diedero il loro contributo all'interpretazione e alla denuncia della realtà americana, da Narino a Santa Cruz y Espejo, a Mutis, a fra Servando Teresa de Mier, agli innumerevoli che, pur senza aver dato opere delle quali la storia letteraria possa tener soverchio conto, costituirono il fermento vitale dal quale trasse linfa l'indipendenza americana.

È fuor di dubbio, tuttavia, che il secolo XIX, agli inizi delle nazionalità ispano-americane, fu momento di particolare importanza, nella creazione letteraria, non meno che nell'azione, per l'espressione di una preoccupazione americana. In questo senso il messicano Lizardi è scrittore decisamente impegnato con la realtà del suo paese, come, in diversa dimensione, lo sono José Martí ed Heredia per quanto riguarda Cuba, lo stesso Olmedo allorché celebra, nell'«Oda a Bolívar», la raggiunta libertà e, più tardi, quando nell'ode al generale Flores denuncia drammaticamente le lotte fratricide che nell'Ecuador insidiavano i risultati della guerra di liberazione. Olmedo era ben lungi dal sospettare, allora, che proprio il Flores sarebbe divenuto uno dei peggiori tiranni d'America.

La libertà appena raggiunta è presto in pericolo. L'Ottocento risuona ancora delle invettive di Juan Montalvo contro i dittatori equatoriani Gabriel García Moreno e Ignacio Veintemilla; e ancora muove a raccapriccio il ricordo del Dottor Francia, tiranno del Paraguay. Ma la figura simbolo della dittatura nell'America del secolo XIX è Manuel de Rosas, che insidia l'indipendenza argentina da poco conquistata. Contro il personaggio sanguinario si leva il gruppo dei «Proscritti»: in un breve romanzo, El Matadero (1838), Esteban Echeverria fissa per sempre nel tempo un'ora tragica della nazione argentina, in una dura protesta contro la dittatura; in Amalia (1851-1855) José Mármol amplia, nonostante i non sempre raggiunti esiti artistici, il quadro impressionante delle «fechorías» di Rosas, mentre in Facundo (1845) Domingo Faustino Sarmiento insiste sull'insanabile conflitto tra civiltà e barbarie, tra libertà e dittatura, dando alle generazioni successive un libro-simbolo di valore permanente.

Con Sarmiento il personaggio del despota incomincia ad avere consistenza propria nella letteratura ispano-americana. La figura del tiranno diviene protagonista «de cuerpo entero», e nella traiettoria che conduce al Novecento rappresenta una concrezione significativa. Sarmiento, e come lui gli scrittori del secolo XX, non presentano al lettore solamente l'ambiente di violenza e di corruzione che caratterizza la dittatura, ma la natura barbara di colui che è all'origine di ogni violenza e di ogni corruzione, senza peraltro disconoscere il fascino istintivo, l'attrazione che l'uomo «forte» esercita sulle sue stesse vittime.

Il tema della dittatura serpeggia un po' dovunque nella narrativa ispano-americana del Novecento, più attenta ai problemi del continente. Numerosi romanzi denunciano una situazione inquietante, generalizzatasi ampiamente negli anni successivi alla prima guerra mondiale, e ripresentatasi in forme non meno drammatiche dopo la breve parentesi democratica seguita alla fine della seconda guerra che coinvolse gran parte del mondo. L'America finisce per assurgere a simbolo di un sistema negativo di governo, e in tal senso diviene tema interessante anche per romanzieri non americani. È il caso di Conrad, il quale nel 1904 pubblica, sul tema della dittatura, Nostromo, di Francis de Miomandre, che dà alle stampe nel 1926 Le dictadeur. Nello stesso anno Ramón María del Valle-Inclán pubblica Tirano Banderas. Ognuno di questi scrittori tenta una sintesi convincente dell'America di matrice ispanica sotto regime dittatoriale, cercando di dar vita a quella «república comprensiva de Hispanoamérica» cui allude il Menton7 Solo nel 1946 apparirà la più genuina e sofferta interpretazione americana del dramma, El Señor Presidente, di Miguel Ángel Asturias. Lo seguirà El Reino de este Mundo, che Alejo Carpentier pubblica nel 1949, libro di grande interesse per il nostro tema, anche se si riferisce a una realtà per così dire «remota», quella haitiana dei tempi di Henri Christophe.

Altri scrittori, tuttavia, avevano preceduto Asturias e Carpentier nel tema. Basterà citare il venezolano Rufino Bianco Fombona, il quale già all'inizio del Novecento aveva dato voce alla protesta politica in romanzi come El hombre de hierro (1907), Judas Capitolino (1912), El hombre de oro (1917), La bella y la bestia (1927). Nel 1929 il messicano Martín Luis Guzmán pubblica La sombra del Caudillo, libro per molti aspetti fondamentale intorno a un fenomeno che attiene soprattutto al Messico rivoluzionario. Vengono quindi i romanzi di Jorge Icaza, di Ciro Alegría, di Alfredo Pareja Díez Canseco, di Demetrio Aguilera Malta, di Rómulo Gallegos..., nei quali il tema della dittatura è d'obbligo. Frequentemente il «caudillaje», il dispotismo, costituiscono lo sfondo del romanzo, senza che il dittatore compaia in primo piano; ma già in Canal-Zone, che Aguilera-Malta pubblica nel 1935, dura denuncia della realtà panamense degli inizi del Novecento, appare un tipo di dittatore, subdolo e abile, dotato di ascendente istintivo sulla massa. Miguel Ángel Asturias ha scritto che in molti paesi centro-americani, di profonde radici mitiche, l'ascendente «brujo» del dittatore sul popolo, nonostante l'opera malefica, dimostra la permanenza della suggestione del mito. Il protagonista di Canal-Zone lo conferma8 .

Altri narratori insistono sul servilismo che circonda il potente, sulla natura «taimada» del despota o sulla parte grottesca che egli rappresenta. Nel 1939 Ciro Alegría denuncia, ne Los perros hambrientos, la retorica dell'opportunismo, per la quale ogni presidente peruviano è un «salvador de la república»9. Lo scrittore non presenta al lettore un tipo concreto di dittatore, ma insiste nella denuncia di un marasma politico di gravi conseguenze morali, di cui fa colpa anche al popolo.

Un contributo di carattere etico al tema porta il venezolano Rómulo Gallegos, ne El Forastero. Il romanzo appare nel 1947 e tratta del problema della collaborazione col despota, in vista di un bene per il popolo; ma il rifiuto è totale; la missione dell'«uomo isola» è di mantenere desta la speranza nel riscatto, la fede nell'avvento della libertà.

Se la denuncia della dittatura caratterizza gran parte della narrativa ispano-americana dell'Otto e del Novecento, nessun romanzo incide con così profonda partecipazione, e con pari risultato artistico, nella realtà americana, come El Señor Presidente, dominando incontrastato tutto il periodo che va dalla data della sua apparizione agli anni più recenti. È stata la sua categoria indiscussa che ha distolto, probabilmente, per vari decenni, altri narratori dal tentare di emulare l'impresa, concentrando la narrazione intorno a un unico personaggio-simbolo; solo tra il 1972 e il 1975 si è verificata un'improvvisa fioritura di titoli sul tema, che ha tentato di rompere l'incantesimo, in coincidenza con la recrudescenza del fenomeno dittatoriale in America Latina.

Gabriel García Márquez ha rivelato l'esistenza di un progetto di libro collettivo, dal titolo Los Padres de las Patrias, dovuto all'iniziativa di Carlos Fuentes10, frustrato quasi subito dall'apparizione di libri singoli di autori come Carpentier e Roa Bastos. Benché lo scrittore colombiano segnali, dopo Tirano Banderas - dimenticando, come d'uso, El Señor Presidente, del troppo scomodo Asturias -, precedenti immediati sul tema in Pedro Páramo, di Rulfo, e in Conversación en la Catedral, di Vargas Llosa, la ripresa vigorosa dell'argomento si deve a Demetrio Aguilera Malta, che appunto nel 1973 pubblica El secuestro del General. Da parte sua anche Alejo Carpentier aveva preannunciato il ritorno al tema, in un romanzo breve del 1972, El derecho de asilo, quasi preludio a El recurso del método, che appare nel 1974. Nello stesso anno Augusto Roa Bastos pubblica Yo el Supremo, e nel 1975 Gabriel García Márquez dà alle stampe il tanto atteso e più volte annunciato El otoño del Patriarca.

Le opere citate immettono nella tormentata condizione del mondo americano, duramente segnata dalla dittatura, e al tempo stesso in dimensioni inedite del «nuovo romanzo» ispano-americano, al quale aprono concretamente nuove strade. Di qui che l'esame dei testi intrapreso in queste pagine, a partire da El Señor Presidente, affermi una stretta relazione di continuità con quanto intrapreso nel volume precedente, dedicato al «nuovo romanzo», pubblicato nel 1973 con il titolo Il labirinto magico. Alle radici di ognuno di questi libri sta un interesse immediato nei confronti di una realtà umana allucinante e di una espressione che continuamente si rinnova, a partire dal romanzo di Asturias. Il «nuovo romanzo» - mi sembra utile ribadirlo - inizia concretamente con El Señor Presidente. È giusto riconoscere a Miguel Ángel Asturias, oltre alla sincerità della partecipazione al dramma del suo mondo, questa funzione di innovatore.




ArribaAbajo- II -

Il mondo allucinante: «El Señor Presidente»


Ritenuto per molto tempo l'opera più significativa di Miguel Ángel Asturias, El Señor Presidente conserva intatta ancor oggi la sua freschezza, il significato che esso ha come partecipazione al dramma del mondo americano, oltre che il valore di testo di rottura nei confronti del «vecchio romanzo».

Trattare di questo libro dello scrittore guatemalteco implica sempre la menzione di Tirano Banderas di Valle Inclán, la cui lettura durante gli anni della formazione parigina era destinata a lasciare in lui orma profonda. Sottolineerò, tuttavia, ancora una volta, che nella sua «repubblica rappresentativa dell'Ispanoamerica» lo scrittore spagnolo presenta un quadro di grande interesse artistico, ma alla fine esotico, un dramma che egli stesso qualifica «de tierra caliente». Per dare al romanzo un tono americano Valle-Inclán ricorre a una mescolanza linguistica di varie peculiarità di paesi diversi ispano-americani. Ciò avrebbe dovuto servire a proporre, anche per l'aspetto linguistico, un'immagine efficace dell'Ispanoamerica. Senonché, a distanza di tempo, si accentua sempre più il senso artificioso dell'espediente. Tirano Banderas rimane un romanzo significativo, s'intende, rappresenta un momento di rilievo nella narrativa di Valle-Inclán, e della Spagna del secolo XX, ma pecca di evidente superficialità per quanto attiene al dramma della condizione americana11. L'idea della dittatura è, per quanto lugubre, «esperpéntica»; una sorta di spettacolo in cui l'autore interviene con numerose curiosità, indugiando in osservazioni interessanti intorno al carattere dei «gachupines» -gli spagnoli residenti nel fittizio paese sfondo del libro, sempre proni di fronte al tiranno-, dei diretti collaboratori del despota, del corpo diplomatico, rilevando persino l'ambiguità sessuale dell'Ambasciatore di Spagna.

Il lettore segue con interesse la narrazione, ma subito percepisce che a Tirano Banderas manca qualche cosa che El Señor Presidente e gli altri romanzi ispano-americani sul tema hanno: l'esperienza diretta. Valle-Inclán, infatti, vede il dramma dal di fuori, non lo sente direttamente. Il panorama della dittatura è troppo schematico e il clima di violenza ha qualcosa che lo avvicina al genere d'appendice, come il «gran finale» in cui il tiranno, sul punto di essere vinto dai suoi avversari, uccide la figlia idiota e poi si uccide. Non esiste, soprattutto, neppure negli oppositori del dittatore, un vero ideale e la lotta non è qualificata dalla prospettiva della libertà, ma scade a livello di contesa per il trionfo di egoistici interessi personali. L'unica ad essere rappresentata con efficacia è la realtà della dittatura, caratterizzata dal simbolo oscuro del carcere. E pure efficacemente studiata è la figura di Santos Banderas, creatura istintiva, tra lo stregone e il bandito, nell'esercizio crudele del potere.

Nel libro di Valle-Inclán è difficile comprendere se nel tiranno sia maggiore la sete di comando o il piacere di distruggere il prossimo. La sua figura lugubre domina tutto il romanzo, in un ripetersi di immagini ossessionanti, dalla cornice di una finestra, dietro la quale è sempre in agguato, teso a spiare il mondo che gli si stende dinanzi, come se, più che il timore di sorprese, lo inquietasse l'irriducibile indipendenza di un universo naturale che persiste libero dal suo dominio.

Valle-Inclán accentua i toni cupi. Caratteristica del tiranno è la nota lugubre. Egli si presenta come un «garabato», uno sgorbio di segno crudele, con l'aspetto cadaverico della morte, che va seminando morti:

«Inmóvil y taciturno, agaritado de perfil en una remota ventana, atento al relevo de guardias en la campa barcina del convento, parece una calavera con antiparras negras y corbatín de clérigo»12.



Fin dal primo avvio del romanzo la figura di Santos Banderas, «con muecas de calavera,», appare concretamente, dominando mano a mano tutto il libro. La finestra è la sua cornice preferita; la sua vita si svolge in un convento-fortezza e il «gran teatro del mondo» è mosso unicamente dalla sua volontà.

Crudeltà, mancanza di scrupoli si uniscono, nell'uomo, a un'innata abilità di giocatore e a una straordinaria conoscenza degli uomini. Valle-Inclán non si intrattiene a descrivere minutamente il personaggio, ma con pochi tratti impressionistici ne fa una figura viva sullo sfondo servile di un seguito anonimo:

«Tirano Banderas, con paso de rata fisgona, seguido por los compadritos, abandonó el juego de la rana: al cruzar por el claustro, un grupo de uniformes, que choteaba en el fondo, guardó repentino silencio. Al pasar, la momia escrutó el grupo [...]»13



Il tiranno è un tipo di «mal agüero» e per il suo aspetto lo scrittore lo avvicina sempre all'immagine di un uccellacelo inquietante:

«Tirano Banderas, en la ventana, era siempre el garabato de un lechuzo»14 .



«Tirano Banderas, sumido en el hueco de la ventana, tenía siempre el prestigio de un pájaro nocharniego [...]15 ».



«Tirano Banderas, agaritado en la ventana, inmóvil y distante, acrecentaba su prestigio de pájaro sagrado»16.



Di fronte all'uomo temibile sta un mondo di rifiuti umani, studiato in profondità nella sua bassezza, degno contorno alla dittatura; un mondo senza volontà né dignità, le cui carenze spirituali sono il motivo primo dell'esistere del tiranno.

Valle-Inclán costruisce la figura del protagonista principe ricorrendo a una serie di particolari complessa, negativi la maggior parte, ma non sempre tali, come si può notare dall'atto con cui Santos Banderas sfugge ai nemici dandosi la morte, dopo aver ucciso la figlia.

Il personaggio finisce per esercitare una sua suggestione sullo scrittore stesso; di fronte alla mancanza di ogni vero ideale negli avversari, il tiranno acquista persino una dimensione epica, nell'oscurità di un dramma di cui è il principale artefice. Ma Valle-Inclán non penetra adeguatamente la portata del problema della dittatura. Tirano Banderas, pur con tutte le novità d'espressione, di struttura, pur dominato da un tono di condanna nei riguardi dell'uomo nefasto e della sua opera, non perviene a quella partecipazione piena cui giunge, al contrario, El Señor Presidente17 .

La gestazione del romanzo di Asturias -benché l'opera appaia nel 1946- è lunga e remota; essa risale al 1923 e si prolunga durante tutto il soggiorno parigino dello scrittore, epoca proficua in cui Asturias viene a contatto dei movimenti d'avanguardia, soprattutto del surrealismo. Egli ha affermato che l'opera sorse prima come racconto parlato, come narrazione orale agli amici ispano-americani intorno a episodi della dittatura di Manuel Estrada Cabrera, tiranno per più di vent'anni -dal 1900 al 1920-, del Guatemala. La stesura scritta dell'opera fu ultimata nel 193218 , ma la pubblicazione del romanzo avvenne in epoca tarda rispetto alla data di compimento, per motivi che già ho esposto in altra sede19 e che, comunque, possono riassumersi soprattutto in uno: l'avvento in Guatemala di un nuovo dittatore, Jorge Ubico. Il che non indica mancanza di coraggio da parte di Asturias. Infatti, il ritardo nella pubblicazione de El Señor Presidente risponde a un piano determinato, quello di poter continuare dall'interno del paese una sottile opera di erosione della dittatura, attraverso l'abile impiego del mezzo radiofonico, dal «Diario del Aire», che Asturias aveva inaugurato e dirigeva. Una ben congegnata serie di annunci pubblicitari concorreva a far scadere nel ridicolo e nel grottesco le notizie dall'interno riguardanti il governo e la sua azione.

Nell'opera di Miguel Ángel Asturias l'insegnamento di Valle-Inclán, il modello «esperpéntico» costituito da Tirano Banderas, opera positivamente, insieme all'esperienza surrealista. È tuttavia opportuno sottolineare subito l'originalità de El Señor Presidente, libro che assume presto, nell'ambito della narrativa ispano-americana, categoria esemplare. Disancorato dai dati di spazio e di tempo, esso diviene il testo «universale» contro le forme disumane che incatenano l'uomo e distruggono le coscienze. Per originalità d'invenzione e per materiali linguistici, per la struttura inedita, nella quale è determinante il monologo interiore, la presenza di un tempo ristagnante ed eterno, l'incubo e il sogno, il libro si impone decisamente, al di sopra di Tirano Banderas, per la riuscita denuncia di una dolorosa situazione americana.

Malgrado il ricorrere di taluni elementi, che richiamano a prima vista l'attenzione del lettore sull'evidente relazione tra i due libri, la sostanza de El Señor Presidente è del tutto diversa da quella di Tirano Banderas. È il caso della familiarità col postribolo degli alti gradi della dittatura -nota ricorrente nel romanzo ispano-americano-: nel romanzo di Valle-Inclán si tratta di un particolare pittoresco, di qualche cosa che complica la trama con elementi ibridi di un erotismo fine a se stesso, mentre nel libro di Asturias diviene elemento indispensabile per qualificare e distruggere la falsa dignità della dittatura.

Nel mondo sul quale domina Tirano Banderas non esiste valore umano realmente positivo, se si eccettua una figura isolata, quella dell'indio che aiuta il Coronelito de la Gándara a fuggire. Moralmente non si salva nessuno. Nel romanzo di Asturias, al contrario, in mezzo al terrore, alla delazione, alla violenza, al delitto, sopravvivono intatti i valori umani, rappresentati dalla serie infinita di coloro che soffrono, creature umili, in genere, tutto un popolo che, malgrado l'esperienza infernale, non ha perduto la speranza né la dignità: prigionieri che in processione incessante, sempre uguale, passano carichi di catene diretti al carcere, la tormentata «niña» Fedina, le donne stesse del «burdel» di doña Chon, più umane nella loro miseria morale di qualsiasi esponente della dittatura, lo studente che in prigione proclama il valore dell'azione contro la rassegnazione della preghiera.

Che in Guatemala la storia contemporanea offrisse materiale efficace per una radiografia della dittatura è un fatto evidente sotto il governo di Estrada Cabrera. Più di una volta Miguel Ángel Asturias ha affermato che in Centroamerica la realtà è sempre stata più potente della fantasia. Le «gesta» e il fascino del dittatore erano già state motivo di un interessante racconto, di squisita fattura modernista, dello scrittore guatemalteco Rafael Arévalo Martínez, Las fieras del trópico, incluso nella raccolta dal titolo El hombre que parecía un caballo y otros cuentos (1915). Nello scritto citato, concluso nel gennaio 1915, l'autore sottolineava il fascino nell'orrore, la bellezza nella crudeltà, trattando di un dittatore, qui «Gobernador», assimilato alla tigre, regnante dispoticamente su un mondo animale, «revuelto rebaño de gacelas y tigres confiados a su custodia». Ma nel 1946 lo stesso Arévalo Martínez pubblica ¡Ecce Péricles!, storia della tirannia di Estrada Cabrera, libro cupo, raccapricciante denuncia di una realtà ricostruita con puntiglioso impegno documentaristico. È sufficiente spigolare qua e là tra le pagine di questa biografia accusatoria per comprendere quanta realtà disperata si confermi anche nel libro di Miguel Ángel Asturias.

In ¡Ecce Péricles! seguiamo la traiettoria vitale del dittatore alluso, a partire dalle umili origini. Egli raggiunge presto una posizione importante nella società guatemalteca come avvocato, ma per tutta la vita conserva vivo il rancore verso le classi «pudientes», alle quali fa colpa di aver umiliato lui e la madre. Il complesso delle proprie origini, sottolineato da Asturias come una delle fonti principali dell'azione violenta del despota, è chiarito nella biografia di Arévalo Martínez: del padre si hanno, infatti, notizie vaghe, mentre consta che Manuel fu abbandonato dalla madre alla porta di certo Pedro Estrada Monzón, al quale la donna attribuiva la paternità del figlio20 . La vita di Estrada Cabrera fu dominata perciò da due desideri: vendicarsi e raggiungere ricchezza e potenza. Egli vi riuscì scalando rapidamente la vetta dello Stato, divenendo ministro, poi Presidente e da questa posizione assoggettando il paese a un regime spietato, regno del terrore e della corruzione, fino alla rivolta popolare del 1920, che determinò la caduta del dittatore e la sua prigionia.

Durante il suo «regno» le carceri della repubblica furono colme di detenuti politici. Scrive l'Arévalo Martínez che i prigionieri vivevano in celle oscure, appena capaci di contenere un uomo, «hediondas, llenas de parásitos y húmedas»21; l'unica finestrella era chiusa, perché neppure un raggio di luce vi potesse entrare. Le torture erano all'ordine del giorno22. Risultato della permanenza di Estrada Cabrera al potere furono la corruzione, il caos, oltre alla violenza:

«[...] Los jueces eran venales; tenían tarifa para absolver a los reos de delitos de sangre: seiscientos pesos guatemaltecos un homicidio; ochocientos un asesinato. El ejército no servía para asegurar la independencia nacional sino la tiranía de Cabrera. La educación era una farsa. El mandatario no permitía que los vecinos compusiesen las vías de comunicación para que no pudieran caminar por ellas los automóviles porque podían servir para derrocarlo. [...] Y lo peor era el grado de desorganización en que yacía la república. La vida y la hacienda estaban menos garantizadas que en los pueblos africanos. Los subalternos de don Manuel, en la metrópoli y sobre todo en las provincias, robaban, atentaban al pudor de las mujeres y mataban impunemente. El robo estaba organizado. Los empleados públicos, los maestros y los militares tenían sueldos que no llegaban a una decena de dólares, y mendigaban o robaban. Sí; robaba todo el mundo; el primero, don Manuel; mataban muchos impunemente; el primero, don Manuel.

Y a sus órdenes estaba toda la formidable máquina militar del Estado. [...]»23



Nonostante l'apporto dell'«invenzione» la nota lugubre del regno di Estrada Cabrera permane intatta ne El Señor Presidente. Si potrebbe parlare di un mondo infernale, sul quale domina come demonio principe il dittatore. Ciò che più colpisce è che un simile clima possa instaurarsi e permanere con tanta frequenza, e per così lunghi periodi, nel continente americano. Asturias ha dato una spiegazione al fenomeno, trattando del romanzo nel saggiò El Señor Presidente como mito:

«En general, los que se han ocupado de lo relacionado con el mito y la literatura actual convienen en que la novela ha tornado en las sociedades modernas el lugar que ocupaba la recitación de los mitos en las sociedades primitivas. En este sentido y apartándonos de todo juicio literario, no es aventurado decir que El Señor Presidente debe ser considerado en las que podrían llamarse narraciones mitológicas. Hay la novela, literariamente hablando, hay la denuncia política, pero en el fondo de todo existe, vive, en la forma de un Presidente de República latinoamericana, una concepción de la fuerza ancestral, fabulosa y sólo aparentemente de nuestro tiempo. Es el hombre-mito, el ser-superior (porque es eso, aunque no querramos), el que llena las funciones de jefe tribal en las sociedades primitivas, ungido por poderes sacros, invisible como Dios, pues entre menos corporal aparezca, más mitológico se le considerará. La fascinación que ejerce en todos, aun en sus enemigos, el halo de ser sobrenatural que lo rodea, todo concurre a la reactualización de lo fabuloso, fuera de un tiempo cronológico. ¿Será ésta la última esencia de El Señor Presidente?, el que en verdad sea un mito, la supervivencia de un gran mito inicial, cuyo peso aun mantiene en ciertos países, el dominio semireligioso, con sus fanáticos adeptos y sus réprobos encarcelados en infiernos inenarrables? ¿No alcanzan estos Señores Presidentes altura de seres sobrenaturales? ¿No son realidades terribles, tremendas, pero al mismo tiempo algo así como castigos religiosos y como tales, seres fuera de la realidad? ¿Y alrededor de ellos, de estos Señores Presidentes, no se va creando una especie de rito, que implica el culto a la personalidad, como se dice ahora, aunque en verdad no es a la personalidad presente, sino a lo que ella, como fuerza ancestral, representa? [...]»24



Di qui che lo scrittore sottolinei la veridicità sostanziale del suo racconto, in cui il mito negativo dello stregonepresidente ha tanta parte:

«El Señor Presidente no es una historia inventada, no es fantasía de novelista; se rodeó, en los últimos tiempos de su gobierno, de brujos indígenas traídos de los lugares de más fama en el campo de la magia. En uno de los últimos capítulos, el XXXVII, asistimos al baile de Tohil. Tohil, la divinidad indígena mayaquiché que exigía sacrificios humanos. ¿Qué otra cosa exigía el Señor Presidente? Sacrificios humanos. No eran ejecuciones, sino sacrificios, y no querráis llevar esto a la inmensa pantalla mundial de la dictadura hitleriana. [...] hay que decir que el mito se defiende de tal manera, que cuando cayó el Señor Presidente y fue puesto prisionero, la gente creía que no era el mismo. Al verdadero el mito lo seguía amparando. A éste que estaba preso, no, y la más simple explicación era que el mitológico había dejado de existir, y éste era uno cualquiera»25.



Partendo da queste premesse Miguel Ángel Asturias conserva al suo personaggio le caratteristiche mitiche del «brujo», anche se, inevitabilmente, ne demolisce per gradi la figura. L'angolo visuale dello scrittore guatemalteco è quello di colui che è inattacabile dal contagio, che conosce il mito e la sua suggestione, ma che non soggiace alla sua influenza, ed è quindi cosciente della miserabile realtà umana che sottintende.

Al tempo della caduta di Estrada Cabrera il giovane Asturias, allora studente universitario, aveva avuto modo, quale membro della commissione recatasi a palazzo a esigere la rinuncia del dittatore, di osservarlo da vicino. Egli ha affermato più volte che l'uomo gli era apparso funebre, freddo, padrone di sé anche nella sconfitta, con un aspetto enigmatico e glaciale che ancora incuteva timore e rispetto ai suoi stessi vincitori. El Señor Presidente interpreta questo ascendente inspiegabile del tiranno, sottolineato, o addirittura determinato, dall'isolamento in cui era vissuto, l'alone di potenza demoniaca che lo circondava, della quale si manifestavano solo gli effetti negativi, per interposta persona, quella di ministri crudeli e corrotti, vere «sabandijas» quevedesche, in un mondo in cui più non esisteva «ni verdadera vida ni verdadera muerte, ni verdadera honra ni verdadera deshonra, ni verdadera amistad ni enemistad verdadera»26.

Nell'economia del romanzo l'infelice amore di «Cara de Ángel», già favorito del dittatore, poi in disgrazia, finisce per non avere eccessiva importanza in sé. È un episodio in più della dittatura, che tuttavia accresce interesse nel lettore e soprattutto conclude in un'affermazione -implicita nella fine della vicenda e nella morte in carcere dell'ex-favorito-: che non esiste salvezza possibile per chi è stato esecutore crudele del male. Asturias non ammette che l'esperienza personale di dolore sia sufficiente a riscattare dalla colpa di aver servito la dittatura con la violenza. Ciò che più interessa, tuttavia, nel romanzo, è la radiografia della dittatura, il mondo violento dominato dal fantasma cupo del dittatore. Lo svincolamento dai dati geografici e temporali permette allo scrittore di dare alla condanna una dimensione che va ben oltre la contingenza dei fatti, il limite geografico della nazione guatemalteca, proponendo a fosche tinte un dramma inquietante, nel quale tanta parte del mondo si identifica.

L'azione de El Señor Presidente si svolge in un breve numero di giorni, ma con una proiezione immediata in un tempo indifferenziato ed eterno. Introdotto da un'epigrafe tratta dal Popol-Vuh, nella quale è riassunto il significato del romanzo -«entonces se sacrificó a todas las tribus ante su rostro»27-, il libro si divide in tre parti e termina con un breve «Epilogo». Apre la prima di queste parti una datazione, «21, 22 y 23 de abril» -l'anno non ha importanza nella storia di un sistema che continuamente si ripete, anzi è utilmente eliminato-, e si compone di undici capitoli, per un totale di 70 pagine, sulle 267 del testo da me eseguito. La seconda parte è continuazione cronologica della prima, «24, 25, 26 y 27 de abril», e va dal capitolo XII al XXVII, 16 capitoli, per 109 pagine. La terza e ultima parte prospetta l'alluso tempo indifferenziato ed eterno, attraverso una significativa indicazione d'apertura, «Semanas, meses, años...», e si estende dal capitolo XXVIII al XLI, 14 capitoletti, questa volta, per 78 pagine28.

In altra occasione ho sottolineato che nel romanzo i grandi protagonisti sono la prigione e il tempo. La condizione umana, infatti, si determina in un regime di oppressione che non prevede fine. Richiamerò l'osservazione di Ricardo Navas Ruiz, per il quale non v'è dubbio che, essendo la dittatura il tema del romanzo, poiché di essa è protagonista il tempo, esso lo è anche del Señor Presidente, in quanto apre o chiude la via alla speranza, virtù essenzialmente temporale, dominante in ogni regime dispotico29. La democrazia non conosce, infatti, questa virtù; la speranza si esercita, in regimi di oppressione, nell'anelito alla libertà da parte degli oppressi, e ugualmente nell'ansia di permanenza da parte degli oppressori, di desiderio di eternità.

Secondo il Menton, che si è occupato ampiamente del tempo nel romanzo di cui trattiamo, l'idea di tempo immobile ed eterno è propria del cubismo, di moda tra il 1920 e il 1930 in Europa, epoca appunto in cui Asturias si trovava a Parigi e scriveva il suo libro30. È attraverso questo progredire temporale, che ristagna nella terza parte del romanzo, e ricorrendo ad abilissimi agganci e richiami a fatti e a persone, che si qualifica ne El Señor Presidente una struttura nuova del romanzo, assai complessa, quella che ha fatto scrivere a un esegeta di Miguel Ángel Asturias, che il libro è risultato «una verdadera joya arquitectónica»31 . Il Sacoto sottolinea, infatti, il «simultaneismo» e l'unità del libro, ottenuta attraverso diversi artifici tecnici, come le allusioni molteplici, la concatenazione di vari episodi con altri precedenti, i «retrocesos flash backs», i monologhi «Stream of consciousness»; e ancora l'equilibrio dei personaggi nel loro mondo di «ficción», ossia la capacità di convincere e di conservare il loro carattere attraverso lo svolgimento di tutta la trama32. Il critico citato pone in rilievo, inoltre, il parallelismo tra la prima e la seconda parte, l'introduzione di nuovi temi, la ripetizione del «leit motiv», l'unità strutturale presentata da alcuni capitoli33, particolare quest'ultimo già osservato dal Menton quando affermava che ognuno di essi era un'unità artistica in sé e che spesso il capitolo si chiudeva «en un marco cronológico, comenzando durante la noche y terminando con el amanecer», e ancora che diversi di questi capitoli si rafforzavano internamente attraverso la «repetición sinfónica del mismo leit motiv»34.

El Señor Presidente è, quindi, un libro di rigorosa costruzione e di evidente novità anche alla luce del «nuovo romanzo». Il suo carattere, in questo senso, di novità, si è affermato, a distanza di tempo, tra i critici più attenti e obiettivi. E ciò nonostante che apologisti ed esegeti di scrittori come García Márquez, Vargas Lloga, Cortázar o Fuentes tendano a dimenticare disinvoltamente la parte che Miguel Ángel Asturias ha come precursore nel rinnovamento della narrativa ispano-americana, e che ancor più si afferma nel 1949, con Hombres de maíz, inaugurando il «realismo mágico». Come, del resto, è volutamente ignorata, anche dal Fuentes, pur così attento alla storia della narrativa americana35 la funzione innovatrice di un altro grande narratore, il cubano Alejo Carpentier36.

Ma El Señor Presidente non ha una determinante importanza nell'ambito della narrativa americana solo per le innovazioni tecniche e formali. La novità e la perfezione della sua struttura sottolineano ancor più l'adesione sofferta al dramma americano. Il clima lugubre, nerissimo, che domina la vita di un paese nettamente identificabile come americano è frutto del sovvertimento di ogni valore morale, della violenza fisica e spirituale, del prepotere in contrasto con la libertà. In questo clima la vita diviene un'equazione inquietante, la cui soluzione sta solamente nella morte. Il sillogismo denunciato da Asturias come misura costante dell'esistere, per un popolo oppresso, è significativo:

«[...] vivir, lo que se llama vivir, que no es este estarse repitiendo a toda hora: pienso con la cabeza del Señor Presidente, luego existo, pienso con la cabeza del Señor Presidente, luego existo»37.



Il dramma diviene più acuto allorché si apprende che è lo stesso Cara de Ángel, ex-favorito del dittatore, a denunciare la situazione, il regime di terrore, del quale fino a poco tempo prima era stato anch'egli parte attiva. Con straordinaria perizia e con quel dono della lingua, dell'onomatopea, che la generalità della critica ha riconosciuto ad Asturias, straordinario forgiatore di vocaboli, lo scrittore immette il lettore nell'inferno della dittatura. È l'onomatopea che dà consistenza al mondo d'incubo surreale de El Señor Presidente, fin dalle prime pagine:

«... ¡Alumbra, lumbre de alumbre, Luzbel de piedralumbre! Como zumbido de oídos persistía el rumor de las campanas a la oración, maldoblestar de la luz en la sombra, de la sombra en la luz. ¡Alumbra, lumbre de alumbre, Luzbel de piedralumbre, sobre la podredumbre! ¡Alumbra, lumbre de alumbre sobre la podredumbre, Luzbel de piedralumbre! ¡Alumbra, alumbra, lumbre de alumbre... alumbre... alumbra... alumbra, lumbre de alumbre... alumbre... alumbra... alumbra, lumbre de alumbre... alumbra... alumbra!...»38



Il grande affresco della situazione guatemalteca, e per estensione continentale, si apre con la lugubre scena, davvero infernale, della tortura, preceduta dalla presentazione di un infra-mondo di mendicanti e di esseri fisicamente avariati, tra essi un deficiente, il Pelele, del quale risuona raccapricciante la risata, la «cár-cár-cár-cár-carcajada»39 . Ad ogni alba la città sembra sottolineare, in tutta la sua estensione, la dimensione angosciosa del dramma: «La ciudad grande, inmensamente grande para su fatiga, se fue haciendo pequeña para su congoja»40 .

Arrestati i mendicanti, e sottoposti a tormento, perché denuncino quali colpevoli dell'assassinio di un colonnello due individui invisi al dittatore, essi divengono gli abitanti infelici di un mondo lugubre, la prigione, simbolo costante della dittatura. Si tratta di una «zahurda» come quelle dei Sueños -non si dimentichi l'attaccamento di Asturias a Quevedo-, ma con una nota più dura di raccapriccio. I compagni del Mosco -rinchiuso in una «bartolina» strettissima, con un accompagnamento di «palabrotas» dei carcerieri «hediondos a ropa húmeda y a chenca»41- piangono «como animales con moquillo», tormentati dall'oscurità, «que sentían que no se les iba a despegar más de los ojos»42, presi dal terrore di trovarsi in un luogo di morte - «estaban allí donde tantos y tantos habían padecido hambre y sed hasta la muerte»43 -, timorosi «que los fueran a hacer jabón de coche, como a los chuchos», o che li impiccassero «para dar de comer a la policía»44 . Le facce degli aguzzini sono presentate con caratteristiche demoniache e bestiali: «Las caras de los antropófagos iluminadas como nalgas, los bigotes como babas de chocolate...»45.

La tecnica di distruzione del personaggio è condotta innanzi da Asturias fino a raggiungere il grottesco, con implicazioni ibride molto efficaci. Le prigioni di Estrada Cabrera descritte da Arévalo Martínez in ¡Ecce Péricles! non erano, certo, diverse da quelle de El Señor Presidente. Non meraviglia, perciò, che Asturias riempia le sue carceri di creature infernali. Il Menton ha parlato di un inferno dantesco, a proposito del romanzo di cui trattiamo46, ma forse è più esatto ricorrere al paragone con Sueños di Quevedo; benché con entrambi i termini di paragone l'inferno di Miguel Ángel Asturias differisca, perché gli abitanti del suo mondo sono vittime innocenti, sottoposte alla persecuzione di creature bestiali, prive di ogni sentimento, veramente infernali, come quell'«Auditor de guerra» che corre a informare il Señor Presidente dell'estorta confessione, su di un carro che è allegoria della morte:

«Y corrió a dar parte al Señor Presidente de las primeras diligencias del proceso en un carricoche tirado por dos caballos flacos que llevaba de lumbre en los faroles los ojos de la muerte»47



La natura, animata e parlante, secondo la tendenza espressionista, ma più ancora per l'animismo che Asturias sugge, fin dalle Leyendas de Guatemala, dal mondo indigeno, partecipa direttamente del dramma. Sul panorama della ripresa della vita cittadina, alle prime ore del giorno, allorché gli abitanti «iguales en el espejo de la muerte»48, il sonno - Quevedo è ancora presente -, escono di casa per dedicarsi alle loro faccende, disuguali nella lotta giornaliera come uguali erano stati dormendo -«unos sin lo necesario, obligados a trabajar para ganarse el pan, y otros con lo superfluo en la privilegiada industria del ocio: amigos del Señor Presidente, propietarios de casas -cuarenta casas, cincuenta casas-, prestamistas de dinero al nueve, al nueve y medio y diez por ciento mensual, funcionarios con siete y ocho empleos públicos, explotadores de concesiones, montepíos, títulos profesionales, casas de juego, patios de gallos, indios, fábricas de aguardiente, prostíbulos, tabernas y periódicos subvencionados»49- si stende un colore premonitore: «La sanguaza del amanecer tenía los bordes del embudo que las montañas formaban a la ciudad regadita como caspa en la campiña»50.

L'immagine, in sintesi efficace, della città, intesa negativamente, perché dominata dal tiranno, proietta una luce inquietante. Tutto è già prevedibile; ciò che accadrà è già annunciato da questi particolari. Il Pelele, che corre spaventato per le vie cittadine, «Medio en la realidad, medio en el sueño»51, configura una realtà durissima, da incubo. L'imbrunire si presenta non meno inquietante dell'alba:

«Atardeció. Cielo verde. Campo verde. En los cuarteles sonaban los clarines de las seis, resabio de tribu alerta, de plaza medieval sitiada. En las cárceles empezaba la agonía de los prisioneros a quienes se mataba a tirar de años. Los horizontes recogían sus cabecitas en las calles de la ciudad, caracol de mil cabezas. Se volvía de las audiencias presidenciales favorecido o desgraciado. La luz de los garitos apuñaleaba en la sombra»52.



Se per un istante la natura sembra talora prendere il sopravvento in note positive -«El viento corría ligero por la planicie, soplaba de la ciudad al campo, hilado, amable, familiar... [...] El cielo, sin una nube, brillaba espléndido [...]»53- è perché si affermi ancor più il contrasto con una realtà negativa. Lo si può osservare quando il Pelele viene assassinato dalla polizia; tutta la natura sembra ribellarsi, impotente, di fronte al crimine:

«A las detonaciones y alaridos del Pelele, a la fuga de Vázquez y su amigo, mal vestidas de luna corrían las calles por las calles sin saber lo que había sucedido y los árboles de la plaza se tronaban los dedos en la pena de no poder decir con el viento por los hilos telefónicos lo que acababa de pasar. Las calles asomaban a las esquinas preguntándose por el lugar del crimen y como desorientadas unas corrían hacia los barrios céntricos y otras hacia los arrabales. ¡No, no fue en el Callejón del Judío, zigzagueante y con olas, como trazado por un borracho! ¡No en el Callejón del Escuintilla, antaño sellado por la fama de cadetes que estrenaban sus espadas en carne de gendarmes y malandrines remozando historias de mosqueteros y caballerías! ¡No en el Callejón del Rey, el preferido de los jugadores, por donde reza que ninguno pasa sin saludar al rey! ¡No en el Callejón de Santa Teresa, de vecindario amargo y acentuado declive! ¡No en el Callejón del Conejo, ni por la Pila de la Habana, ni por las Cinco-Calles, ni por el Martinico...!

Había sido en la Plaza Central, allí donde el agua seguía lava que te lava los mingitorios públicos con no sé qué de llanto, los centinelas golpea que golpea las armas y la noche gira que gira en la bóveda helada del cielo con la Catedral y el cielo.

Una confusa palpitación de sien herida por los disparos tenía el viento que no lograba arrancar a soplidos las ideas fijas de las hojas de la cabeza de los árboles»54.



E ancora, il mondo condannato alla schiavitù della dittatura si concreta in una visione totalmente negativa della città:

«La impresión de los barrios pobres a estas horas de la noche era de infinita soledad, de una miseria sucia con restos de abandono oriental, sellada por el fatalismo religioso que la hacía voluntad de Dios. Los desagües iban llevándose la luna a flor de tierra, y el agua de beber contaba en las alcantarillas, las horas sin fin de un pueblo que se creía condenado a la esclavitud y al vicio»55 .



Asturias non ama le città, perché su di esse vede esercitarsi più concretamente il potere. Con molta perizia egli satura, nella prima parte del romanzo, l'atmosfera, con la presenza del tiranno. Quando presenta la figura cadaverica del Signor Presidente elimina da essa ogni tratto distintivo del volto, insistendo, per renderla più negativa, su due soli colori, il nero lugubre del vestito e il grigio della vecchiaia:

«El Presidente vestía como siempre de luto riguroso: negros los zapatos, negro el traje, negra la corbata, negro el sombrero que nunca se quitaba; en los bigotes canos, peinados sobre las comisuras de los labios, disimulaba las encías sin dientes, tenía los carrillos pellejudos y los párpados como pellizcados»56.



La statura crudele del personaggio è pienamente definita, mentre la sua apparente grandezza e onnipotenza sono distrutte con abile procedimento sul piano umano. Asturias offre, infatti, un'immagine miserabile dell'uomo; la sua forza sta solo fiell'aver distrutto le coscienze, nell'essere circondato da assassini che diffondono il terrore in ogni angolo del paese. Nel regno del Signor Presidente ogni abitante si leva all'alba di ogni nuovo giorno con un terribile timore, quello di aver potuto incorrere nell'ira del dittatore, e quindi con l'umile proposito di «persignarse para que Dios les librara de los malos pensamientos, de las malas palabras y de las malas obras contra el Señor Presidente»57.

Si osservi con quanta incisività lo scrittore penetra nella condizione del mondo sottomesso alla dittatura. La distruzione del personaggio si avvale di tutti questi elementi, ed è condotta con molta abilità. La serie roboante e vuota dei titoli con i quali l'adulazione e il terrore gratificano grottescamente il dittatore - «¡Benemérito de la Patria, Jefe del Gran Partido Liberal, Liberal de corazón y Protector de la Juventud Estudiosa!»58 - è gridata, nel giorno di festa, in cui si celebra l'anniversario di uno scampato pericolo da parte del Presidente, da una donna soprannominata significativamente «la Lengua de Vaca»59. I programmi della festa sono distribuiti da pagliacci infarinati. A sua volta il Presidente appare circondato da una corte che ne sottolinea l'indegnità. Nella descrizione di essa Miguel Ángel Asturias dispiega un'ironia tagliente, costruendo con gran maestria un quadro compiutamente negativo. Un «leit motiv» sacro-profano accentua la nota del ridicolo:

«¡Señor, Señor, llenos están los cielos y la tierra de vuestra gloria! El Presidente se dejaba ver, agradecido con el pueblo que así correspondía a sus desvelos, aislado de todos, muy lejos, en el grupo de sus íntimos.

-¡Señor, Señor, llenos están los cielos y la tierra de vuestra gloria! Las señoras sentían el divino poder del Dios Amado. Sacerdotes de mucha enjundia le incensaban. Los juristas se veían en un torneo de Alfonso el Sabio. Los diplomáticos, excelencias de la Guayana, se daban grandes tonos consintiéndose en Versalles, en la Corte del Rey Sol. Los periodistas nacionales y extranjeros se relamían en presencia del redivivo Pericles. ¡Señor, Señor, llenos están los cielos y la tierra de vuestra gloria! Los poetas se creían en Atenas, así lo pregonaban al mundo. Un escultor de santos se consideraba Fidias y sonreía poniendo los ojos en blanco y frotándose las manos al oír que se vivaba en las calles el nombre del egregio gobernante. ¡Señor, Señor, llenos están los cielos y la tierra de vuestra gloria! Un compositor de marchas fúnebres, devoto de Baco y del Santo Entierro, asomaba la cara de tomate a un balcón para ver dónde estaba la tierra».60



Con il sarcasmo e il grottesco anche l'umorismo, nota costante di Asturias, compie una missione distruttrice. Di contro alla riuscitissima immagine di vuota estasi, nella quale si raffigura un mondo insostanziale e negativo, sta la denuncia di una concreta realtà dolorosa di sfruttamento, che unisce strettamente il tiranno a coloro che, nella consueta forma del «cliché» popolare, sono presentati come dissanguatori del popolo:

«Mas si los artistas se creían en Atenas, los banqueros judíos se las daban en Cartago paseando por los salones del estadista que deposito en ellos su confianza y en sus cajas sin fondo los dineritos de la nación a cero y nada por ciento, negocio que les permitía enriquecerse con los rendidos y convertir la moneda de metal de oro y plata en pellejillos de circuncisión. ¡Señor, Señor, llenos están los cielos y la tierra de vuestra gloria!»61



La scena si chiude nuovamente con un'immagine di luce demoniaca, sull'ennesimo ripetersi del «leit-motiv» con cui Asturias sottolinea la condizione dannata del favorito, angelo delle tenebre: «Cara de Ángel se abrió campo entre los convidados. Era bello y malo como Satán»62.

Attraverso note di un'ironia tagliente che sottolinea il ridicolo, lo scrittore mostra abilmente le reazioni del Presidente di fronte al popolo, al quale lo legano troppo infimamente le sue origini. Quando la «Lengua de Vaca» inizia il suo sconclusionato discorso d'omaggio chiamando il dittatore «¡Hijo del pueblo!»63, la sua reazione è istintiva. Ma l'adulazione del favorito subito 'lo placa con servile abilità:

«El amo tragó saliva amarga evocando tal vez años de estudiante, al lado de su madre sin recursos, en una ciudad empedrada de malas voluntades; pero el favorito que le bailaba el agua, atrevió en voz baja:

-Como Jesús, hijo del pueblo...»64.



Asturias si diverte visibilmente col suo personaggio; egli lo tiene ormai completamente in suo potere e va approfondendone abilmente le note negative, fino a distruggerlo del tutto. Nelle pagine che seguono, infatti, egli porrà allo scoperto la vigliaccheria, la malvagità, il gallismo impotente, la natura nauseabonda del Presidente. È durante la festa allusa che la caduta di un «bombo» per le scale di palazzo diffonde il terrore tra gli invitati; un fuggi fuggi generale semina confusione, e nella confusione anche il dittatore si pone in salvo: «Lo que ninguno pudo decir fue por dónde y a qué horas desapareció el Presidente»65 .

La natura crudele dell'uomo si manifesta in ogni atto, nella condanna alla fustigazione del vecchio e maldestro segretario, che ha macchiato d'inchiostro le carte del dittatore66 , nella persecuzione sottile, gatto contro topo, di Cara de Ángel, nel piano diabolico per farlo morire in carcere, roso dal sospetto che la moglie lo abbia tradito col suo persecutore. La grigia miseria del Presidente è denunciata allorché egli ricompare nel romanzo completamente ebbro, dopo che per tante pagine del libro era rimasto nell'ombra e se n'erano viste solo le opere. La distruzione del personaggio si compie nel capitolo XXXII della terza parte del romanzo, quando nel bel mezzo di un'orgia il despota perde ogni controllo e, ubriaco, copre del suo vomito l'ex-favorito. Cara de Ángel lo vede dapprima avanzare come inebetito: «Del fondo de la habitación avanzó el Señor Presidente, con la tierra que le andaba bajo los pies y la casa sobre el sombrero»67. Ora l'uomo freddo e crudele è solo un miserabile fantoccio, e Asturias si accanisce contro di lui riuscendo a farlo naufragare nel ributtante. Le abbondanti libagioni mettono a nudo la natura meschina del personaggio e la sua volgarità. Significativo è che egli vomiti parte sull'ex-favorito e parte in una bacinella, portata in fretta da un segretario, che sul fondo presenta lo scudo dello Stato:

«Las palabras tonteaban en sus labios como vehículos en piso resbaloso. Se recostó en el hombro del favorito con la mano apretada en el estómago, las sienes tumultuosas, los ojos sucios, el aliente frío, y no tardó en soltar un chorro de caldo anaranjado. El sub-secretario vino corriendo con una palangana, que en el fondo tenía esmaltado el escudo de la República, y entre ambos, concluida la ducha que el favorito recibió casi por entero, le llevaron arrastrando a una cama»68.



La distorsione dei valori fa sì che il sottosegretario sia il primo a congratularsi con Cara de Ángel per il riconquistato favore. I personaggi che circondano il despota sono anch'essi studiati e costruiti in una negatività che non può non riflettersi reciprocamente anche sul loro signore. In particolare Miguel Ángel Asturias bolla la retorica caricaturale della propaganda politica, quale sempre si manifesta sotto regime dittatoriale. In occasione di una delle tante rielezioni «spontanee» del Signor Presidente, uno pseudo-poeta ne tesse le lodi in un'osteria, definendolo, con discorso sconnesso e vuoto, «Pro-hombre de Nietche, el Superúnico»69 , un «hipersuperhombre», un «superciudadano», un «auriga-super-áulico», che ora e sempre guiderà il carro della patria70, e prosegue con un'interessante disquisizione intorno a come debba intendersi la democrazia in America:

«[...] La democracia acabó con los Emperadores y los Reyes en la vieja y fatigada Europa; mas, preciso reconocer es, y lo reconocemos, que transplantada a América sufre un injerto cuasi divino del ser Superhombre y da contextura a una nueva forma de gobierno: la Superdemocracia [...]»71.



A questa luce si spiega il disgusto e la «sorna» dell'americano Mister Gengis, uno dei pochi «gringos» positivi nell'opera di Asturias:

«[...] Mi gusto como habla este poeta, pero yo era que debe der ser muy triste ser poeta, sólo ser Licenciado debe de ser la más triste cosa del mundo. ¡Y ya me voy a beber el otro whisky! ¡Otro whisky -gritó- para este super-hiper-ferro-casi-carri-le-ro»72.



È interessante notare la minuziosità con cui Miguel Ángel Asturias studia i suoi personaggi, li usa e li getta via, scaricandoli nell'immondezzaio di cui sono parte. Non si tratta solo di povera gente, moralmente povera, intendo, ma dei pilastri di tutte le dittature: esercito, polizia, magistratura. Le gloriose imprese del primo hanno il loro raggio d'azione nel ridotto perimetro della casa di dona Chon, la tenutaria del postribolo, in cui finisce la povera Fedina, venduta dall'«Auditor de Guerra». Asturias esclama: «¡Cuánta alegría de cuartel y de burdel! El calor de las rameras compensa el frío ejercicio de las balas»73.

Ma si osservi anche con quanta efficacia lo scrittore presenta la natura negativa dei militari nell'esercizio del loro ufficio: in caserma l'ufficiale di guardia siede su una sedia di ferro «en medio de un círculo de salivazos» e prima di rispondere lancia «un chorro de saliva hedionda a tabaco y dientes podridos»74.

Neppure il generale Canales, vittima designata del dittatore, sfugge all'azione demolitrice dello scrittore: il suo «porte marcial» lo vediamo infatti ridursi a una «carreta de indio que va al mercado a vender una gallina»75. E neppure ne ricostruisce la dignità l'apprendere che dall'esilio il generale prepara una spedizione per abbattere il Presidente. Asturias non crede -lo ribadirà soprattutto ne Los ojos de los enterrados- nella democraticità dei militari; i loro movimenti non sono che tentativi di sostituirsi a chi sta al potere.

Quanto alla polizia, scontata la crudeltà gratuita e ottusa, lo scrittore sottolinea continuamente nei suoi rappresentanti la mancanza di qualità virili. Se lo sbirro che frusta il Mosco parla «con voz de mujer»76, un altro sbirro, il Lucio Vázquez, della polizia segreta, si esprime «como mujer, con una vocecita tierna, atiplada, falsa»77, tanto che la sua stessa innamorata lo canzona, quando nel «fondín» egli scambia le grida della Chabelona per quelle di un uomo; la donna gli si rivolge «con retintín»: «¡Señor! [...] ¿no oís que es mujer? ¡Para vos que todos los hombres tienen acento de cenzontle señorita!»78.

Da parte sua la moglie di Genaro Rodas rimprovera al marito l'amicizia con simile soggetto, del quale la colpisce e la inquieta la dubbia virilità: «¡Cada vez más amigo de ese policía que habla como mujer!»79. E ancora: «¡Ah! yo sé lo que digo, nada buenos son esos hombres que hablan como tu amigote con vocecita de gallo-gallina»80. Né meno negativo del Vázquez è l'informatore del Señor Presidente, «Un hombre menudito, de cara argenada y cuerpo de bailarín»81 .

Nella sua opera di distruzione del personaggio Miguel Ángel Asturias insiste anche su particolari che rivelano la natura «puerca» dei «ministri» del Signor Presidente. È ancora il Vázquez di scena; davanti alla donna che corteggia egli si dedica a «jalarse» «una tela indespegable que sentía entre el galillo y la nariz»82. E il terribile «Auditor de Guerra», nell'intimità di una casa sudicia e piena di scartafacci, dominata da una vecchia serva svanita che lo «tutea», ci si presenta come un essere ributtante, goloso e sudicio, albero inconcepibile di foglie di carta bollata. È da sottolineare la perizia dello scrittore nello studio distruttivo di questo personaggio, che presenta intento a sorbire golosamente il «chocolate de arroz»:

«El Auditor de Guerra acabó su chocolate de arroz con una doble empinada de pocillo, para beberse hasta el asiento; luego se limpió el bigote color de ala de mosca con la manga de la camisa y, acercándose a la luz de la lámpara, metió los ojos en el traste para ver si se lo había bebido todo. Entre sus papelotes y sus códigos mugrientos, silencioso y feo, miope y glotón, no se podía decir, cuando se quitaba el cuello, si era hombre o mujer aquel Licenciado en Derecho, aquel árbol de hojas de papel sellado, cuyas raíces nutríanse en todas las clases sociales, hasta en las más humildes y miserables. Nunca, sin duda, vieran las generaciones un árbol tal de papel sellado. Al sacar los ojos del pocillo, que examinó con el dedo para ver si no había nada, vio asomar por la única puerta del escritorio a la sirvienta, espectro que arrastraba los pies, como si los zapatos le quedaran grandes, poco a poco, uno tras otro, uno tras otro»83.



Nell'interrogatorio dell'infelice Fedina, l'«Auditor de Guerra» presentava già caratteristiche bestiali, «los ojos de sapo crecidos en las órbitas»84. Non meno studiato nelle sue caratteristiche negative è l'amanuense, addetto a raccogliere le deposizioni dei prigionieri. Asturias lo presenta intento a osservare la donna «con su cara pálida y pecosa, de secante blanco que se ha bebido muchos puntos suspensivos»85. Lo scrittore insiste su un particolare sordido del suo atteggiamento durante l'interrogatorio, quello di succhiarsi i denti:

«En las pausas que seguían a las frases del Auditor, el amanuense se chupaba las muelas»86.



«El amanuense se chupaba las muelas, con la pluma presta a tornar la declaración que no acababa de salir de los labios de aquella madre infeliz»87.



Le facoltà d'osservazione di Asturias sono vivissime e con particolare efficacia egli colora negativamente gli strumenti di un potere disumano e corrotto, fonte di ogni corruzione. Il sistema è denunciato come perversione mostruosa che tutto coinvolge e travolge, in cui il delitto è l'unico mezzo sicuro per captarsi la protezione del despota. Al maggiore Farfán in disgrazia, Cara de Ángel consiglia di trovare un modo per «halagar» il Presidente, e il pensiero di entrambi va all'unico mezzo ideale:

«Ambos agregaron con el pensamiento “cometer un delito”, por ejemplo, medio el más eficaz para captarse la buena voluntad del mandatario; o “ultrajar públicamente a las personas indefensas”; o “hacer sentir la superioridad de la fuerza sobre la opinión del país”; o “enriquecerse a costillas de la Nación”; o...

El delito de sangre era el ideal, la supresión de un prójimo constituía la adhesión más completa del ciudadano al Señor Presidente. Dos meses de cárcel, para cubrir las apariencias, y derechito después a un puesto público de los de confianza, lo que sólo se dispensaba a servidores con proceso pendiente, por la comodidad de devolverlos a la cárcel conforme a la ley, si no se portaban bien»88



Se stiamo alla documentazione di Rafael Arévalo Martínez, quanto denunciato da Asturias costituiva una costante di Estrada Cabrera nella politica di assoggettamento dell'individuo. Su un mondo terrorizzato, profondamente corrotto, ma nel quale sopravvivono, tuttavia, anche i valori puri, sui quali si fonda la certezza in un futuro di libertà e di giustizia, la presenza cupa del despota incombe, ingigantita dal sospetto dei sudditi, in notti insonni, dominate dal rumore metallico delle armi di instancabili sentinelle che vegliano sul Presidente, misterioso anche nella sua residenza, favolosamente ubiquo: se ne ignorava, infatti, il domicilio, «porque habitaba -secondo la fantasia popolare, altra dimensione del mito- muchas casas a la vez», né si sapeva come dormisse, «porque se contaba que al lado de un teléfono con un látigo en la mano», e neppure a quale ora, «porque sus amigos aseguraban que no dormía nunca»89 .

La dimensione favolosa, mitica, è pienamente raggiunta nella denuncia del male. Una selva inquietante di orecchie mostruose vigila nell'ombra su questo mondo abnorme. Cara de Ángel se ne rende conto quando, su comando del Presidente, ma con l'ordine di non farsi scoprire, si accinge a favorire la fuga del generale Canales:

«Todo le pareció fácil antes que le ladraran los perros en el bosque monstruoso que separaba al Señor Presidente de sus enemigos, bosque de árboles de orejas que al menor eco se revolvían agitadas por el huracán. Ni una brizna de ruido quedaba leguas a la redonda con el hambre de aquellos millones de cartílagos. Los perros seguían ladrando. Una red de hilos invisibles, más invisibles que los hilos del telégrafo, comunicaba con cada hoja con el Señor Presidente, atento a lo que pasaba en las vísceras más secretas de los ciudadanos»90 .



La mostruosa foresta surreale di orecchie è rappresentazione efficace della dittatura. Il mondo allucinante de El Señor Presidente, si costruisce su questi dettagli, in un'atmosfera ossessiva e crudele, qualificandosi come simbolo intramontabile nella denuncia di ogni potere personalistico.



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