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L'Inferno nel meraviglioso: «El Reino de este Mundo»


Con El Reino de este Mundo, che Alejo Carpentier pubblica nel 1949 -ma che già aveva terminato nel 1948, durante l'esilio a Caracas91-, il romanzo sul tema della dittatura presenta un nuovo e originale apporto, dopo El Señor Presidente di Asturias. L'importanza del libro dello scrittore cubano sta anche nella formulazione di una nuova teoria del realismo, che si concreta nel prologo al romanzo, quella de «lo real maravilloso». Il riferimento a questo saggio, più tardi ripubblicato in Tientos y diferencias, è divenuto d'obbligo allorché si tratta dell'opera di Carpentier, e ancor più quando si affronta l'esame de El Reino de este Mundo, tanto che Emir Rodriguez Monegal ha potuto affermare che il testo in questione ha finito per avere una fortuna superiore allo stesso romanzo cui serve d'introduzione92 .

L'originalità dello scrittore nella formulazione della teoria accennata sta nel ripudio sia del «realismo socialista», dominato da un impegno programmatico, sia del surrealismo bretoniano -alla cui scuola, peraltro, Carpentier si era formato, seguendo soprattutto Desnos, negli anni del soggiorno parigino- per un tipo nuovo di «realtà magica», nella quale hanno parte determinante non solo la natura, ma la storia, le religioni e i miti dell'America, ossia il «reale meraviglioso». Scrive Alejo Carpentier che «lo real maravilloso» incomincia a essere tale in modo inequivocabile quando sorge da una «inesperada alteración de la realidad (el milagro)», da una «iluminación inhabitual o singularmente favorecedora de las inadvertidas riquezas de la realidad, de una ampliación de las escalas y categorías de la realidad, percibidas con particular intensidad en virtud de una exaltación del espíritu que lo conduce a un modo de “estado libre”»93. Ma lo scrittore afferma anche94, che per cogliere la dimensione del meraviglioso deve presupporsi una fede. Il che significa, evidentemente -come del resto più volte ha affermato Miguel Ángel Asturias- una disposizione a credere in un'altra dimensione della realtà, che non è quella offerta dal realismo tout court, ma dalla magia insita nella realtà stessa.

La folgorazione in questo senso Carpentier la ebbe, per sua confessione95, in un viaggio ad Haiti, sul finire del 1943: l'antico regno di Henri Christophe, le rovine della Cittadella di La Ferrière, la «todavía normada» Città del Capo, Gap Francais, la strada in cui aveva abitato Paolina Bonaparte, il «nada mentido sortilegio» della terra haitiana, le «advertencias mágicas» colte sulle strade della Meseta Centrale, i tamburi del Petro e del Rada, lo condussero a confrontare la «maravillosa realidad recién vivida» con la «agotante pretensión de suscitar lo maravilloso», che aveva caratterizzato certe letterature europee degli ultimi trent'anni96. Il risultato finale fu il ripudio di tali tentativi del meraviglioso, falsi ed esterni, per un meraviglioso autentico, che egli vedeva risiedere in America. Ricorda Alejo Carpentier che quando André Mannon volle disegnare la selva della Martínica, la «maravillosa verdad» del tema «devoró al pintor»97. Solo un americano, il pittore cubano Wilfredo Lam, riuscì a cogliere la magia del paesaggio, a insegnare agli americani stessi la magia della vegetazione tropicale, la «desenfrenada Creación de Formas de nuestra naturaleza»98 .

Ma per Carpentier il meraviglioso non sorge solo dalla natura, dalla sua dimensione magica, bensì da un'anima mitica strettamente unita alla natura. Ad Haití, il contatto con «lo real maravilloso» era stato quotidiano; lo scrittore era passato per una terra in cui «millares de hombres ansiosos de libertad creyeron en los poderes licantrópicos de Mackandal»99; egli conosceva la storia di Bouckman, «el iniciado jamaiquino»100 , aveva visitato la Cittadella La Ferrière, «obra sin antecedentes arquitectónicos, únicamente anunciada por las Prisiones Imaginarias del Piranese»101, e respirato l'atmosfera di Henri Christophe, «monarca de increíbles empeños, mucho más sorprendente que todos los reyes crueles inventados por los surrealistas, muy afectos a tiranías imaginarias, aunque no padecidas»102. E se a ogni passo si trovava davanti al «reale meraviglioso», lo scrittore era tuttavia cosciente che questo non era esclusivo di Haiti, ma che si trovava «a cada paso» nella vita di coloro che costruirono la storia del continente, o meglio negli uomini che «inscribieron fechas»103 in tale storia, dagli illusi cercatori della Fonte dell'Eterna Giovinezza, del Dorado, delle magiche città, quella dei Cesari, ad esempio, di concrezioni reali dei miti dell'antichità classica, passati attraverso lo spirito allucinato di conquistatori e di scopritori, fino ai ribelli della «prima ora» e agli eroi dell'Indipendenza. Anche la magia del Vaudou haitiano era solo un'apertura sull'immenso «caudal de mitologías» del Continente104. Tutto il mondo americano si offre, quindi, a Carpentier, provvisto della «fede» indispensabile per attingerlo, come una fonte immensa e inesauribile del «reale meraviglioso».

Ne El Reino de este Mundo lo scrittore concreta questa dimensione. Egli avverte nel «Prólogo»:

«Sin habérmelo propuesto de modo sistemático, el texto que sigue ha respondido a este orden de preocupaciones. En él se narra una sucesión de hechos extraordinarios, ocurridos en la isla de Santo Domingo en determinada época que no alcanza el lapso de una vida humana, dejándose que lo maravilloso fluya libremente de una realidad estrictamente seguida en todos sus detalles. Porque es menester advertir que el relato que va a leerse ha sido establecido sobre una documentación extremadamente rigurosa que no solamente respeta la verdad histórica de los acontecimientos, los nombres de personajes -incluso secundarios-, de lugares y hasta de calles, sino que oculta, bajo su aparente intemporalidad, un minucioso cotejo de fechas y de cronologías. Y sin embargo, por la dramática singularidad de los acontecimientos, por la fantástica apostura de los personajes que se encontraron, en determinado momento, en la encrucijada mágica de la Ciudad del Cabo, todo resulta maravilloso en una historia imposible de situar en Europa, y que es tan real, sin embargo, como cualquier suceso ejemplar de los consignados, para pedagógica edificación, en los manuales escolares. (¿Pero qué es la historia de América toda sino una crónica de lo real maravilloso?»105.



Il fatto che il fondamento della vicenda narrata nel romanzo sia storicamente reale, nelle sue linee generali, è fuor di dubbio; come reali, in tal senso, e salva la piena libertà creativa dello scrittore, sono alcuni personaggi, il re Christophe, Mackandal, Bouckman, Paolina Bonaparte, mentre non lo sono altri, come il personaggio principale, Ti-Noel, Monsieur Lenormand de Mezy e alcuni minori. Il Rodríguez Monegal lo ha rilevato; perciò parla di un «relato más o menos histórico» intorno alla realtà haitiana tra il 1760 e il 1820, ossia gli anni della rivolta degli schiavi (1791), dell'abolizione della schiavitù (1793), e della fine del regno di Christophe106. Ciò è più che naturale, d'altronde; il romanziere non è mai storico rigoroso e tanto meno poteva esserlo Carpentier, attento a cogliere la dimensione più profonda, certo, ma anche più sfumata della realtà, quanto essa presenta di magico. Non v'è dubbio, invece, che lo scrittore cubano abbia cercato di interpretare nel modo più aderente possibile il clima di questa realtà.

Se consideriamo attentamente El Reino de este Mundo vediamo che esso presenta minori novità de El Señor Presidente quanto a struttura. Il romanzo, infatti, si configura, per lo svolgimento cronologico, con ampi salti tem-porali, secondo il tipo tradizionale nell'ambito della narrativa ispano-americana. Ciò che cambia radicalmente è la funzione del linguaggio, teso a captare la più sottile espressione della «meraviglia», un clima nuovo, diverso da quello del «vecchio» romanzo.

El Reino de este Mundo richiama fin dal titolo, che riporta ai testi sacri, l'attenzione del lettore, e subito lo inquieta. Carpentier divide in quattro parti, di numero diverso di capitoli -otto la prima, sette la seconda, sette la terza, quattro la quarta-, il romanzo; ognuna di tali parti è introdotta da un'epigrafe: presiede alla prima parte un breve passo del dialogo tra il Demonio e la Provvidenza, tratto da Lope de Vega, dove il primo si lagna con la seconda per aver permesso a Colombo la scoperta dell'America, con la conseguente evangelizzazione, quindi col suo danno, in un luogo dove da anni innumerevoli ha il suo regno; la seconda parte è introdotta da un brano di Madame D'Abrantes, che predice a Paolina Bonaparte un soggiorno nelle Antille, la sua bellezza «mise en creole», quindi l'assunzione alla regalità; la terza parte reca un passo di Karl Ritter, «testigo del saqueo de Sans-Souci», in cui è denunciato il tramonto del potere reale: «En todas partes se encontraban coronas reales, de oro, entre las cuales había unas tan gruesas, que apenas si podían levantarse del suelo»107. La quarta parte è introdotta da versi di Calderón, alludenti ad incubi: «Miedo a estas visiones / tuve, pero luego / que he mirado a estotras, / mucho más les tengo»108 .

Come si comprende, nella prima parte Carpentier tratta gli elementi magici di Haiti, nella seconda, oltre alla rivolta degli schiavi, introduce la parentesi erotica rappresentata dall'arrivo di Paolina Bonaparte, nella terza racconta l'avventura regale di Henri Christophe, nella quarta la fine miserabile di questo. La magia del mondo afro-antillano è resa più viva nella sua dimensione interiore proprio dalla seconda parte, ossia dalla parentesi, «superficiale» per il mondo haitiano, rappresentata da Paolina. Al seguito del marito, il generale Ledere, inviato da Napoleone nell'isola per domare la rivolta dei negri contro gli antichi padroni coloniali francesi, la donna -benché presa dalla bellezza della Città del Capo e del paesaggio, in un'aura, però, di romanticismo che sgorga dalle sue letture parigine, di Paul et Virginie, e da una «linda contradanza criolla» di strano ritmo, conosciuta a Parigi, La Insular109- passa senza penetrare la dimensione- spirituale del paese, nel quale è, in sostanza, regina. Per sottolineare la superficialità di Paolina, Carpentier incide nel tema erotico, seguendo il cliché; con cui la sorella di Napoleone è stata sempre rappresentata, e per diverse pagine la mostra intenta a godere sensualmente delle carezze del negro Solimán, suo massaggiatore, provando «un placer maligno en rozar, dentro del agua de la piscina, los duros flancos de aquel servidor a quien sabía eternamente atormentado por el deseo, y que la miraba siempre de soslayo, con una falsa mansedumbre de perro muy ardido por la tralla»110. Neppure quando la peste si diffonde nell'isola e Paolina è costretta a rifugiarsi alla Tortuga, dove Solimán invoca su di lei, per preservarla dal male, le potenze misteriose, rendendo tributi ad Aguasú, Signore del mare, elevando «sahumerios» strani, recitando orazioni dai poteri straordinari, quella del Gran Juez, di San Jorge, di San Trastorno, la donna riesce a comprendere la dimensione del magico. E alla morte del marito si affretta a far ritorno in Europa, in Francia.

Nel romanzo, ha osservato esattamente il Rodríguez Monegal, con la sua incomprensione del mondo haitiano Paolina rappresenta il «côte français» della storia, ossia l'incapacità europea di intendere il mondo americano111. La dimensione misteriosa e magica del quale si dispiega nella prima parte de El Reino de este Mundo, contrapponendosi al decadente mondo europeo, francese e spagnolo, trapiantato nell'isola di Haiti dai colonizzatori, ormai sfruttatori di schiavi negri. Mackandal, servo e schiavo di Monsieur Lenormand de Mezy, è colui che attesta la continuità operante del mondo misterioso; egli ricorda i leggendari avvenimenti dei regni favolosi di Popo, di Aranda, dei Napós, dei Fulas, le vaste migrazioni di popoli, le guerre secolari, le battaglie prodigiose «en que los animales habían ayudado a los hombres»112. Mackandal è, in sostanza, l'incarnazione della dimensione magica del mondo negro. Carpentier raccoglie e menziona i nomi suggestivi di re e cavalieri, un meraviglioso librato tra reale e irreale, quindi ancor più efficace sul piano della resa di una realtà-meraviglia. Ti Noel ascolta estasiato il racconto del compagno di schiavitù e intimo amico, che egli comprende dotato di straordinari poteri. Il contrasto tra un «aquí» e un «allá», che diviene «Gran Allá», prende corpo in una coscienza di unicità del popolo oppresso: la realtà non è più solo quella apparente, concreta, ma sfuma continuamente nel mistero di un dialogo che solo chi viene dall'Africa può sostenere e comprendere:

«Allá, en cambio -en Gran Allá-, había príncipes duros como yunque y príncipes que eran el leopardo, y príncipes que conocían el lenguaje de los árboles, y príncipes que mandaban sobre los cuatro puntos cardinales, dueños de la nube, de la semilla, del bronce y del fuego»113.



Il fascino dell'Africa evocata da Mackandal penetra i suoi ascoltatori, accentuandone la vibrazione spirituale e la certezza di essere «diversi», superiori agli stessi padroni bianchi. Ti Noel, ancora giovinetto, ascolta estasiato il racconto favoloso dell'amico e intende che il mondo occidentale, francese, in cui vive, la Città del Capo, con tutte le sue costruzioni, «era bien poca cosa en comparación con las ciudades de Guinea»114. Intende soprattutto la dimensione magica dell'Africa, dove le piogge «obedecían a los conjuros de los sabios, y, en las fiestas de circuncisión, cuando las adolescentes bailaban con los muslos lacados de sangre, se golpeaban lajas sonoras que producían una música como de grandes cascadas domadas»115. E coglie la vitale presenza degli dèi, «que regían el mundo vegetal y solían aparecer, mojados y relucientes, entre las junqueras que asordinaban las orillas de lagos salobres»116.

Un mondo ieratico e favoloso diviene vivo nell'evocazione di Mackandal. Si ha l'impressione di tornare alle origini dell'universo, ed è, da parte di Alejo Carpentier, la condanna piena dell'Europa, che ha perduto la dimensione del magico, ossia quella dello spirito. Mackandal si qualifica, invece, come interprete sacro di un universo misterioso che sopravvive alla colonizzazione. La sua facoltà di «mirar a lo lejos»117 è sconosciuta al bianco; quando egli sente che «Ha llegado el momento»118 -frase anch'essa magica, colma di possibilità misteriose- scompare improvvisamente; ha inizio allora l'invasione del veleno, che fa strage di animali e di persone nelle «haciendas» dei bianchi. «Señor del Veneno»119, investito di «poderes extraordinarios», Mackandal inizia la «cruzada del exterminio»120. Significativamente Carpentier intitola il quinto capitolo della prima parte «De profundis»; con efficacia egli ricrea l'atmosfera lugubre in cui «la carroña se había adueñado de toda la comarca»121, mentre cupamente echeggia il sinistro «claveteo de ataúdes»122, che riempie ogni ora. Inizia, così, per il mondo haitiano, quello che lo scrittore, con accento quevedesco, definisce «oficio de gusanos» 123.

Con la «fede» di cui parlava nel «Prólogo» al romanzo Alejo Carpentier, gli schiavi interpretano i segni della morte e della riscossa, l'ubiquità di Mackandal nelle molteplici e favolose trasformazioni, dotato di illimitati poteri. Sono segni che sostengono la certezza nel giorno della riscossa:

«Un día daría la señal del gran levantamiento, y los Señores de Allá, encabezados por Damballah, por el Amo de los Caminos y por Ogún de los Hierros, traerían el rayo y el trueno, para desencadenar el ciclón que completaría la obra de los hombres»124.



La dimensione magica è pienamente raggiunta nel romanzo al momento della condanna al rogo di Mackandal, alfine fatto prigioniero. Nella piazza di Cap Français due mondi si contrappongono: quello bianco oppressore e quello negro oppresso e vinto. Ma la vittoria dei bianchi è solo apparente; in realtà chi vince è il popolo negro. Mackandal, infatti, è per quest'ultimo un unto dei grandi Loas, quindi preservato dalla morte, e malgrado la cruda realtà della sua fine sul rogo la gente lo vede sciogliersi dalle corde che lo legavano al palo e levarsi a volo sopra le loro teste. Il grido con cui la folla saluta il creduto evento, «Mackandal sauvé125, e l'immediato tumulto che ne segue, impediscono di cogliere la vera realtà, l'affondare dell'uomo nel fuoco. Vive, così, nel tempo, l'altra dimensione, quella magica:

«Aquella tarde los esclavos regresaron a sus haciendas riendo por todo el camino. Mackandal había cumplido su promesa, permaneciendo en el reino de este mundo. Una vez más eran birlados los blancos por los Altos Poderos de la Otra Orilla»126.



Naturalmente nel campo bianco tutto questo non è inteso; l'allegria dei negri è interpretata, secondo il cliché; di rito, come una manifestazione della loro natura illogica, insensibile e animale. Carpentier rileva ancora una volta la portata dell'insanabile conflitto che vede opporsi due mondi di civiltà e di spiritualità diverse. Nell'incapacita del bianco di attingere il meraviglioso, l'anima segreta del mondo americano, egli vede la sua condanna irrimediabile. Il destino del bianco è di essere rigettato, per moto spontaneo, dal continente. Per meglio incidere nel dissidio senza soluzione lo scrittore, gran intenditore di musica -si ricordi il libro La música en Cuba127-, di folklore e di religioni afro-antillane, accentua le presenze spirituali negre nel mondo haitiano, insiste sull'alone misterioso del paesaggio dell'isola.

La vicenda della lotta del popolo oppresso, che s'incammina verso la libertà, è proseguita da Carpentier nella seconda parte de El Reino de este Mundo. Su sette capitoli di cui essa si compone, almeno cinque -I, IV e VII- sono dedicati esclusivamente ad approfondire il panorama interiore negro e a evocare, più che a descrivere, le tappe della lotta. Lo scrittore penetra i misteri del Vaudau, allora religione segreta degli schiavi, «que los alentaba y solidarizaba en sus rebeldías»128. Ma Carpentier compie questa impresa non per rispondere a una sollecitazione di carattere esotico, alla suggestione del folklore, bensì mosso da un interesse sincero per una dimensione fondamentale e ignorata dell'anima negra.

La fede nel ritorno di Mackand sostiene, insieme alla religione, e come prodotta da essa, il popolo ancora schiavo contro gli oppressori. Il giamaicano Bouckman appare investito di poteri divini, allorché si pone alla testa della rivolta. Nello scontro con i bianchi non si contrappongono solo due sistemi di vita, ma due concezioni religiose diverse. L'opera schiavista dei bianchi ha proiettato sulla religione, che affermano di seguire, l'ombra del crimine; i negri possono, perciò, affermare la superiore grandezza dei loro dèi. Sono i grandi Loas, infatti, a suggellare il patto di sangue tra i delegati delle «dotaciones» e Bouckman. Nella parola del capo si esprimono i termini e lo spirito della lotta:

«-El Dios de los blancos ordena el crimen. Nuestros dioses nos piden venganza. Ellos conducirán nuestros brazos y nos darán la asistencia. ¡Rompan la imagen del Dios de los blancos, que tiene sed de nuestras lágrimas; ¡escuchemos en nosotros mismos la llamada de la libertad!»129.



La Rivoluzione francese aveva decretato, com'è noto, l'abolizione della schiavitù, ma i coloni di Haiti non accettarono la nuova situazione, gelosi dei propri privilegi e interessi. Di qui il formarsi di un movimento indipendentista, nel quale dapprima intervengono anche alcuni bianchi illuminati, e che è duramente represso dai legittimisti. Segue la rivolta degli schiavi e dei liberti; alla fine il potere è assunto da Toussaint Louverture il cosiddetto «Napoleone negro»-, presto sconfitto dal generale Ledere e inviato in Francia. Tuttavia l'idea non si spense e la rivolta arse di nuovo, dopo una terribile epidemia, quella stessa in cui il generale francese morì. La guida della rivolta fu presa da Dessaline, il quale proclamò la repubblica, ma, morto in un'imboscata, gli si sostituì Henri Christophe, poi esautorato. È questo il momento in cui il personaggio porta a compimento la «sua» rivoluzione, e fortificatosi nel nord del paese vi proclama un regno indipendente, di cui si autoelegge sovrano.

In breve è questa la vicenda storica di Haiti. Ne El Reino de este Mundo, almeno per le prime due parti, nulla fa sospettare che Henri Christophe debba divenire protagonista rilevante delle restanti pagine del libro. Esistono, tuttavia, a ben guardare, alcune spie attraverso le quali si colgono i preannunci del ruolo del futuro re: nella seconda parte lo scrittore allude a un Henri Christophe «maestro cocinero», padrone di un albergo al Cap, dal nome significativo, La Corona, acquistato dal negro dall'antica padrona, Mademoiselle Monjeon130; quando Carpentier allude alla rivolta negra e all'eliminazione di Boukman, sottolinea che Monsieur Lenormand de Mezy recatosi al Cap trova chiusa l'osteria de La Corona, e ricorda «que el cocinero Henri Christophe había dejado el negocio, poco tiempo antes, para vestir el uniforme de artillero colonial»131. Significativamente, segno premonitore, è sottolineato che, andandosene, il negro si è portato via la corona dell'insegna, «da latón dorado»132 .

La terza e la quarta parte del romanzo sono dedicate alle vicende haitiane sotto il regno di Christophe. I tempi ad Haiti erano intanto cambiati e la spiritualità negra aveva finito per imporsi. Infatti, mentre Ti Noel, al seguito del padrone francese, rifugiato a Santiago de Cuba, coglieva nelle chiese della città un calore di «vodù» mai prima trovato nei templi «sansulpicianos» del Cap, e nell'oro dell'ornato, nei Cristi capelluti, negli animali simbolici della religione cattolica la stessa forza «avvolgente», un potere di seduzione proveniente da presenze, simboli, attributi e segni simile a quello che emanava dagli altari consacrati a Damballah, il Dio Serpente, nella sua isola, col trionfo delle armi negre guidate dall'intervento di Ogún Badagrí, si verifica un cambiamento sostanziale anche nell'ambito religioso. È il momento in cui nelle campagne di Haiti incominciano a comparire sacerdoti negri, «sin tonsura ni ordenación»133, detti «Padres de la Sabana»; abili come i preti francesi nel «decir latines» al capezzale degli agonizzanti, essi introducono una più aderente espressione religiosa, nella quale il popolo trova una chiarezza inedita: «se los entendía mejor» -scrive Carpentier134-, perché recitando il Pater nostro e l'Avemaria sapevano dare al testo «acentos e inflexiones» più simili a quelli di altri inni che tutti conoscevano. L'impressione è di riconquistata autenticità: «Por fin ciertos asuntos de vivos y de muertos empezaban a tratarse en familia»135 .

In questa atmosfera mutata, determinata dalla rivolta negra, Henri Christophe costruisce il suo regno, ma deforma e tradisce lo spirito del suo popolo perseguendo un'imitazione superficiale delle pompe napoleoniche e adottando la religione cattolica quale unica religione dello Stato. Nella terza parte de El Reino de este Mundo, Alejo Carpentier illustra succintamente la traiettoria di questo regno, lo splendore e la caduta del re negro. Con grande abilità egli va sottolineando i termini del «trastorno» attraverso lo stupore di Ti Noel, ormai vecchio, tornato ad Haiti come a una terra promessa, quella dei «Grandes Pactos», dopo l'abolizione della schiavitù, nell'incontro con una realtà umana ben diversa e con una società da operetta che non comprende. Se ora cammina su una terra dove la schiavitù è stata abolita per sempre, segni durissimi di rovina gli si presentano; e se i pochi uomini che incontra sulla sua strada non rispondono al saluto, «siguiendo con los ojos pegados al suelo, como el hocico de sus perros»136, la spiegazione di questa strana condotta incomincia a intravvederla nell'immensa «huerta», trasformata in «suntuoso vergel»137, dove molta gente lavora vigilata da soldati «que de cuando en cuando lanzaban un guijarro a un perezoso»138. Il primo pensiero del vecchio è che si tratti di prigionieri, ma sullo sfondo favoloso di Sans Souci, residenza di re Christophe, si definisce una realtà crudele, quella della schiavitù, esercitata ora da negri su negri. La «tremenda bastonata» che Ti Noel riceve in testa da una guardia accelera il passaggio dal disorientamento alla dura realtà. Egli stesso entrerà poi a far parte della lunga schiera di infelici che da oltre dodici anni sono intenti a costruire, sulla vetta delPArtibonite, l'immensa cittadella di La Ferrière.

In questa straziante realtà di dolore Alejo Carpentier denuncia la superficiale condotta di un re megalomane, completamente staccato, ormai, dalle radici spirituali del suo popolo: nel palazzo di Sans Souci le principessine Atenais e Amatista, vestite di raso «alamarado», giocano al «volante»; il confessore della regina, unico bianco, legge le Vite di Plutarco al principe ereditario; il re si compiace, e passeggiando per i giardini della regina col seguito dei suoi ministri coglie, «de paso», una rosa bianca appena sbocciata «sobre los bojes que perfilaban una corona y un ave fénix al pie de las alegorías de mármol»139.

In questa parte de El Reino de este Mundo lo scrittore affronta decisamente il tema della dittatura. Si tratta di un'epoca storica ormai remota, di una geografia assai limitata, ma il valore del simbolo rimane intatto. Carpentier sottolinea con l'amarezza della delusione negra, la crudeltà della condizione umana: centinaia di uomini «siempre espiados por látigo y fusil», intenti alla costruzione di opere viste solo nelle architetture immaginarie del Piranese140 . La tensione del «meraviglioso» fa spiccare ancor più la nota cupa della tragedia. Ti Noel, angolo visuale dal quale la realtà è affrontata, si rende presto conto che lo splendore, il fasto che distingue la corte di Henri Christophe si regge su una schiavitù non solo abominevole come quella conosciuta ai tempi di Lenormand de Mezy, ma peggiore, perché esercitata da fratelli su fratelli. Lo scrittore rileva nella riflessione del vecchio la «infinita miseria»141 di questa situazione, di fronte alla quale anche la schiavitù dei tempi passati, sotto i francesi, finisce per presentare qualche aspetto positivo, perché almeno allora i padroni di schiavi erano gelosi della buona conservazione del loro capitale umano, mentre ora la morte di un negro «nada costaba al tesoro público»142. Henri Christophe è il primo a confermarlo, ordinando a volte, «con un simple gesto de la fusta»143, la morte di un lavoratore sorpreso inattivo.

Definita l'atmosfera del regno di Henri Christophe, Alejo Carpentier si attarda intorno alla sua personalità. Dopo averlo mostrato ridicolmente irretito nella mania di imitazione europea, lo scrittore ne accentua la volgarità della figura: «Chato, muy fuerte, de tórax un tanto abarrilado, la nariz roma y la barba algo hundida en el cuello bordado de la casaca»144 . Per taluni aspetti il re permane legato alla spiritualità negra, ma il tono dominante della sua vita, pubblica e privata, lo allontana dalla sua gente. La gran fortezza dell'Artibonite viene innalzata come ridotto estremo del regno, ma perché sia resa invincibile si ricorre all'antico rito negro del sacrificio dei tori. Christophe continua, quindi, a credere nei poteri della religione negra, nelle sue divinità, come Ogùn, ma per essere un re «serio» e temuto dall'Occidente ritiene necessario imitarlo, scimmiottarlo. E tuttavia la sua figura si leva nel romanzo non solamente con l'alone della violenza barbara, ma circondata da un'atmosfera di particolare grandezza eroica. Nell'orgoglio smisurato che lo induce a proclamarsi primo re negro del continente americano, inebriato dalla propria condizione regale e dal potere, particolarmente quando si trova sull'alto della Cittadella -«Entonces, sin nada que pudiese hacer sombra ni pesar sobre él, más arriba de todo, erguido sobre su propia sombra, medía toda la extensión de su poder»145-, egli è tuttavia un sovrano infelice, destinato a essere abbandonato dai suoi e a morire di propria mano. L'abisso lo ha atteso sempre, in agguato costante. Quando visita la Cittadella Henri Christophe si reca sempre sulla terrazza più elevata, che guarda verso il mare, e, seduto su una poltrona, «al borde del abismo que hacía cerrar los ojos a los más acostumbrados»146, mentre misura con orgoglio l'estensione del suo potere, denuncia al tempo stesso l'attrazione del vuoto, che preannuncia la sua rovina.

Ciò che condanna il re è l'irrealtà del suo inserimento in un mondo che nulla ha a che vedere con quello vero, il mondo negro. Il popolo si sente tradito, non solo perché vessato e incatenato, più che durante il passato coloniale, ma perché il suo sovrano è ormai un bianco dalla pelle nera. Circondato dal risentimento e dall'odio Henri Christophe è perduto, ancor prima che giunga il momento del «Dies irae», della paralisi, che lo coglie in chiesa un 15 di agosto. L'Ultima ratio regum -titolo significativo del VI capitolo della terza parte-, quando il re si è in piccola misura ripreso, sta nella decisione, di fronte all'abbandono e alla rivolta, di togliersi la vita.

In questo capitolo Alejo Carpentier costruisce con visibile amore la figura del re e dell'uomo. Henri Christophe proietta, da questo momento, su tutto il romanzo, un'ombra dominante. La caduta ne ingigantisce la figura e lo scrittore sottolinea, con la dignità del re, l'umanità dell'infelice, di colui che si era creduto grande, onnipotente, forse amato più che temuto, e d'improvviso, gran tragedia dei re e dei tiranni, esperimenta il freddo senso della solitudine nella sventura, non tanto il terrore della morte. Nel palazzo di Sans Souci la solitudine ingigantisce le cose e diffonde intorno un freddo straziante:

«La ausencia de cortesanos, de lacayos, de guardias, daba una terrible vaciedad a los corredores y estancias. Las paredes parecían más altas; las baldosas, más anchas. El Salón de los Espejos no reflejó más figura que la del rey, hasta el trasmundo de sus cristales más lejanos [...]»147.



Il senso della grandezza perduta è reso dallo scrittore attraverso una serie di particolari minuti, efficaci: i grilli del soffitto a cassettoni, mai prima uditi, che ora danno al silenzio «una escala de profundidad»148, le candele sgocciolanti, una farfalla notturna che svolazza nella Sala del Consiglio, insetti che cadono al suolo, «con el inconfundible golpe de élitros de ciertos escarabajos voladores»149 . Il silenzio acquista una dimensione sinfonica, mentre il palazzo accentua i suoni vuoti, evoca l'eco dei tacchi nella gran sala dei ricevimenti, scopre la desolazione delle finestre spalancate sulla notte, il fuoco che muore nelle cucine, un panorama di bottiglie di vino vuote sparse a terra, segni del saccheggio delle dispense, il gran scalone sinistramente bianco, freddo e lugubre alla luce dei lampadari accesi, un pipistrello che svolazza disordinatamente sotto il soffitto di «oro viejo». Il senso di sconforto del re è reso in profondità: «El rey se apoyó en la balaustrada, buscando la solidez del mármol»150 .

E tuttavia Carpentier non è ancora pervenuto al punto di maggior rilievo nella costruzione della figura di re Christophe. Ciò avviene in un quadro del più barocco lugubrismo, sul ritmo del «memento» relativo alla polvere, alla natura crudamente peritura delle grandezze regali. Danza della morte e pittura -si pensi a Valdés Leal- si alleano, nella scena che presenta il re in amara contemplazione dello scudo con la divisa «Renazco de mis cenizas»151 quindi nell'atto di disseminare sul pavimento della sala del trono le monete con la sua effigie e le corone. Egli si siede poi sul trono, in allucinante atteggiamento riflessivo :

«Christophe abrió un cofre pesado, oculto por las borlas del terciopelo. Sacó un puñado de monedas de plata, marcadas con sus iniciales. Luego arrojó al suelo, una tras otra, varias coronas de oro macizo, de distinto espesor. Una de ellas alcanzó la puerta, rodando, escaleras abajo, con un estrépito que llenó todo el palacio. El rey se sentó en el trono viendo cómo acababan de derretirse las velas amarillas de un candelabro. Maquinalmente recitó el texto que encabezaba las actas públicas de su gobierno: “Henri, por la gracia de Dios y la Ley Constitucional del Estado, Rey de Haití, [...]”»152.



Perduto in una solitudine mai preveduta -«[...] no había pensado nunca que un día pudiese verse solo»153- indifeso contro il suo popolo -il sacrificio dei tori consumato per la Cittadella non ha potere che contro i bianchi-, abbandonato dagli «Alti Poteri» per avfer voluto ignorare il «vodú, e tradito anche dalle divinità cattoliche, al re non rimane altra soluzione che la morte. Ed Henri si uccide con un colpo di pistola alla tempia, conservando intatta la propria dignità regale, avendo indossato prima «ropa limpia y perfumada»154 e il miglior vestito da cerimonia.

Il trasporto del cadavere di Henri Christophe alla Cittadella avviene con scarso seguito, quattro paggi fedeli che reggono l'amaca, la moglie, le due principesse, il «lacayo», Solimán, già al servizio di Paolina Bonaparte. La sepoltura del re è singolare; essa avviene, nel fuggi fuggi generale dalla Cittadella, in un mucchio di «argamasa», nel quale il suo corpo affonda lentamente divenendo tutt'uno con la materia in progressiva solidificazione. Carpentier completa in quest'ultima scena il «túmulo» innalzato al re haitiano. Al senso lugubre della morte è evitato di proposito, e significativamente, da parte dello scrittore, il raccapriccio della consumazione:

«[...] Por fin se cerró la argamasa sobre los ojos de Henri Christophe, que proseguía, ahora, su lento viaje en descenso, en la entraña misma de una humedad que se iba haciendo menos envolvente.

Al fin el cadáver se detuvo, hecho uno con la piedra que lo apresaba. Después de haber escogido su propia muerte, Henri Christophe ignoraría la podredumbre de su carne, carne confundida con la materia misma de la fortaleza, inscrita dentro de su arquitectura, integrada en su cuerpo haldado de contrafuerte. La Montana del Gorro del Obispo, toda entera, se había transformando en el mausoleo del primer rey de Haiti»155.



Attraverso queste pagine la figura del re haitiano finisce per costruirsi in una dimensione umana che pone in ombra la sua azione di sovrano crudele, di tiranno e di schiavizzatore del popolo. La conclusione, efficace dal punto di vista artistico, lascia aperto un interrogativo intorno alle intenzioni dello scrittore. Intendeva Carpentier denunciare il tiranno, oppure porre in rilievo la sua figura singolare, quella di un re violento, ma difensore dell'indipendenza del suo regno? Non si dimentichi che nel «Prólogo» a El Reino de este Mundo lo scrittore parla di Henri Christophe come di un monarca «de increíbles empeños, mucho más sorprendente que todos los reyes crueles inventados por los surrealistas, muy afectos a tiranías imaginarias, aunque no padecidas»156. Il passo citato, oltre a contenere una chiara allusione alla diretta esperienza di Carpentier sotto la dittatura di Machado, immette, ritengo, con esattezza, nelle sue intenzioni: egli intende certamente denunciare la tirannia di Henri Christophe, ma in pari tempo è profondamente colpito dalla personalità inedita e straordinaria dell'uomo, nel quale vede l'incarnazione di un ribelle all'asservimento del mondo americano a quello europeo, anche se di questo scimmiotta costumi e cerimonie; una personalità storica nella quale la dimensione del «meraviglioso» si manifesta prepotente.

A distanza di anni, nel 1963, il martinicano Aimé Césaire pubblicherà La tragedie du Roi Christophe. Il dramma, senza occultare la nota ridicola insita nell'atteggiamento esteriore, occidentalizzante, del negro proclamatosi re, intende sottolineare nel personaggio un che «di grande e di patetico», in cui il destino del singolo si confonde con quello della collettività157. Tragedia, «ottimista» considera Césaire la sua, perché nella fine del re la figura di Henri ne esce esaltata. Egli non muore, infatti -lo scrittore martinicano lo sottolinea- «come un banale tiranno che venga trucidato»; e aggiunge: «La 'pièce' termina quasi con un'apoteosi e, a dispetto di tutto, v'è un seme di futuro nel suo scacco»158. Evidentemente, questo «futuro» è inteso da Césaire come la costruzione di uno stato negro indipendente. Christophe afferma infatti di aver giurato di «fondare la nazione»159, e rivendica per il suo popolo «il suo diritto! / la sua parte di storia!»160.

Ne El Reino de este Mundo Henri Christophe non pronuncia parole così elevate, né è dato intendere che sotto la sua ambizione e la sua crudeltà esistessero aneliti e disegni di significato tanto positivo. E neppure si registrano parole di parenti o di sudditi alla sua morte e al momento della sepoltura. Al contrario della Tragedie, dove la regina e il segretario del re, Vasty, danno col loro commento il tocco finale alla figura di Christophe, l'una introducendo nella celebrazione dell'uomo, «reculeur de brones», «forgeur d'astres», la nota del proprio sconforto di donna sola e anziana che «claudiquant à travers poussières et pluies / dans le jour ébreché jusqu'au bout du voyage / glanera ton nom»161, l'altro dando corpo alla dimensione mitica:


Roi sur nos épaules, nous t'avons conduit
par la montagne, au plus haut de la crue, ici.
Car ton chemin avait nom:
Soif-de-la-Montagne.
Et te révoila roi debout,
suspendant sur l'abîme ta propre table mémoriale.
Vous astres au coeur friable
vous nés du bûcher de l'Ethiopien Memnon
Oiseaux essaimeurs de pollens
dessinez-lui ses armes non périssables
d'azur au Phenix de gueules couronné d'or162



Non sembra dubbio che Aimé Césaire avesse ben presente El Reino de este Mundo per questo gran finale, nonostante che la Tragedie du Roi Christophe concluda tra fanfare funebri e salve di cannone, mentre nel romanzo di Carpentier la sepoltura del re avviene tra il risuonare cupo dei tamburi che incitano alla rivolta, sullo sfondo delle fiamme che ardono Sans Souci.

Ti Noel, rientrato nell'ombra davanti alla prepotente figura di Henri Cristophe, riemerge ora alla morte del re. Ciò avviene a partire dal secondo capitolo della quarta e ultima parte del romanzo. Il primo capitolo prospetta la residenza romana della famiglia reale, presenta l'incontro del negro Solimán, una notte, in palazzo Borghese, con la statua di Paolina Bonaparte realizzata dal Canova. Con sicuro intuito Emir Rodríguez Monegal parla, a questo proposito, di un incontro di magie che a vicenda si influenzano: «La magia blanca del escultor suscita la magia negra de Solimán, podría concluirse. Aquí está, a mi juicio, el emblema secreto de todo el relato: el momento en que la visión europea culta del autor realmente se encuentra con la visión mágica de sus personajes haitianos [...]»163. Ma per quanto riguarda la denuncia della condizione americana essa continua nel romanzo attraverso il ricomparso Ti Noel. Abbandonato Sans Souci, al cui saccheggio e rovina ha contribuito, vendicando sulle vestigia della monarchia la propria sofferenza, egli intraprende il lungo viaggio e affonda sempre più nel mondo magico, con la coscienza che «iban a vivirse grandes momentos»164, perché incomincia ad acquistare la certezza di avere una missione da compiere. Missione abilmente mantenuta nella dimensione del mistero dallo scrittore, se un giorno Ti Noel vede gli Agrimensores, venuti da Port-au-Prince, dove comandano i mulatti, andare e venire per i suoi -domini l'antica fattoria Lenormad-, tutto misurando e parlando una lingua odiata e dimenticata dal vecchio, il francese. È il ritorno della tirannia, di nuovo il lavoro imposto, il lavoro forzato, e padroni non migliori di re Christophe.

Alejo Carpentier denuncia nel fenomeno l'idra rinascente. Di fronte a questa realtà Ti Noel si sente disorientato e perde la fiducia nel futuro:

«[...] Por más que pensara, Ti Noel no veía la manera de ayudar a sus súbditos nuevamente encorvados bajo la tralla de alguien. El anciano comenzaba a desesperarse ante ese inacabable retoñar de cadenas, ese renacer de grillos, esa proliferación de miserias, que los más resignados acababan por aceptar como prueba de la inutilidad de toda rebeldía [...]»165.



Per sfuggire alla tirannia il vecchio, ricordando Mackandal e i suoi poteri magici di trasformazione, si nasconde sotto spoglie diverse di animali. Ma è un'evasione codarda e sterile. V'è una differenza tra la sua azione e quella di Mackandal, che questo si trasformava non per disertare il terreno degli uomini, ma per servire ad essi166. Quando Ti Noel coglie la contraddizione del suo atteggiamento, l'aspetto negativo, trova finalmente il significato della propria vita e di quella di tutti gli uomini che soffrono e lottano sulla terra. È il messaggio di Carpentier, la spiegazione finale del titolo del romanzo. Ti Noel infatti

«[...] comprendía, ahora, que el hombre nunca sabe para quién padece y espera. Padece y espera y trabaja para gentes que nunca conocerá, y que a su vez padecerán y esperarán y trabajarán para otros que tampoco serán felices, pues el hombre ansía siempre una felicidad situada más allá de la porción que le es otorgada. Pero la grandeza del hombre está precisamente en querer mejorar lo que es. En imponerse Tareas. En el Reino de los Cielos no hay grandeza que conquistar, puesto que allá todo es jerarquía establecida, incógnita despejada, existir sin término, imposibilidad de sacrificio, reposo y deleite. Por ello, agobiado de penas y de Tareas, hermoso dentro de su miseria, capaz de amar en medio de las plagas, el hombre sólo puede hallar su grandeza, su máxima medida en el Reino de este Mundo».167



La dichiarazione di guerra di Ti Noel ai nuovi padroni è la conseguenza di questo attinto senso della missione dell'uomo sulla terra. Tutta la natura magica si muove, scossa dal rinnovato spirito di lotta. Il regno di terrore, l'inferno nel «meraviglioso» continua. Ma El Reino de este Mundo conclude con una positiva apertura alla speranza. Dalla realtà, dura, crudele, Alejo Carpentier ha tratto il meraviglioso, e attraverso esso ha ribadito, con straordinaria efficacia, la sua condanna per l'inferno, la denuncia della tormentata condizione umana, in un libro il cui significato ha assunto nel tempo un valóre intramontabile, per novità e vigore d'invenzione e di linguaggio.




ArribaAbajo- IV -

Il regno del grottesco e del deforme: «El secuestro del General»


Nella lunga traiettoria della narrativa di Demetrio Aguilera-Malta El secuestro del General non è solamente l'opera più recente, ma la più nuova e originale. Autore di romanzi come Don Goyo (1933), Canal-Zone (19,35), La isla virgen (1942), nei quali precorse vigorosamente il «realismo magico», dando in pari tempo voce a una dura protesta contro la condizione americana, di una serie di «Episodios» continentali, di un recente e rivoluzionario romanzo in cui nuovamente la magia si fonde con la protesta, Siete lunas y siete serpientes (1970), partecipe entusiasta degli ideali della rivoluzione cubana in Una cruz en la Sierra Maestra (1960)168, drammaturgo di rilievo, sulla cui opera si fonda oggi in gran parte la maggior età del teatro equatoriano169, la sua personalità di scrittore si è imposta stabilmente in ambito internazionale.

El secuestro del General conferma decisamente l'intramontato vigore del narratore, la costante tensione al rinnovamento, le qualità singolari di forgiatore del linguaggio. I risultati artistici appaiono rilevanti e non v'è dubbio che in questo romanzo Demetrio Aguilera-Malta offre, almeno fino al momento attuale, la sua opera di maggior vigore, la più originale e sorprendente.

Pubblicato nel 1973, El secuestro del General inaugura concretamente la ripresa del tema della dittatura nella «nueva novela» ispano-americana. È vero che nel 1971 il messicano René Avilés Fabila pubblica El solitario de Palacio, ma si tratta piuttosto di un duro pamphlet contro l'eternarsi di un sistema personalistico di potere, che di un romanzo vero e proprio. Ed è altrettanto vero che nel 1972 Alejo Carpentier pubblica El derecho de asilo, ma neppure questo è un vero romanzo, tutt'al più un romanzo breve, in cui i temi della dittatura vengono rapidamente accennati. Se consideriamo, quindi, che solo nel 1974 appaiono El recurso del método, dello stesso Carpentier, e Yo el Supremo, di Augusto Roa Bastos, e che El otoño del Patriarca, di Gabriel García Márquez, è del 1975, resta chiaro il significato che il romanzo di Aguilera-Malta acquista come iniziatore di una rinnovata attenzione del narratore ispano-americano verso la forma violenta che più negativamente caratterizza la condizione del continente. È un atteggiamento che si ricollega direttamente a quello di Miguel Ángel Asturias ne El Señor Presidente, ma anche all'Alejo Carpentier de El Reino de este Mundo, certo con una preoccupazione nuova per quanto concerne l'espressione e la struttura dell'opera narrativa.

El secuestro del General si costruisce su 27 capitoli recanti per titolo unicamente il numero progressivo che a ognuno corrisponde, espresso in lettere. Ogni capitolo presenta stacchi che distinguono parti diverse. Nelle 244 pagine del testo si snoda una vicenda che ha dell'allucinante, come del resto è allucinante tutto ciò che avviene sotto la dittatura. Un gruppo di guerriglieri, infatti, rapisce il Generale Jonàs Pitecantropo all'uscita da un ricevimento dell'Ambasciata «de la Gran Marana»170 3, ossia degli Stati Uniti. Si tratta del numero uno del regime, al cui vertice sta, nominalmente, un vecchio dittatore -l'«Óseo», alias «Esqueleto-disfrazado-de-hombre», alias «Verbofilia», «Calcáreo», «Holofernes» di nome, per gli intimi «Holo»-, e questo scuote tutta la nazione di Babelandia, paese «poliglotta», in cui ogni «babelandense», pur usando la medesima lingua, «habla un lenguaje diferente», dove «la comunicación es un tabú perenne: nadie se entiende con nadie...171.

Le sconcertanti richieste dei guerriglieri per il rilascio del generale -la libertà per i prigionieri politici, una libbra delle ossa del dittatore, trecento funerali di prima classe per personalità del regime, scelte direttamente dai sequestratori- piomba nella più grande confusione e nel terrore le alte cariche dello stato.

In questa vicenda, tra il reale e il fantastico, si intrecciano due romanzetti d'amore: del capitano guerrigliero Fùlgido per Maria, e di Eneas, suo aiutante, per Ludivinia. Il primo di questi amori ha uno sviluppo positivo, nonostante le torbide trame del patrigno della ragazza, innamorato della figliastra; il secondo, insidiato dalla libidine di un prete indegno, il «cura Polígamo», ha svolgimento negativo e fine tragica: il prete seduce, infatti, la donna e questa, incinta, muore nel dare a luce un diavolo.

Siamo in un'atmosfera nella quale la fantasia, l'allucinazione, la magia si contendono il campo, denunciando, in pari tempo, una realtà totalmente negativa, profondamente inquietante. La conclusione del romanzo appare scontata.

La vittoria no-n può che arridere ai guerriglieri e al popolo. Al pessimismo di Asturias e di Carpentier, nonostante tutte le tentate aperture alla speranza, ne El Señor Presidente e El Reino de este Mundo, Aguilera-Malta oppone una visione ottimista della realtà, almeno come risultato finale, nella vittoria del bene contro il male. Partendo da Una cruz en la Sierra Maestra, infatti, egli supera, in modo definitivo, il pessimismo che aveva caratterizzato la sua denuncia della situazione americana, non solo in Canal-Zone, ma anche in Don Goyo e ne La isla virgen. In epoca recente Aguilera-Malta aveva già manifestato tale atteggiamento, di ostinata apertura a un mondo di segno positivo, in Siete lunas y siete serpientes. È questo il contributo che lo scrittore equatoriano porta alla lotta per la libertà e per un futuro migliore nel mondo americano. Non diversamente, dopo El Señor Presidente, si era orientato Miguel Ángel Asturias nella trilogia della «Bananera». In altro campo, quello della poesia, Pablo Neruda aveva da sempre difeso questa prospettiva, al disopra della tragica realtà dell'America, ostinatamente interpretata come contingente.

Il romanzo di Aguilera-Malta procede sostanzialmente, secondo una linea cronologica, che va dalla rivolta guerrigliera alla vittoria. Nel testo, tuttavia, non mancano i ritorni al passato, agganci a fatti antecedenti, per ricostruire situazioni che valgono a spiegare lo stato «attuale» delle cose e avvenimenti contemporanei. Non si notano, in questo senso, eccessive novità di struttura nel romanzo. È, comunque, da segnalare, tra gli accennati agganci a episodi anteriori, al fine di ricostruire le ragioni dei fatti o il retroterra dei personaggi, un vistoso saldarsi del capitolo «Veintidós» con il capitolo primo, alla pagina 210, nell'esposizione dell'atteggiamento dei guerriglieri Fulgido ed Eneas. Anche l'attualità temporale è qualche volta ribadita attraverso la menzione di personaggi contemporanei noti internazionalmente. Quando il dittatore, che ha fatto del paese la sua «hacienda» personale e degli abitanti «peones con cadenas»172, si trova di fronte alla situazione determinata dal sequestro del generale, ad esempio, è indotto a pensare che quella del sequestro potrebbe essere una prospera industria se esercitata nei confronti di personalità di rilievo, come il Papa, Rockfeller, Onassis. Egli pensa: «Si no tuviera el negocio de la dictadura [...] estaría compitiendo con los secuestradores [...]»173.

Ciò che più richiama l'attenzione del lettore e del critico, ne El secuestro del General, è il continuo e riuscito intervento dell'autore, sia nell'immagine che nell'espressione linguistica. Nel primo aspetto Aguilera-Malta persegue una cosificazione e un'animalizzazione dei personaggi che raggiunge risultati assai notevoli; nel secondo il linguaggio è reso pregnante, vivo, dinamico, estremamente espressivo, attraverso un continuo intervento creativo originale; lo scrittore profonde nel romanzo metafore, onomatopee, neologismi, ricorre a insistiti e sempre nuovi giochi di parole. Non in modo diverso operava sul tessuto linguistico dei suoi libri Miguel Ángel Asturias, in una sfera di originalità propria, s'intende, come in una sfera propria e ben definita di autonomia opera Aguilera-Malta.

Eliminando i riferimenti temporali concreti, sostituendo ai nomi propri dei personaggi nomi simbolici, nei quali si caratterizzano le dimensioni interiori, negative o positive, dei protagonisti, lo scrittore equatoriano crea un microcosmo inquietante, sovrastato dalla «tutankamónica nomia resurrecta» del dittatore174, caratterizzato continuamente dagli «anárquicos marfiles»175, in una struttura puramente ossea e disarticolata, «Víbora blanca»176, circondato da uomini-cose e uomini-animali.

Il luogo geografico in cui questo mondo cosificato e animalizzato ha la sua ubicazione non è denunciato nel romanzo. Sappiamo solo di uno stato simbolicamente chiamato Babelandia, con capitale omonima e una città denominata, non meno simbolicamente, Laberinto. È uno stato che si potrebbe situare dovunque, in America o fuori di essa, anche se è indubbio che l'intenzione di Aguilera-Malta sia di radiografare una situazione americana, denunciata, d'altra parte, in modo concreto, attraverso la totale soggezione del paese agli Stati Uniti, nel predominio della «Embajada de la Gran Marana» e nel commercio lucroso di residuati bellici esercitato da generali corrotti. Neppure il paesaggio, quasi inesistente nel romanzo, soccorre il lettore per una localizzazione concreta del paese. Tuttavia, istintivamente, forse per sporadiche allusioni a taluni vegetali, i «bananos», e ad accidenti geografici, vulcani e isole, siamo indotti a pensare a Babelandia come a una regione del Tropico. È fuor di dubbio che Demetrio Aguilera-Malta, da anni in esilio in Messico, abbia avuto vivamente presente, al momento di scrivere il libro, la situazione, e la geografia, del suo paese, l'Ecuador, dominato da lunghe e crudeli dittature militari. Ma il problema della ubicazione geografica di Babelandia non ha molta importanza nella valutazione de El secuestro del General; esso si pone solamente per stabilire un'eventuale continuità di scenario, quello divenuto abituale nel romanzo ispano-americano della dittatura, a partire non solo da El Señor Presidente, ma addirittura da Tirano Banderas di Valle-Inclán. Ciò che importa è l'efficacia della caratterizzazione di un mondo negativo, la portata della denuncia.

Se Babelandia è presentata dallo scrittore come una città dove la comunicazione è impossibile e dove, pur attraverso l'uso di un identico idioma nessuno si intende, la capitale dello stato è la concrezione di tutto ciò che vi è di più negativo. Come una città infernale -il ricordo della Commedia dantesca viene spontaneo- essa è «amurallada de infamia y silencio»177 , popolata di esseri completamente abulici e abietti:

«[...] Ante las cosas verdaderas y profundas los babelandenses -aunque hablaran- eran casi sordomudos. Los humildes porque no disponían de interés, ni ánimo, ni tiempo para hablar. Y los poderosos porque cuando lo hacían daban significado diferente a las palabras. Honradez, amor, trabajo, dicha, por ejemplo, simplemente expresaban otra cosa. En ciertas ocasiones, lo contrario [...]»178.



Demetrio Aguilera-Malta sottolinea con insistenza, in Babelandia, il regno del silenzio, come elemento negativo: «En Babelandia, capital de Babelandia, se extendía un gran silencio»179. È il momento delle grandi decisioni per il sequestro del generale Jonás Pitecantropo e lo stesso silenzio domina, con significato inquietante, nel palazzo del dittatore, reso più profondo, per contrasto, dai passi delle sentinelle e dal mormorio delle acque: «En el Palacio, dentro del marco casi mudo del ambiente, crecían las monótonas pisadas de los centinelas y el susurro de las fuentes [...]»180 .

Quanto alla città di Laberinto, gli abitanti di essa sono presentati nella condizione di «mentes cloacas»181; perduti nel pettegolezzo e nella malvagità, essi esplicano un singolare dinamismo solo nel male:

«Prácticamente sólo muy pocos trabajaban. Tenían ocupación suficiente con soltar la sinhueso y enroscarla en algún oído ajeno. El pueblo entero daba la impresión de un tejido hecho de orejas y de lenguas»182.



Leggendo questo passo viene spontaneo di ripensare alla foresta surreale di orecchie descritta da Asturias ne El Señor Presidente, anche se Aguilera-Malta opta per la sinteticità e aggiunge nuovi elementi al quadro.

Nel romanzo di cui trattiamo il mondo infernale della città è caratterizzato non meno profondamente e il lettore è indotto a un istintivo ripudio, attraverso la materializzazione più cruda delle note negative che lo distinguono. Laberinto si presenta come un «pueblo de mil vericuetos, fácil entrada, difícil salida, enredadera de estómagos hambrientos y cerebros cautivos [...]»183. L'orma della Commedia di Dante è sempre più trasparente nella presentazione della «città dolente»; parrebbe di dovervi leggere, apposta all'ingresso, la scritta che presiede all'inferno dantesco. Ma le materializzazioni volgari degli esseri che vivono nella città riportano anche ai Sueños di Quevedo. Creature infernali abitano Laberinto, città in cui trionfano solamente esseri «de entraña de ácido sulfúrico, los pulpos de excremento que con sus tentáculos ahogan lo mejor de todo» 184.

Il mondo di Babelandia è stigmatizzato da Aguilera-Malta in quanto presenta di più negativo nella dimensione spirituale. Non si tratta solamente di una gerarchia di violenti e di approflttatori, ma di un'umanità che ha abdicato collettivamente alla coscienza. Anche la stampa, come è naturale in questi regimi, è venduta, e lo sono la radio e la televisione. Ricorrenti cartelloni vengono innalzati a celebrare il dittatore, con espressioni di un grottesco iperbolico, come «nuestro Redentor» e «Salvador»185 . Babelandia è il «paraíso de los confundidos y de los incomunicados»186. Un annunciatore dei pie quotati, «As de Oro», definito «miel, clavo y canela de los locutores»187, parla «a tiempo», ossia solo in funzione delle monete che gli vengono introdotte in una «ranura ad hoc traga monedas»188. Efficace nella denuncia della situazione di completo asservimento dei mezzi di informazione è un passo in cui le notizie vengono intercalate ad annunci pubblicitari, suscitando effetto comico e grottesco. Non diversamente operava Miguel Ángel Asturias dalla radio guatemalteca con il «Diario del Aire», ai tempi del dittatore Ubico, avendo per fine di sommergere nel ridicolo il regime. In altre pagine de El secuestro del General Demetrio Aguilera-Malta si era scagliato contro la pubblicità denunciandone il «cretinismo»: «Como paréntesis, aparecieron varios cretinos diciendo y haciendo cosas idem, para los sendos anuncios idem del cigarrillo y la cerveza» 189. Nel passo al quale dianzi facevo riferimento, la fusione tra umorismo e grottesco è perfetta e stigmatizza efficacemente il clima insostanziale della dittatura:

[...] El locutor decía: «Hasta ahora no hay ni rastro del general Jonás Pitecantropo. Como si se lo hubiera tragado la tierra. La ciudadania está alarmada, sin saber a qué atenerse. A pesar de la recompensa del medio millón de pesos, ofrecida por el Secretano de Defensa, nadie ha dado ni un informe. No hay mejor compañera que la Rubia. No lo olvide. Para sobrellevar la tristeza que le cause este secuestro, ¡téngala a su lado! Se esperan noticias sensacionales, de un momento a otro. No apague su receptor. ¡Estamos en cadena y seguiremos encadenados hasta que nos desencadenemos, cuando aparezca el Jefe de las Fuerzas Armadas! Lo único que se sabe es que continua en poder de Los Amautas. Mientras lo encuentran, no suelte a la Rubia. Entre todas, la mejor. Disfrútela. Disfrútela a toda hora. No abandone ni un momento su dulce compañía. Esta madrugada entrevistamos al Secretario de Gobierno. Sigue sin pegar los ojos. No los pegará hasta que encuentre al Secuestrado. Nos manifestó que los ofidios que realizan las pesquizas -¡cincuenta mil ofidios!- tienen ya muchas pistas. No se pueden hacer públicas porque se entorpecería la acción de la justicia. A propósito de justicia, ¡hágase justicia usted mismo! No suelte a la rubia. Con ella estará confortable a toda hora... [...]».190



Il potere di suggestione e di rincretinimento della trasmissione è tale che anche il dittatore, che l'ascolta dal suo Palazzo, ne è contagiato e invece di chiedere una salvietta chiede alla moglie stupita una birra: «Esos anuncios -commenta- vuelven estúpido a cualquiera. Lo que quiero es una toalla»191.

In un ambiente così negativamente caratterizzato le «Fuerzas Vivas del País» - il ricorso alla maiuscola per sottolineare ironicamente il contrario di quanto apparentemente affermato, è continuo nel testo - poste di fronte al pericolo stanno «pendenti» dal respiro «de vejiga perforada»192 del dittatore.

Nelle pagine de El secuestro del General prende corpo una commedia tragica, si agita un mondo abnorme, nel quale sembra regnare un ordine rigoroso, quello imposto dalla violenza «pacificatrice» del regime. L'Università, infatti, è chiusa da tempo; gli oppositori, i pachi rimasti, sono «almacenados en la cárcel»193, gli altri, la maggior parte, «se fueron muriendo inexplicablemente»194, cioè furono assassinati. Pur di avere studenti ribelli da punire come «escarmiento», in un'occasione come quella del sequestro del generale Pitecantropo, un ministro propone al dittatore di riaprire per un istante l'Università, onde avere la possibilità di chiuderla di nuovo e di reprimere duramente il disordine studentesco, secondo lo stile delle dittature. Di fronte alla miracolosa assenza di nemici da punire, il narratore pone in bocca al despota, sottolineandola con acuta ironia, l'esclamazione: «La Providencia está de nuestro lado»195. Aguilera-Malta insiste abilmente sulla nota grottesca, per dar più durezza alla denuncia della tragedia. Pronunciando l'esclamazione riportata il dittatore viene presentato con aspetto animale: «Puso cara de vaca con aftosa. Medio cerró los ojos»196. È la prova che nel suo «regno» tutto funziona: «¡Su palabra es la Ley!»197, afferma servilmente uno dei cortigiani; ma lo è in un mondo animale. Il quadro è rifinito ricorrendo al ridicolo e all'animalità e il dittatore naufraga definitivamente in un clima che ne svuota l'apparente «dignità», in un grottesco che tutto distrugge: «Lo inundó una placidez de ternero a toda leche»198 .

Grottesco e deforme sono i mezzi cui ricorre con insistenza lo scrittore nel romanzo, per distruggere i personaggi sui quali si regge la dittatura e che la rappresentano. Stigmatizzata la dipendenza della forma dispotica di governo dai «Dueños de Nuestra Época»199 , ossia dagli Stati Uniti, ai quali viene rimproverata così una grande responsabilità di carattere morale, Demetrio Aguilera-Malta si sofferma con godimento a presentare un dittatore che è solo apparentemente padrone del paese; in realtà si tratta di un robot che parla a comando, per mezzo di cassettes già incise. Il despota è, infatti, piuttosto il fantasma di un uomo, ridotto una «sarta»; d'ossa disarticolate, destinato alla fine a morire per sincope cardiaca, quando gli giunge notizia della vittoria dei guerriglieri e dell'abbandono dei suoi.

Lo scrittore presenta il personaggio come una sorta di fantoccio crudele, tra il reale e l'irreale, galoppante non di rado, come una strega, sul cavallo d'acciaio della sua spada. Apparentemente onnipotente, il suo potere è in realtà illusorio, poiché egli domina soggetto all'ombra del potente generale Jonás Pitecantropo, vero padrone del paese, tanto che si fa trasportare con pompa babilonica «en andas de oro» dai Segretari di Stato200 . Aguilera-Malta insiste sul particolare iperbolico, irreale e grottesco, e più ancora sull'attrazione animale del Segretario alla Difesa che, nella sua vocazione servile, è trascinato irresistibilmente a trasformarsi in cavalcatura dell'uomo potente.

«Cascabel se derrumbó. ¡Cuánta desgracia! No podía. Ya le estaba creciendo la quijada. Por más que lo intentase, ¡inútil! Pies y manos se le convertían en cascos. La esclavitud -infeliz caballo esclavo- le clavaba sus cadenas más adentro. Le nacía la ondulante cola. ¡Inútil! ¡Todo inútil! Siento que me curvo. [...]201



Ma anche il generale Jonás Pitecantropo prova irresistibili attrazioni verso il mondo primitivo e animale. La sua natura infima, caratterizzata esteriormente da una «microtesta»202 e da «belfos agresivos»203, lo trascina alle lontane origini scimmiesche. Dalle sue labbra esce, alla fine, il grido animale: «-¡Uaaa! ¡Uuuaaa! ¡Uuuuuuaaaa!-»204 . Quando è nelle mani dei guerriglieri, chiuso in una gabbia sospesa sull'abisso e sottoposto al supplizio di Tantalo, in vista di banane irraggiungibili e delle quali è animalescamente goloso, la sua trasformazione animale è completa. Egli è ormai un abitante della selva, un grosso scimmione dotato di parola. La presenza dei vulcani torna, così, a infondere in lui terrori atavici, riportandolo indietro nel tempo, «a otras épocas casi olvidadas en su ayer. Cuando todavía era un habitante del enmaranado ambiente verde sepia [...]»205.

La distruzione del personaggio è perseguita con costante successo dallo scrittore, sia sul piano della cosificazione che dell'animalizzazione. Alla notizia del sequestro del generale Jonás Pitecantropo, ad esempio, il dittatore lo sostituisce con un nuovo robot, fabbrica un nuovo colonnello, da presentare al Parlamento perché lo promuova generale, traendolo da un «ropero amplísimo», nel quale «se veían varios coroneles», e gli infonde vita cacciandogli in bocca «un puñado de papel moneda»206. La denuncia dell'avidità dell'esercito è chiara. Il nuovo creato è pronto per la sua funzione: «El Coronel lo saludó, cuadrándose. El Dictador lo descolgó. El Descolgado comenzó una marcha imprecisa de ganso enfermo con vocaciones homicidas [...]»207.

Le alte istituzioni dello stato sono anch'esse prese di mira dal narratore dissacrante. Il «solemne recinto» del Congresso è formato di «hombres-camaleones», che in luogo di parole emettono «ronquidos peristálticos»208, esseri assetati solo di danaro. La denuncia della loro avidità insaziabile è durissima da parte dello scrittore. Egli condanna nei militari e nei politici tutta una classe dirigente latino-americana, sradicata dalla sostanza vitale del paese. Non si tratta di uomini, ma di animali, e dei meno nobili tra essi. Il continuo ricorso all'identificazione negativa dell'uomo con l'animale dà all'accusa di Demetrio Aguilera-Malta particolare vigore e accentua il carattere originale e inedito dell'invenzione. Lo spettacolo dei senatori, che, quietate le ansie di danaro con la prospettiva di un'equa spartizione, tornano al sonno abituale sui banchi del Congresso, precipita nel grottesco la più alta istituzione dello stato:

«[...] Arrastrando la cola y bostezando, regresaron a su asiento. Apoyaron la acordeónica testa en las mesillas. El sueño fue cerrándoles los párpados. Y a poco florecieron los ronquidos nuevamente. [...]»209.



Intorno al dittatore vive, o meglio vegeta, una fauna animale che affonda nel servilismo e nell'adulazione. Con risultati straordinari dal punto di vista della distruzione del personaggio, Demetrio Aguilera-Malta opfera sui protagonisti della dittatura accentuandone le note negative. Con particolare incisività egli si attarda, ad esempio, a descrivere il Segretario del dittatore, «Baco-Alfombra», alias «Rastreante», alias «Bueno-para-todo», che quando entra al richiamo del padrone si sdraia pancia a terra, tira fuori la lingua come un cane e la passa «por el empeine de las extremidades inferiores de su jefe»210.

Anche i sostenitori di minor rilievo del regime, quelli che formano la cosiddetta base «popolare», sono presentati con grottesche connotazioni animali. In occasione della ricorrenza commemorativa per uno scampato pericolo da parte del dittatore, una minoranza venduta inneggia al despota davanti al palazzo presidenziale; ed è un'accolta non di uomini, ma di animali:

«Pocos eran humanos. La mayoría la integraban diversos animales, aunque predominaban camaleones. Había, también, uno que otro rumiante. Caminaban de un lado para otro. Se arremolinaban. [...]»211.



In questo clima l'atto di omaggio viene presentato al dittatore da un uomo-bue. La scena richiama quella de El Señor Presidente, in cui la «Lengua de Vaca», in occasione simile, inneggia al despota con un discorso sconclusionato. Ma Demetrio Aguilera-Malta elabora con maggior fruizione la scena, raggiungendo una nota così efficace di grottesco che coinvolge tutto il mondo deforme sul quale la dittatura esercita il suo potere disumanizzante:

«[...] Subió un buey para ofrecer el acto. Se acercó al micrófono. De nuevo, impero total silencio. El Vacuno se paró en las dos patas traseras. Introdujo la lengua en cada una de sus fosas nasales. Pausa. Comenzó solemnemente:

-Excelencia...

A continuación, lo invadió una extraña placidez. Entrecerró los ojos. Y principio a rumiar acompasadamente. A la distancia en que se hallaba, el público no lo veía con claridad. Si lo hubiese visto, se habría dado cuenta del muelle vaivén de sus mandíbulas diminutas mecedoras incansables y de la evasión total que disfrutaba. El buey abrió los ojos. Sonrió. Se inclinó:

-He dicho.

El público aplaudió. Holofernes le dio un estrecho abrazo. El público siguió aplaudiendo. Se acercaron varios fotógrafos y camarógrafos. Captaron, en instantáneas o movimiento, la imponderable escena de ternura. El Rumiante regresó a su sitio, con perfecta conciencia del deber cumplido. El público dejó de aplaudir. [...]»212.



Se nel romanzo di Miguel Ángel Asturias il discorso della «Lengua de Vaca» era senza senso, nel libro di Aguilera-Malta il «Buey» fa solo l'atto di parlare, muovendo, come il ruminante cui è paragonato, solo le mandibole. L'umorismo acre, distruttivo, del narratore equatoriano, incide profondamente nel dramma che la dittatura rappresenta in quanto distruzione dell'individuo. Del pari nel grottesco naufragano le alte cariche dello stato: il giovane «Secretario de Gobierno» Cerdo Rigoletto, definito «albóndiga con cabeza de merengue»213, l'Ammiraglio senza navi Neptuno Rio-del-Rio, il Comandante delle forze aeree -vecchi apparecchi residuati di guerra, gran «negocio» della dittatura- Panfilo Alas-Rotas, il Segretario alle Opere Pubbliche, Plàcido Ruedas... I nomi, di chiaro significato simbolico, sono essi stessi distruttivi dei personaggi.

Nella riunione di emergenza, convocata dal dittatore per il rapimento del generale Jonás Pitecantropo, si raccoglie intorno a lui una strana e inquietante fauna animale:

«[...] Los altos funcionarios lo rodeaban, aves de rapina ante escasa mortecina. Iban llegando en formas diferentes. Unos, con bozal. Otros, en cuatro. Varios, de rodillas. Muy pocos, erectos y tranquilos, sobre sus dos extremidades. Ya estaba el Gabinete, en pleno. La crema y nata del Ejército, la Aviación y la Marina, La fofa burocracia que digería, como siempre, los banquetes opíparos del Presupuesto. Por su parte Baco-Alfombra -ardilla prodigiosa- daba saltos de un lado para otro, realizando múltiples funciones. [...]»214.



Un procedimento al quale Demetrio Aguilera-Malta ricorre con insistenza per distruggere nel ridicolo e nel grottesco i personaggi è quello, già presente in Asturias, a partire da El Señor Presidente, di sottolineare in essi la mancanza di virilità, o addirittura la presenza di un'accentuata tendenza omosessuale. È il caso del Capo del Protocollo, Narciso Vaselina -«los envidiosos lo llamaban 'la vaselina del protoculo'»215- e del ricchissimo Fofo Opíparo, del quale Narciso è innamorato. Lo scrittore incomincia col presentare il personaggio come un «pigmeo farsesco», quasi «más ancho que alto», che dà l'impressione «de una elefantita embarazada»216, quindi elabora con insistenza l'immagine sconcertante, presentando l'uomo in un procedere inequivocabile: «Se movía lentamente, arrastrando los pies, chapoteando los gluteos»217. Ma il procedimento non si arresta qui; Aguilera-Malta informa, infatti, ulteriormente, che, «Chapeadito, blanducho y casi andrógino con sonrisa infantil y manos regordetas, de cangrejo blanco, parecía pan comido»218. Quindi vengono altri particolari, e l'autore sottolinea le relazioni ibride tra Narciso e Fofo, padrone del Club de los Calapatillos, «el más popof, pipif, pupuf de Babelandia»219 . Nella presentazione dei due «amanti» il grottesco ingigantisce, con crescente effetto distruttivo, provocando, attraverso il ridicolo, la divertita partecipazione del lettore. Fofo, infatti, si presenta «anchísimo», di contro a Narciso, «pequeñín», «medio-globo», provvisto di una «microvoz» che ha qualcosa di «caricia porcina»220, una vocina «escapándose de su boca de esfínter»221 . Il narratore non esita a ricorrere a terminologie ardite per ottenere la completa distruzione del personaggio. La scena si anima e si conclude in un clima ibrido di singolare mollezza:

«[...] El escuálido joven (Narciso), libidinizado ante la figura ambivalente, se había dejado impulsar por su arrebato y había dado dos ósculos -en cada mejilla uno- a Fofo Opíparo. El Acariciado, con voz melosa, inocente y de fragancias oscuras, sugiriole:

-Compórtese, don Chicho.

Éste se movió, asincopado, al ritmo de una especie de Baile de San Vito. Se contuvo. [...]»222.



La scelta del vocabolo, dell'aggettivo, è sempre in funzione di una resa più profonda del clima, quindi della condanna di una società corrotta e svirilizzata. In ogni scena del romanzo non si tratta mai di puro gioco, ma tutto si inserisce in modo determinante nel processo di distruzione della dittatura. E al clima corrotto e grottesco del regime dispotico l'ibrido contribuisce efficacemente. Del resto anche dal punto di vista della presa che esso ha sul lettore lo scopo è pienamente raggiunto. Lo si veda nella serie di definizioni dei personaggi allusi, che avviene in un crescendo di grottesco: Fofo è detto «El Acariciado», il «gorducho», il «Club-man-woman»223 , «El Anchísimo»224 , l'«albo probóscido»225 , «El Algodonoso»226 , e Vaselina «el escuálido joven»227, il «pequeñín»228; i due vengono caratterizzati non solo nell'aspetto «blanducho», nel tono «encaramelado»229, ma anche ricorrendo a particolari più ibridi: «Vaselina se estremeció el sudoeste de la bragueta. De un salto se abrazó al pequeñín. Le clavó la quijada en el hombro algodonoso [...]»230.

Il culmine del grottesco è raggiunto quando Fofo Opíparo è presentato -nel momento in cui, disdetto a causa del rapimento del generale il programmato banchetto ufficiale delle alte cariche del regime, vede sfumare la prospettiva di pingui guadagni- seduto in una tinozza, trasformato in fontana piangente:

«Los altos funcionarios encontraron a Fofo Opíparo dándose un baño con el jugo de sus ojos. Puro llanto. Había llorado tanto que, para hacerlo mejor, se instaló en la tina de su baño. Desnudo, pulposo, flatulento, continuaba llorando. Cada vez que llenaba la tina, abría la llave y dejaba correr sus nuevas lágrimas. Al mirarlos, entre sollozos, comentó:

-¡Qué desgracia tan grande! ¿No?»231.



Il lettore ha l'impressione di trovarsi davanti a una di quelle strane scene di Jacovitti, in cui l'assurdo si presenta a livello di normalità quotidiana.

Anche il ricorso all'erotico è uno dei mezzi preferiti da Demetrio Aguilera-Malta per la distruzione del personaggio. Egli vi ricorse anche prima, con esiti di particolare efficacia, sia in Canal-Zone, per denunciare nell'amore a prezzo dei marinai statunitensi la lacerazione prodotta nel tessuto nazionale di Panama dalla presenza straniera, sia in Siete lunas y siete serpientes, per demolire, sottolineando l'impotenza dello schiavizzatore di Santorontón, l'apparente onnipotenza del personaggio. Ne El secuestro del General il ricorso all'erotico come elemento negativo si concreta non solo nella presentazione degli omosessuali Fofo Opíparo e Narciso Vaselina, ma nella caratterizzazione di tipi che popolano il mondo infernale di Laberinto, come il ricco allevatore Epifanio San Toro e il prete libertino Poligamo. Risultati immediati di questo ricorso all'erotico sono ancora una volta il deforme e il grottesco. In altre pagine Demetrio Aguilera-Malta aveva presentato il singolare personaggio di Epifanio con un divertito gioco di parole in crescendo, che ne poneva in rilievo la deformità fisica, di «Bola-bolón-de-queso», aggiungendo che «el olor a esto lo circundaba como una aureola» 232. Più tardi mostra l'uomo quasi innamorato del ^superbo toro Napoleón, la cui vigoria procreativa ha su di lui un effetto conturbante, ma solo apparentemente di eccitazione virile: «Sólo al imaginarlo en sus espectaculares amores fisiológicos le trepidaba su propio aparato genito urinario -más urinario que génito, por cierto-»233. Lo stesso procedimento serve a porre in rilievo l'assatanato desiderio sessuale della figlia di don Epifanio, Pepita, detta la «poliviuda»234 per i diversi mariti da lei distrutti fisicamente; essa sogna addirittura di essere posseduta mostruosamente dal gigantesco animale, cinquecento chili, un «motor zoológico»235.

Forse lo scrittore insiste eccessivamente, talvolta, su questo motivo, ma il risultato è quasi sempre efficace e vale a stigmatizzare meglio un mondo perduto nel peccato. A questo risponde anche l'insistenza con cui Aguilera-Malta si sofferma a descrivere il progredire smisurato dell'organo peccatore nel «cura» Polígamo. L'iperbole erotica si sviluppa attraverso numerose pagine, in un crescendo allucinante; finché tutto appare invaso dall'organo mostruoso, simbolo del male, che penetra in ogni cosa, si arrampica su per i tetti delle case, entra per porte e finestre236. Il peccato, infatti, si insinua dovunque, con violenza irresistibile, e la gente è convinta che il prete sia «el mismísimo Señor de las Tinieblas»237, che il Maligno si sia cacciato definitivamente nel suo «almario». La prova è data dalla nascita del piccolo demonio, partorito da Ludivinia, sua concubina :

«[...] Primero asomó un cuerno. Después, otro. Se movieron de un lado a otro. Abrieron una tronera, cada vez mayor, en el vientre. No se quejaba ya. Sus ojos vidriosos miraban fijamente. Los cuernos seguían moviéndose, frenéticos. Emergió el cuerpo del extraño ser. Era verde -verde-azufre- de la oreja al rabo. Terminó de liberarse. Dio un salto y se alejó brincando en un solo pie [...]»238.



Il nuovo avvento del demonio sulla terra si verifica con la morte di colei che si è prestata sacrilegamente a generarlo. Il clima deforme della dittatura conclude con questa apparizione demoniaca; essa proietta su tutti i protagonisti di Babelandia una luce sinistra, infernale. La condanna del mondo della dittatura è quindi piena, senza via di scampo, di riscatto.

Se il mondo di Babelandia è condannato, lo è per quanto di negativo esso presenta, ossia per tutto ciò che è espressione del particolare tipo di regime politico che lo qualifica. Le vere forze sane della nazione stanno dalla parte dei guerriglieri, che si oppongono al sistema, cioè al male. La prima pagina de El secuestro del General si apre, infatti, con la presentazione del capitano Fúlgido Estrella levatosi in armi contro i «Dueños de Nuestra Época», già allusi, contro i «Verbofilia» e i «Pitecantropos». Come in Una cruz en la Sierra Maestra, Demetrio Aguilera-Malta proietta la lotta guerrigliera sul piano globale della storia latino-americana, interpretandola non come un fenomeno esclusivo del nostro tempo, ma dandole una dimensione storica che dai tempi pre-colombiani giunge, senza soluzione di continuità, fino ai nostri giorni. L'opposizione agli «usurpadores o imperialistas aborígenes»239, quella degli indigeni contro i conquistatori spagnoli, la lotta per l'indipendenza dalla Spagna, quella dei nostri tempi contro le dittature, e contro l'imperialismo statunitense, non sono che momenti di una medesima lotta instancabile contro le «Fuerzas del Mal». Il che potrebbe anche indurre a disperare del successo finale, tanti sono i secoli in cui la lotta accennata si prolunga. Ma Aguilera-Malta crede nell'«última Victoria»240 e afferma il valore insostituibile di tale lotta, per l'uomo e per la sua dignità241 . Per questo l'azione dei guerriglieri non ha come fine la vendetta, ma la restaurazione della libertà e della giustizia. Ciò spiega perché i responsabili della situazione in Babelandia, una volta vinti, non vengano uccisi, ma sottoposti al giudizio del popolo: «La muerte no es castigo»242. Ed è così vero, che il generale Jonás Pitecantropo, massimo responsabile della distorsione morale del paese, è condannato per l'eternità a vivere -elemento fantastico-, nel corpo di una balena.

L'ideale della guerriglia trionfa nel romanzo, ma la libertà di Babelandia è solo l'inizio di una lotta di portata più grande. Il capitano Fùlgido lo attesta:

«Esto es apenas parte de un proceso. Nuestra confrontación definitiva no es contra los hombres. Los hombres van y vienen, como las ráfagas del viento. Es contra los sistemas y estructuras cavernícolas y estáticas. No nos preocupa sólo el cambio de unos gobernantes por otros, tal vez peores. Nos interesa el advenimiento de regímenes que permitan construir -o que construyan- una nueva sociedad vivible. Para que el mundo sea de todos. Y no sólo de unos cuantos»243.



La parte finale de El secuestro del General si salda, così, perfettamente con l'inizio, attraverso la formulazione di un messaggio di fratellanza, che dalla lotta contro le forze del male conduca alla conquista di quella che Aguilera-Malta definisce «nuestra segunda independencia»244, una patria per tutti245. Maria, fidanzata del capitano Fùlgido, ed essa pure divenuta guerrigliera, dà un carattere sacro all'impresa, alludendo a una continuità dell'opera di Gesù attraverso l'azione di coloro che si oppongono alla dittatura: «ya que no habrá una nueva Reencarnación, todos tenemos que colaborar para que su obra siga realizándose»246.

I valori dell'uomo sono sempre in primo piano, per lo scrittore equatoriano. Nel ventitreesimo capitolo de El secuestro, egli si scaglia contro la società tecnologica, condannando le pazze spese per armamenti e per imprese spaziali delle grandi potenze, che invece nulla fanno per migliorare le condizioni della convivenza umana247. Poiché «Todos los seres humanos son dignos de amor», ognuno deve lottare per migliorare la condizione dell'uomo. Il momento felice del raggiungimento pieno di questi ideali non è, certo, vicino, ma Aguilera-Malta dichiara di aver fede nella gente «sabia, justa y progresista»248, nelle cui mani è posto il futuro: «Ellos pondrán en práctica nuestros ideales. Para que todos los hombres se eduquen. Y tengan qué comer, dónde trabajar y un lugar para vivir»249. Il che significa un mondo in cui regneranno la libertà e la giustizia nella fratellanza, un mondo in cui la dignità dell'uomo sarà rispettata.

Il microcosmo grottesco e drammatico di Babelandia riceve, in tal modo, la più dura condanna, come simbolo di tutto un mondo negativo. La conclusione del romanzo riafferma gli ideali per i quali da sempre Demetrio AguileraMalta combatte. Da qualche pagina de El secuestro del General il lettore può forse trarre l'impressione che il calore del messaggio si imponga sulla misura e sull'arte; ma l'artista vive nella sua opera, e non si preoccupa eccessivamente di eventuali squilibri, preso com'è dalla passione civile. Ed è la sincerità della partecipazione che riscatta sempre Aguilera-Malta anche sul piano dell'arte.



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