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Le opere e i giorni di un dittatore illuminato: «El recurso del método»


Al tema della dittatura torna nel 1974 anche Alejo Carpentier, con El recurso del método. Nel 1972 egli aveva dedicato al tema, come si è detto, un romanzo breve, El derecho de asilo, passato piuttosto sotto silenzio dalla critica, meritevole invece di maggiore attenzione, sia per la novità che presenta nel tema della dittatura, sia perché prelude chiaramente al romanzo successivo, uno dei risultati più notevoli dello scrittore cubano.

Costituito di sette capitoli brevi, El derecho de asilo denuncia, in sintesi efficace, la natura del sistema dittatoriale. Alejo Carpentier allude brevemente alla conquista spagnola e alle successive guerre per l'indipendenza, ai numerosi «cuartelazos» e «golpes» di cui abbonda la storia dell'America indipendente, e scrive con amara ironia:

«[...] Y, bajo la égida de los héroes, se pasará un siglo en cuartelazos, bochinches, golpes de estado, insurrecciones, marchas sobre la capital, rivalidades personales y colectivas, caudillos bárbaros y caudillos ilustrados [...]»250.



Il narratore pone sotto accusa, come si vede, tutta la storia contemporanea dell'America Latina. Ne El derecho de asilo è individuabile il tema che verrà sviluppato ne El recurso del método, la metamorfosi della dittatura sotto la patina della «ilustración»; e tuttavia il dittatore permane fedele, nelle sue caratteristiche fondamentali, al prototipo del «Señor Presidente» di Asturias. Nel breve romanzo Alejo Carpentier denuncia le violenze di un sistema tradizionalmente brutale, che si avvale dell'esercito e della polizia per mantenersi al potere, ricorrendo alla tortura, non solo al carcere, e all'eccidio:

«[...] la policía disparaba sobre una manifestación de estudiantes que protestaban contra el general Mabillán, por su intento de reforma de la Constitución, encaminado a asegurarle una permanencia de ocho años en el poder, con posible reelección si el pueblo la determinaba mediante plebiscito»251.



Un ex-Segretario della Presidenza e del Consiglio dei Ministri, dal suo rifugio presso l'ambasciata di un paese «hermano», osserva lo svolgersi degli eventi con una conoscenza dall'interno delle cose, e sottolinea ciò che la dittatura implica:

«[...] Por lo demás, conocía todos los pormenores de la represión que seria aplicada con sana singular al primer grupo de estudiantes capturados, lo de las cárceles repletas, [...]; lo de las humillaciones, las torturas ya clásicas, practicadas por la Gestapo y la F. B. I. americana; el tormento consistente en parar a un hombre durante doce horas sobre un viejo caucho de automóvil. Pero ahora habían entrado los fenómenos en escena: los sádicos, los copuladores legalizados, los tarados de toda índole, regidos por «El Gavilán», aquel que tenía tan largas y duras las uñas de los dedos índices y pulgares que podía hundirlas rápidamente, con horribles desgarramientos, en una garganta humana. Esto sin hablar de los violadores y proxenetas, dotados ahora de “carnets” y credenciales para poder demostrar, en todo caso, que habían pasado a ser agentes de la Policía Política del Gobierno».252



Il tema è eternamente lo stesso, perché questa è la realtà del sistema. Carpentier vi aggiunge una scoperta nota di condanna per l'apporto statunitense. Infatti, la repressione si presenta «migliorata», se così si può dire, con i metodi nordamericani. L'ambasciatrice del paese «fratello» -che si è intanto innamorata del rifugiato- inorridisce davanti alla strage, ed esclama: «Estos policías de tu país son unos bárbaros». L'ex-segretario completa: «Y más ahora que tienen instructores norteamericanos»253 .

Ne El derecho de asilo, non v'è dubbio, Alejo Carpentier fa propaganda politica, ma in sostanza denuncia una realtà dolorosa continuamente confermata anche da avvenimenti recenti. Si pensi al Cile e alla caduta di Allende. I generali che si impadroniscono dello stato non pensano a cose grandi, intendono solo sfruttare il paese, e lo fanno con la violenza e un'abilità politica istintiva, senza troppe complicazioni, che tiene sempre conto di una realtà condizionata dalla presenza militare ed economica degli Stati Uniti. Carpentier la denuncia con chiarezza nel breve romanzo. La «cuestión de límites», che il generale impadronitosi del potere ravviva per ragioni di politica interna, per distrarre il popolo dalla violenza del «golpe», si attenua immediatamente e si risolve quando entrano in gioco gli interessi statunitensi. Questo fatto e la necessità di avere a disposizione un «ejército represivo interno» per opporsi a manifestazioni, sfilate e scioperi, per far osservare il coprifuoco, «allanar casas y empresas, patrullar las calles, etc., etc.»254, porta a una politica di tolleranza e di cooperazione col paese vicino: «Nada de problemas internacionales», esclama il nuovo despota; e Carpentier aggiunge: «Y más ahora que los Estados Unidos habían adquirido grandes concesiones mineras en territorio litigioso»255.

Non si dimentichi che già Asturias, nella «trilogía bananera», aveva denunciato la criminale pretestuosità della «cuestión de límites», per quanto si riferiva al Centroamerica; e aveva anche rilevato il ricorso, da parte di governi dispotici, espressione di interessi stranieri, alla retorica «patriotera», che serviva a infiammare, per meglio ingannarlo e sottometterlo, un popolo indifeso e innocente. Nella «cuestión», Miguel Ángel Asturias denunciava la mano delle diverse imprese economiche nordamericane operanti nei paesi dell'America Centrale, rivali per interessi, mentre Carpentier insiste sulla natura pretestuosa del dissidio come mezzo del potere per addormentare le coscienze e distrarre il popolo dalla sua tragedia.

Nel romanzo lo scrittore cubano sottolinea con mordente ironia e amaro umorismo la retorica dei dittatori. Nel primo discorso alla nazione il generale giunto al potere rappresenta la farsa di sempre, tocca il tasto del patriottismo, ricorre all'evocazione degli eroi dell'Indipendenza, parla della «Libertad recobrada», della «Justicia venidera» -si noti, sempre «futura»-, della «Bandiera», dell'«Ejército depositario de las más gloriosas tradiciones y otras cosas por el estilo»256. La sottolineatura è palese critica demolitrice in Carpentier. Il nuovo despota si rifa ipocritamente all'ideologia dei grandi uomini dell'America e annuncia per il martedì successivo un giorno «normal», benché -si colga l'intenzione dello scrittore- «se mantendría el toque de queda a las 4 p. m.»257; promette infine «grandes obras públicas», sicura fonte di guadagno per lui, attraverso furti colossali.

Con la stessa retorica frusta e superficiale il generale Mabillán pretende di «galvanizar» il popolo intorno «al patriótico empeño de una guerra inminente»258. Con singolare abilità Carpentier denuncia, in breve sintesi, che si costruisce su frasi non concluse, la retorica del patriottismo di chi se ne vale per fini politici, formulando un'efficace critica alla doppiezza del sistema:

«[...] Todo aquello de: “Sois hijos de los héroes que...”, “Sean nuestros confines un glorioso campo de batalla”, “Honor a quienes honores merecían”, “No hay muerte más bella que la que...”, etc., etc., etc., era repetido por la radio y TV a todas horas»259.



Il narratore scava profondamente nella situazione drammatica dell'America Latina, dove «los golpes salen siempre victoriosos»260 -come si esprime, triste verità, l'ambasciatrice del paese «fratello»- e nei «golpes» è sempre il popolo che muore. Osserva l'ex-segretario dal suo rifugio:

«Lo malo son los cadáveres, que nunca fueron de gentes del Country Club o de los barrios ricos, [...]. Los arsenales latinoamericanos nunca tuvieron clientela sino de pobres»261.



El derecho de asilo è un condensato, si potrebbe dire, di quanto avrebbe potuto costituire un vero e proprio romanzo di estensione normale. Vi compaiono i temi fondamentali della denuncia contro la dittatura, incluso quello consueto della facile sessualità -ricordiamo che Asturias inaugurò il tema, in America, come motivo di condanna, di distruzione della «dignità» esteriore dei rappresentanti del sistema, ne El Señor Presidente-; nel breve romanzo Alejo Carpentier introduce il tema erotico -un erotismo sempre «a prezzo»- con la medesima funzione. Al Presidente deposto più che gli affari dello stato, e i suoi sudditi, interessavano alcune «italianas de primera»262, stanco com'era del «ganadito criollo»263 che gli procurava la Lola. Il «Primer Magistrado» -si noti l'ironia della definizione-, qualche settimana prima del «golpe» aveva dichiarato: «Hemos llegado a un punto en que necesitamos mujeres europeas, elegantes, refinadas y con conversación»264 . Da parte sua il nuovo dittatore non si allontana, fondamentalmente, da questo genere di preoccupazioni. Lo dimostra la gran farsa finale, nella quale vediamo l'ex-segretario, ormai ambasciatore del paese «fratello», alludere, tra il sornione e il complice, all'argomento265 . La risata d'intesa che suggella il colloquio pone termine definitivamente all'inimicizia tra i due personaggi e dà nel contempo l'ultimo colpo alla distruzione dell'apparente «onorabilità» della dittatura.

Durante tutto il periodo di esilio in patria Pex-segretario osserva da una posizione privilegiata la farsa dolorosa del potere. Dal suo «tiempo sin tiempo»266; egli pone sotto accusa il sistema, del quale, peraltro, sotto il Presidente anteriore era stato parte. Si sarebbe tentati di pensare a una relazione tra il personaggio e Cara de Ángel, del Señor Presidente; anche se non esistono punti concreti di contatto tra i due, non sembra dubbio che il ricordo del favorito di Asturias abbia operato sullo scrittore cubano. Cara de Ángel, tuttavia, si innamora e si perde; mentre l'ex-segretario, innamoratosi dell'ambasciatrice, si salva e prospera. E inoltre, benché «bello y malo como Satán»267, Cara de Ángel è fondamentalmente un ingenuo, mentre il personaggio di Carpentier è un uomo abile, di varia cultura, e soprattutto conosce gli uomini. Perciò egli si salva e torna a operare, in una società che per lui non ha segreti, per negativi che siano, rimettendo di nuovo in marcia il tempo che sembrava essersi fermato:

«[...] el jueves volvieron los días, con sus nombres, a encajarse dentro del tiempo dado al hombre. Y empezaron los trabajos y los días»268 .



El recurso del método non è certamente l'ampliamento de El derecho de asilo. Tra i due romanzi vi è solo un punto di contatto concreto, alla pagina 26 de El recurso, che potrebbe considerarsi ripetizione di quanto Carpentier scrive nel romanzo breve esaminato, quando il «Primer Magistrado», protagonista del libro, proclama il proprio orgoglio per aver chiuso nel suo paese il ciclo delle rivoluzioni, «tras un siglo de bochinches y cuartelazos»269. In modo identico, si è visto, Carpentier si era espresso intorno all'inquieta storia dell'America indipendente ne El derecho de asilo.

Benché El recurso del método insista su temi noti, quelli di una realtà politica che si ripete continuamente sotto il segno della dittatura, il romanzo è completamente nuovo, sia per struttura che per stile, per la profondità con cui l'autore tratta i temi e l'abilità con la quale muove i personaggi. In sette capitoli, formati di diverse parti, numerate progressivamente a partire dal primo -che presenta solo una parte, mentre quattro ne presenta il secondo (2, 3, 4, 5), tre il terzo (6, 7, 8), cinque il quarto (9, 10, 11, 12, 13), tre il quinto (14, 15, 16), due il sesto (17, 18), tre il settimo (19, 20, 21)- e di un breve epilogo posto sotto l'anno 1972 (parte 22), il narratore rappresenta e giudica tutta una vita di dittatore latino-americano, al quale non attribuisce nome concreto, identificabile, ripetendo l'espediente di Miguel Ángel Asturias ne El Señor Presidente. Ciò nonostante lo scrittore cubano ha dichiarato, in una conversazione270, che la presenza dell'esperienza dittatoriale dell'epoca di Gerardo Machado a Cuba è sempre dominante in lui e si riflette nel libro; in esso egli si è proposto di presentare un «ritratto-robot» della dittatura, sullo sfondo di un complicato «paese-robot» latinoamericano, così che il romanzo diviene «un compendio de la dictadura y del mundo también natural de América»271.

Attraverso la figura del «Primer Magistrado» si può pensare facilmente che Alejo Carpentier si proponga di soppiantare nel suo significato simbolico, di simbolo universale della dittatura, il «Signor Presidente» di Asturias. Per il momento occorre chiarire che la presenza della dittatura di Machado si avverte nel libro solo vagamente, poiché le «fechorías» delle dittature sono tutte uguali. Gerardo Machado è menzionato direttamente alla fine de El recurso del método, quando «el Estudiante» -riuscito ad abbattere il «Poderoso» promuovendo uno sciopero generale- sente il suo nome pronunciato dal cubano Julio Antonio Mella, personaggio storico reale, che partecipa alla «Primera Conferencia contra la Política Colonial Imperialista» di Bruxelles. Mella menziona Machado per rilevare la differenza che intercorre tra il dittatore cubano e il «Primer Magistrado», protagonista de El recurso, perché il primo, «siendo muy inculto, no erigía templos a Minerva como su casi contemporáneo Estrada Cabrera, ni era afrancesado, como habían sido otros muchos dictadores y 'tiranos ilustrados' del Continente»272.

La menzione di Estrada Cabrera -insieme a quella di molti tiranni d'America, incluso il Dottor Francia del Paraguay-, che si ripete, ad esempio, a pagina 217 -, conferma, a mio avviso, l'operante presenza de El Señor Presidente, anche se, com'è naturale, Carpentier doveva ricordare soprattutto la propria esperienza.

Seguendo, tuttavia, più il Valle-Inclán di Tirano Banderas che Asturias, lo scrittore cubano situa geograficamente il paese sul quale il «Supremo Magistrado» esercita il suo potere in un composito mondo tropicale centro-americano -il dittatore parla persino delle «nuestras Tierras Calientes»273; il sottotitolo di Tirano Banderas è «Drama de Tierras Calientes»-, ma allude anche a un porto, ai monti, alle Ande, e confonde il lettore con una serie immensa di particolari, descrivendo feste di carnevale piuttosto cubane, riti funebri alquanto messicani, una vegetazione tropicale esuberante, fatta di colori e di aromi intensi e inebrianti, cascate e vulcani. Questo mondo viene poi popolato di una altrettanto «despistante» mescolanza razziale di «indios, negros, zambos, cholos y mulatos», dove «sería dificil ocultar a 'los cafres'»274. Per il dittatore, frequentemente lontano, a Parigi per lunghi periodi, questo mondo si concreta in un «alla» che accomuna odio e amore, rifiuto e nostalgia, perciò sfuma ancor più i propri contorni reali. Ma questo mondo urente è scenario quant'altro mai idoneo a sottolineare il dramma della dittatura, considerata nell'ambito non di un solo paese, bensì estesa a tutto l'ampio continente americano.

Quanto al dato temporale, Carpentier empie il romanzo di date riferentisi a giorni e a mesi, indica anche anni, ma senza chiarirli esattamente nella loro temporalità. Benché gli avvenimenti, i personaggi -letterati, artisti, uomini politici- cui nel romanzo il dittatore allude, permettano di situare l'azione in un periodo che va da un'epoca che precede la prima guerra mondiale all'immediato dopoguerra, assumendo alla fine una proiezione più vasta come denuncia del ripetersi del dramma, attraverso la data improvvisamente definita dell'epilogo, 1972. Il «tempo eterno» della dittatura, denunciato ne El Señor Presidente con la ripetizione di una stessa scena, quella dei prigionieri diretti al carcere, è ottenuto da Carpentier ricorrendo all'anno, 1972, sul quale conclude il romanzo; ciò indica che la situazione dell'epoca del «Supremo Magistrado» -e quella di epoche anteriori, richiamate dalla menzione dei vari dittatori, da Rosas a Porfirio Díaz, ai Dottor Francia- non è mutata sostanzialmente, anzi si ripete, come una condanna.

A parte le citazioni, a mo' di epigrafe, che, tratte da Descartes e dal noto Discours, introducono in ognuno dei capitoli, infittendo con il succedersi dei paragrafi di cui ogni capitolo si compone, il lettore riceve fin dal titolo del romanzo l'impressione di trovarsi di fronte a un libro fortemente intellettualizzato. Tuttavia non sa ancora che cosa significhi, nell'intenzione del romanziere, l'uso di «recurso» in luogo di «discurso», come la memoria letteraria gli suggerirebbe, ma è preparato a qualcosa di inedito e di pregnante. La spiegazione si ha solo nel paragrafo 8 del terzo capitolo, allorché lo scrittore presenta il dittatore di fronte alla rivolta del generale Hoffmann, deciso, una volta sconfitto il ribelle, a eliminarlo: «No había más remedio. Era la regla del juego. Recurso del Método»275 .

Le citazioni dal Discours cartesiano accompagnano il lettore per tutto il romanzo, come un suggestivo breviario, partendo dal proposito, denunciato nel primo capitolo, non di insegnare il metodo che ognuno deve seguire «para guiar acertadamente su razón», ma solamente di mostrare in qual modo il despota abbia cercato di guidare la propria276 . Così che il testo di Descartes assume la funzione di un nuovo Principe del Machiavelli. L'«illustrato» dittatore, ostinatamente «afrancesado» intellettualmente, ascolta dalla bocca del suo nobile amico, e fallito scrittore drammatico, l'«Ilustre Académico», la giustificazione cartesiana della propria condotta politica: «[...] bien lo había dicho Descartes: Los soberanos tienen el derecho de modificar en algo las costumbres»277.

Il secondo capitolo del romanzo si apre presieduto dall'osservazione cartesiana che «tan empecinado está cada cual en su criterio, que podríamos hallar tantos reformadores como cabezas hubiese ...»278. La citazione introduce il confronto tra il regime dittatoriale e le idee socialiste, tra oppressione e libertà. Ma già il paragrafo numero 4 del secondo capitolo presenta anch'esso, inaspettatamente, una citazione dal filosofo francese intorno a ciò che si intende per «corpo»: «todo aquello que puede llenar un espacio de tal manera que cualquier otro cuerpo queda excluido de él»279. Ed è, nella «ficción», l'eliminazione violenta del generale ribelle Ataulfo Galván, il cui corpo, dopo la fucilazione, viene gettato ai «tiburones».

Il paragrafo numero 5 del medesimo capitolo avverte, con parole sempre di Descartes, che «Los soberanos tienen el derecho de modificar en algo las costumbres»280. La frase era già stata citata, come si è visto, dall'Accademico; nella vicenda del romanzo significa l'eliminazione in modo singolare del giovane generale Becerra, il quale, assediato nella Nueva Cordoba dalle truppe del «Supremo Magistrado», è invitato a parlamento, e in tale occasione, «more» non insolito, viene convinto con argomenti decisivi a lasciar libero il campo:

«[...] sin estrépito ni gesto que pudiese herir su honor, se le disparó un cañonazo de cien mil pesos con algo también -ñapa de varios ceros- para los dos tenientes que lo acompañaban. Y al crepúsculo, las banderas blancas fueron izadas sobre las trincheras y blok-hauses, anunciándose a los habitantes de Nueva Córdoba, mediante proclama, que la capitulación -considerándose el superior armamento de las fuerzas gubernamentales- había sido aceptada con el humanitario fin de evitar inútiles derramamientos de sangre...»281.



Carpentier incide con ironia amara in una situazione ricorrente. Solo il negro Miguel Estatua e gli studenti, «los de la inteligencia, los de la mandarria y los de la alcuza, los de la alpargata y los del huarache282, lottano fino in fondo. Ma il cannone ne ha ragione; infatti il dittatore, preoccupato per la presenza in acque territoriali dei «marins» nordamericani, con la prospettiva di un intervento se la situazione non si risolve rapidamente, decide di ricorrere alla maniera forte. Ed è la bestialità consueta della truppa:

«[...] Y entonces fue la ralea: las tropas sueltas, desbandadas, incontenibles, se dieron a la caza de hombres y de mujeres, a bayoneta, a machete, a cuchillo, sacando los cadáveres traspasados, abiertos, descabezados, mutilados, al medio de las calles, para mejor escarmiento [...]»283.



Sono i disastri della guerra civile, sui quali anche Miguel Ángel Asturias ha insistito più volte, soprattutto in Week-end en Guatemala; si ricordi «Ocelotle 33». All'azione del «Supremo Magistrado», ne El recurso del método, segue la considerazione cinica che «en política, lo que cuenta es el éxito...»284. Carpentier pone quindi in rilievo lo sfruttamento della situazione attraverso la gran farsa del plebiscito, che il dittatore manovra con tale abilità che alla fine deve inventare 4781 voti -contrari cifra ottenuta «a tiro de dados» dal Dottor Peralta, suo fedele segretario-, «para mostrar la total imparcialidad con que habían trabajado las comisiones escrutadoras...»285 .

Nel romanzo Alejo Carpentier scrive una pagina nuova sul tema, quando, con ironia mista a nero umorismo, presenta il dramma, di una falsità grottesca, del «Supremo Magistrado» che si dichiara risoluto ad abbandonare il potere qualora il popolo non lo riconfermi plebiscitariamente; nel frattempo resta al suo posto, con «encomiabile» senso di responsabilità, per il disbrigo degli affari correnti; Carpentier sottolinea: «con la noble y serena melancolía -por no decir dolor padecido con dignidad- de quien ya no cree en nada, ni en nadie, herido a lo hondo, después de tanto haberse desvelado por el bien de los demás. ¡Miserias del poder! ¡Clásico drama de la corona y de la púrpura! ¡Amarga vejez del príncipe!...»286 .

La farsa delle elezioni, nel romanzo, ricorda quella denunciata da Gabriel García Márquez in Cien años de soledad; ma non si tratta che di una realtà che continuamente si ripete sotto regimi dispotici.

La citazione cartesiana che inaugura il terzo capitolo, «Todas las verdades pueden ser percibidas claramente, pero no por todos, a causa de los prejuicios»287, introduce l'amarezza e il disorientamento del despota davanti alla diserzione degli amici francesi, quando i giornali parigini pubblicano i resoconti e le fotografie delle sue gesta di «Carnicero de la Nueva Córdoba»288, come ormai lo chiamano, per la crudeltà della repressione. Parigi, dove sempre aveva pensato di ritirarsi per attendere la morte: «Cuando estuviese cansado de las agitaciones y turbamulta de allá»289, gli si presenta ora ancor più desiderabile:

«[...] Tierra de Jauja y tierra de Promisión, Santo Lugar de la Inteligencia, Metrópoli del Saber Vivir, Fuente de Toda Cultura, que, año tras año, en diarios, periódicos, folios, revistas, libros, alababan -luego de colmar una suprema ambición de vivir aquí- los Rubén Darío, Gómez Carrillo, Amado Nervo, y tantos otros latinoamericanos que de la Ciudad Mayor habían hecho, cada cual a su manera, una suerte de Ciudad de Dios...»290.



Alejo Carpentier ricorre di proposito, nel passo citato, a un'abbondanza vistosa di maiuscole, al fine di sottolineare il suo dissenso personale nei riguardi di così eccessivo entusiasmo, vero e proprio «trastorno», provocato dalla città in tanti latinoamericani. È a questo punto che nel romanzo prende consistenza un'aspra «querelle» tra l'eccellenza della civiltà francese e quella di radice ispanica, difesa la prima dall'«Ilustre Académico» fallito, la seconda dal «Supremo Magistrado», il quale, ad un certo punto, abbandona il suo francese colto «para lanzarse, impetuoso, por el disparadero de un alud de improperios criollos», contro l'uomo che osa chiamare «una asonada de indios y negros»291 la rivolta che egli ha appena sedato nel paese. In aiuto dell'indignato despota si lancia anche il Dottor Peralta, allorché l'Accademico pronuncia l'infelice frase «L'Afrique commence aux Pyrenées»292. Il contrattacco inizia con un violento «Je vous enmerde avec le sang espagnol»; quindi, passando in rassegna, «con exaltada irreverencia», tutti i crimini dei francesi, da quelli di Simon de Monfort e della Crociata contro gli Albigesi, a quelli della Comune, per concludere che, per quanto riguarda la Francia, se essa aveva avuto un Descartes, un Luigi XIV, un Molière, un Rousseau, un Pasteur, ancor meno si potevano giustificare i suoi delitti: «La culture oblige, autant que la noblesse, Monsieur l'Académicien»293.

È fuor di dubbio che, per quanto profonda sia la formazione culturale francese in Carpentier, nella «querelle» in questione egli è dalla parte del mondo ispanico.

Nello stesso capitolo terzo, il paragrafo numero 7 avverte, con parole sempre di Descartes, che «... cuando mucho nos estimamos, mayores nos parecen las injurias...»294. Ed è qui dove lo scrittore presenta il «Primer Magistrado» nel suo odio verso la Francia, che ormai lo sfugge e lo disprezza. Nella guerra mondiale, appena scoppiata -la prima, come si è detto-, egli intravvede la possibilità di una lezione per l'orgoglio francese, e improvvisamente si trasforma in moralista: «Las naciones entregadas al lujo y la indolencia -decía- se abandonaban y perdían sus virtudes fundamentales»295. Per questo motivo era giusta una lezione:

«[...] a Francia le vendría bien un sacudimiento, una terapéutica de emergencia, un shock, para sacarla de un autosuficiente letargo. Harto engreída necesitaba una lección. Demasiado rectora del mundo se creía aún, cuando, en realidad, agotadas sus grandes energías, había entrado en una fase de evidente decadencia»296.



Di qui la decisione di simpatizzare per i tedeschi, in funzione anti-francese. È una reazione provocata dal complesso di inferiorità, ma anche -materia dolente per lo stesso Carpentier, così legato al mondo culturale francese- da un'istintiva reazione al disprezzo della Francia per tutto ciò che è straniero: «Nada que fuere extraño a su país interesaba al francés, convencido de que existía para hacer las delicias de la humanidad»297 .

La politica, tuttavia, non può essere guidata dal risentimento. Il paragrafo 8 del terzo capitolo presenta una nuova e significativa citazione da Descartes: «Mejor es modificar nuestros deseos que la ordenación del mando»298. Per conservare il potere, infatti, il dittatore abbandona abilmente, e a tempo, allorché entrano nella guerra gli Stati Uniti, le simpatie per i tedeschi e si trasforma improvvisamente in difensore della latinità. Ciò avviene dopo un lucido esame della situazione, considerati tutti i pericoli che,la permanenza tra i simpatizzanti delle potenze avverse all'Intesa non può a meno di implicare.

Alejo Carpentier denuncia duramente ciò che la dittatura significa, quando avverte, attraverso le parole del despota, che i termini «Libertad, Lealtad, Independencia, Soberanía, Honor Nacional, Sagrados Principios, Legítimos Derechos, Conciencia cívica, Fidelidad a nuestras tradiciones, Misión Histórica, Deberes-para-con-la Patria, etc., etc.»299 , hanno finito per assumere «un tal sonido de moneda falsa, plomo con baño de oro, piastra sin rebrinco»300, che il dittatore stesso si sente scoraggiato, cosciente della perdita progressiva del proprio prestigio «tras de cada tràcala, inventada para permanecer en el poder»301. E sempre con una tutela pesante, che il despota sopporta perché non v'è rimedio, ma che gli pesa e gli duole, come pesa e duole a ogni latinoamericano: quella dei «gringos», ai quali ha dovuto far continue concessioni e che anch'egli, come tutti, odia -«tonto hubiese sido negarlo, eran universalmente detestados en el continente»302- per il loro disprezzo verso i «latini»: «Sabíamos todos que nos llamaban 'latinos' y que, para ellos, decir 'latinos' era decir chusma, morralla, mulatería y merienda ñáñiga»303.

La coscienza del prestigio perduto, l'odio verso i «gringos», confessione impotente della sua condizione di traditore del paese per conservare il potere, dà una dimensione quasi umana al dittatore. Sono proprio i «gringos» che, per opportunità politica, alla fine lo abbandonano -farsa che si ripete nel tempo-, determinando la sua caduta; il loro appoggio va ora all'avversario, il Dottor Luis Leoncio, vincitore, dopo lo sciopero generale, e che ormai «cuenta con las fuerzas vivas del país»304, le già alluse «fuerzas vivas de la Banca, del Comercio, de la Industria»305.

Alejo Carpentier stigmatizza duramente in America Latina il tradimento continuo del popolo da parte dei suoi governanti. Anche il Dottor Luis Leoncio, infatti, non tarda a vendersi ai «gringos». Dal suo esilio l'ex-dittatore segue, su giornali arretrati che giungono da «allá», gli avvenimenti, l'azione del «Sabio de la Nueva Córdoba»306, e trae un sicuro oroscopo dal discorso inaugurale, che denuncia l'avvento nel paese di un tempo immobile:

«Y cuando el orador remato su discurso en “¡Viva la Patria!”, habían sido tantos los “pero”, “sin embargo”, “no obstante”, “a pesar de lo dicho”, “siempre y cuando”, pronunciados antes, que los oyentes quedaron con la impresión de haber vivido en un tiempo totalmente detenido, ajeno al quehacer de los relojes, suspensión del Transcurso, ya que el Austero Doctor, al bajar de la tribuna, dejaba tras de sí un total vacío mental -cerebro en blanco, éxtasis agnóstico- en quienes lo habían escuchado... Y en los meses que siguieron todo fue desconcierto y confusión...»307.



Il paragrafo che corrisponde a questi avvenimenti, il numero 18 del capitolo sesto, è significativamente presieduto da un'epigrafe cartesiana tratta dal Discurso de la luz: «... puede ocurrir que, habiendo escuchado un discurso cuyo sentido haya sido perfectamente entendido por nosotros, no podamos decir en qué idioma fue pronunciado»308.

Il pessimismo di Alejo Carpentier per quanto concerne i cambiamenti politici in America è evidente. La commedia si ripete di continuo. Nel paese dell'ex-dittatore, sui giornali che vengono di là, presto si parla di «descontento» dell'Esercito, e il despota caduto, da Parigi predice: «Golpe militar en puertas»309; di «jóvenes oficiales», e il «Cholo» Mendoza, ex-ambasciatore dell'ex-Poderoso nella capitale francese commenta: «En vez de machete, metralleta»310. Si spiega, così, l'epigrafe cartesiana posta all'inizio del capitolo quarto: «... ¿qué veo desde está ventana sino sombreros y gabanes que pueden vestir espectros o bien fingidos hombres que sólo se mueven por medio de resortes?...»311.

Prima della sua caduta il «Supremo Magistrado» aveva dato il via a una nuova e crudele repressione onde por fine agli attentati alla sua persona, dapprima, poi per domare lo sciopero generale. Alejo Carpentier penetra con viva partecipazione, ma anche con sottile ironia nel dramma. Nel capitolo citato egli sottolinea la corruzione capillare della gerarchia del regime, che fa del paese un grande mercato, seguendo l'esempio del dittatore, il quale però opera in grande, come padrone onnipotente:

«Amo de empresas de trasmano era Señor de Panes y Peces, Patriarca de Mieses y Rebaños, Señor de Hielos y Señor de Manantiales, Señor del Fuido y Señor de la Rueda, bajo una múltiple identidad de siglas, consorcios, razones comerciales, sociedades siempre anónimas, ignorantes de quiebras ni descalabros»312.



La violenza sulla quale la dittatura si sostiene è denunciata con spietata ironia da Carpentier, allorché allude alla prigione «modello», nella cui costruzione fa maestri gli architetti nordamericani e per la quale il paese si pone in poco invidiabile avanguardia: «En materia de Cárcel nos habíamos adelantado a Europa -lo cual era lógico, puesto que, estando en el Continente-del-porvenir, por algo teníamos que empezar...»313. Il lugubre luogo, che domina sinistramente El Señor Presidente, appare presenza ancor più sinistra ne El recurso del método, in quanto implica la sottomissione anche al potere straniero, una dipendenza politica alla cui ombra si consumano tutti i delitti contro la libertà. La lenta, ma inarrestabile, invasione della presenza nordamericana si verifica anche nel campo dell'istruzione e della lingua, spodestando lentamente l'influenza della Francia. Si comprende, così, come l'esistenza e la continuità della dittatura dipendano in tutto dai nuovi padroni.

La situazione è denunciata in particolare nel capitolo quinto, che si apre all'insegna di un nuovo passo di Descartes: «soy, existo, esto es cierto. Pero ...¿por cuánto tiempo?...»314. È questa la situazione del despota di fronte alla presenza straniera. Il «Primer Magistrado» si rende conto della precarietà della sua posizione, ma poiché, secondo il filosofo francese «... hay mayor honra y seguridad en la resistencia que en la fuga»315, come avverte l'epigrafe che presiede il paragrafo 16 del quinto capitolo, egli tenta di imporsi con l'inganno e con la repressione cruenta. Al terrore di un silenzio che si diffonde anche in palazzo, salendo dalla città in sciopero, il despota risponde facendo diffondere la falsa notizia della sua morte, e quando la gente esultante esce per le strade la fa sterminare dall'esercito:

«[...] Y las tropas avanzan, despacio, muy despacio, disparando siempre, pisando a los heridos que yacen en el piso, o rematando, a culata o bayoneta, al que se les agarra de las polainas y botas [...]»316.



Ancora una volta Alejo Carpentier denuncia, così, i crimini della dittatura. Più tardi -si veda il capitolo settimo- l'ex-dittatore, ricordando dal suo rifugio parigino «aquellos tiempos», ormai in un'atmosfera in cui i fatti «nimios» vanno acquistando, «puestos en perspectiva y distancia, en contemplación actual, mayores relieves de gracia, singularidad o trascendencia»317, preso nella formula sacramentale quotidiana del «¿te acuerdas? ¿te acuerdas?»318, solleverà il sipario sulla sua azione di tiranno e offrirà altri particolari intorno al suo governo e alla propria corruzione, con evidente compiacimento:

«Como un fakir o ilusionista que, llegado a viejo, retirado de los escenarios, revela divertidamente las técnicas de sus escamoteos y milagros, recordaba El-Ex [...]»319.



Il clima di «añoranza-chochera» presentato da Carpentier, nel quale il deposto dittatore rivela le sue cattive imprese, come se fossero meritorie, pone in rilievo lo sgretolamento definitivo delle virtù morali e finisce per distruggere del tutto il personaggio. Con esattezza, presiedendo il paragrafo 21 del settimo capitolo, Descartes avvertiva: «... esos insensatos se empeñan en hacer creer que son reyes, stendo unos pobres, y que, estando desnudos, se visten de oro y de púrpura»320.

Sullo sfondo dei ricordi dell'esiliato sta tutta la storia d'Europa e d'America, quella della politica «gringa» verso l'America Latina del periodo tra la prima guerra mondiale e il dopoguerra, politica che non ha subito quasi modificazioni.

Il dittatore di Alejo Carpentier è un uomo corrotto, senza scrupoli, astuto e violento, e tuttavia con una dimensione umana interessante, che gli forniscono la sua cultura «afrancesada» e una viva sensibilità artistica. Il «Señor Presidente» di Asturias era un essere elementare, un risentito, una creatura demoniaca chiusa nel suo mistero, la cui malvagità si comprovava attraverso l'opera; ed erano piuttosto le opere protagoniste del romanzo dello scrittore guatemalteco. Ne El recurso del método, al contrario, il «Primer Magistrado» -come sempre lo chiama Carpentier, con evidente intenzione di rilevare il contrasto tra la carica e l'indegnità dell'uomo- è il vero protagonista. I personaggi che lo circondano -anche il Dottor Peralta è un approfittatore, un trasformista, e conduce un suo gioco politico, abbandonando il dittatore nella sua caduta, per passare all'avversario- scompaiono di fronte al «Poderoso», che lo scrittore va studiando dall'interno, dandogli una dimensione umana che gli altri dittatori del romanzo ispano-americano non hanno. Benché Carpentier abbia affermato che si tratta di un «dittatore-robot», il «Primer Magistrado» è sempre più un uomo, a mano a mano che il romanzo prende consistenza, un essere con tutte le sue passioni, poche le buone, molte le cattive, con una sensibilità viva, vero esempio, dapprima, del despota «ilustrado», non certo nel senso che questa espressione ebbe per l'Europa del secolo XVIII, perché la sua «ilustración» è solo cultura personale, senza conseguenze positive sul paese, che domina e sfrutta solamente.

In apertura di libro il despota è presentato con una conoscenza impressionante dell'arte e della letteratura; egli parla anche del Discours de la méthode di Descartes321 e si rivela intenditore raffinatissimo di musica. Vale a dire che il dittatore di Carpentier possiede tutta la cultura straordinaria del suo creatore. La copiosa citazione di testi letterari e musicali, di opere d'arte -pittura e scultura-, i competenti giudizi su questi argomenti, danno al lettore una prima impressione positiva del personaggio. Se non fosse per taluni particolari, attraverso i quali lo scrittore va scavando la sua statura, presentandolo lettore anche di opere pornografiche profusamente illustrate322, frequentatore di postriboli323, volgare e brutale in avventure ancillari324, fruitore di scenari erotici pervertiti325, apprezzatore di fotografie licenziose «para estereoscopio perfeccionado»326, grossolano nel frasario quando è adirato.

Malgrado tutto ciò, il dittatore di Carpentier presenta anche aspetti positivi, tra essi un istintivo attaccamento al mondo americano e l'odio per i «gringos» schiavisti, per quella Casa Bianca che -come si esprime nella sua lucida sbronza l'Agente Consolare nordamericano di Puerto Araguato, allorché accoglie il despota in fuga- è il luogo «donde se organiza la rotación de uniformes, levitas y chisteras de estreno, que gira y gira, en esta América Latina, trayendo sus ladrones e hijos de puta [...] en cada vuelta de manubrio»327.

Se le situazioni politiche tese riportano il dittatore, nella sua violenza, alle origini natali di quasi «pata en el suelo», il paesaggio americano risveglia in lui positivamente il figlio della terra. E se con lucida contrapposizione tra ciò che sono, rispettivamente, Parigi e New York, proclama l'eccellenza della prima città -«Por muy bien cortado que esté un frac, puesto sobre el lomo de un yanqui parece siempre un frac de prestidigitador»328- quando è di ritorno al suo paese, ormai nel Caribe, sente che l'aria ha un odore diverso: «El aire ya huele distinto»329 . Quindi, in vista di Puerto Araguato, s'intenerisce di fronte al paesaggio:

«[...] Había contemplado yo -más enternecido ahora que antes por la traición del hombre de mi mayor confianza (il generale Ataulfo Galván)- el panorama portuario, desde la cubierta del guardacostas que me trajo, enternecido de pronto, con cursi pero irrefrenable lagrimeo, ante una arquitectura de casitas, de ranchos, encaramados unos encima de otros, a flanco de cerro, como frágiles barajas. Aflojando en mis iras por el reencuentro con lo mío, advertí en el pálpito de una iluminación, que este aire era aire de mi aire; que un agua ofrecida a mi sed, tan agua como otras aguas, me traía, de repente, remembranzas de olvidados sabores, ligadas a rostros idos, a cosas recogidas por la mirada, archivadas en mi mente. Respirar a lo hondo. Beber despacio. Vuelta atrás. Paramnesia [...]»330.



Insistendo sull'emozione del «reencuentro» col suo mondo, da parte del dittatore, Alejo Carpentier manifesta la sua stessa passione americana. Lo stesso avviene più tardi, quando l'ex-Poderoso, ormai in esilio a Parigi, vive teso al mondo di «allá», che la «Mayorala» Elmira gli ricrea concretamente attraverso la tipica cucina «criolla». Anche la figlia del dittatore, apparentemente sradicata ormai dal mondo americano, di fronte alla tavola di Elmira esperimenta un «maravillado reencuentro con el mundo ido»331; mentre l'ex-Primo Magistrato incomincia a vivere, «allí, bajo techo de pizarra, en latitud y horas que eran de otra parte y de otra época...»332, quella precedente, s'intende, alla sua acculturazione e al suo «afrancesamiento».

In questa occasione Alejo Carpentier scrive alcune delle sue pagine migliori, interpretando l'urente mondo americano, dando corpo a un colorito «bodegón», dal quale si sprigionano aromi intensi, forti sapori:

«[...] Varias bandejas y platos presentaban ahí, como dispuestos en suntuoso bodegón tropical, los verdores del guacamole, los rojos del ají, los ocres achocolatados de salsas de donde emergían pechugas y encuentros de pavo, escarchados de cebolla rallada. Alineadas sobre una tabla de trinchar, había chalupitas y enchiladas, junto al amarillo de los tamales envueltos en hojas calientes y húmedas, que despedían vapores de regocijo aldeano. Había combures fritos, de los maduros, de los pintones -esos que habían aplastado a puñetazos-, de los menudeados en finas lascas, gracias al cepillo de carpintería. Y las frituras de batata, y las barquillas de coco doradas al homo, y aquella ponchera donde, en mezcla de tequila y sidra española, flotaban cáscaras de piña, limones verdes, hojas de menta y flores de azahar [...]»333.



Il sapore di quanto è americano vince, qui, tutto ciò che la Francia rappresenta: il suo cartesianesimo e la raffinatezza «civile». Colori, aromi, sapori si impongono sulla «misura». Si potrebbe anche pensare che il narratore intenda significare che, al tramonto della vita, l'exdittatore non resiste al richiamo negativo delle origini, tornando al «primitivo», al «selvaggio». Ma l'entusiasmo di Carpentier nella descrizione citata afferma esattamente il contrario, ossia il ritorno a qualche cosa di straordinariamente positivo, come il riincontro con se stesso. E lo conferma Ofelia, nella quale il cinismo e lo sradicamento dalle cose del paese natale, ostentatamente affermati, sono improvvisamente sconfìtti al contatto della sua bocca con un «tamal de maíz»; in lei si manifesta una emozione repentina, «venida de adentro, de muy lejos, de un palpito de entrañas», che «le ablandó las corvas, sentándola en una silla»334. E d'improvviso il suo corpo «se aligeró de treinta años»335. È questo il significato positivo della straordinaria sinfonia barocca di forme, di aromi e di colori.

La dimensione del dittatore nella sua sensibilità «americana» era già presente, come qualità positiva, fin dal momento in cui tornava al paese per domare la rivolta del generale Ataulfo Galván. Lo scrittore presentava in quell'occasione la figura del despota in inattese dimensioni spirituali di fronte al paesaggio:

«[...] Ver con los ojos del olfato, el dibujo de las hojas que crecen en oficio de tinieblas; representarme la arquitectura del árbol por la quejumbrosa flexión de una rama; saber del amaranto hongo de corteza por la permanencia de su hálito recobrado... [...]»336.



In questo momento il «Primer Magistrado» arriva anche a opporre al sempre amato mondo parigino, immerso in un'immobilità dovuta alla sua struttura secolare e alla sua organizzazione, o meglio, sedimentazione, la «pulsión visceral» del mondo americano, «en gestación, aun problemática en cuanto a formas, voliciones, impulsos y límites»337, il suo vigore e il suo tormento, di mondo dove, «en la hora de ahora», tutto è in movimento e in trasformazione, dove

«[...] se trepaban las selvas sobre las selvas, se trocaban los estuarios, mudaban de curso los ríos abandonando sus cauces de la noche a la mañana, en tanto que veinte ciudades construidas en un día [...] caían en ruinas, de repente, andrajosas y abandonadas, apenas un salitre cualquiera hubiese dejado de interesar al mundo, apenas algún excremento de pájaros marinos -de esos que nievan los arrecifes de lechosas garúas- hubiese dejado de cotizarse en las Altas Bolsas, sustituido por algún invento en la probeta de químicos alemanes... [...]»338 .



La grazia primitiva della natura, quale appare in un altro romanzo tra i più noti di Carpentier, Los pasos perdidos, rivive in questo passaggio, ma per meglio denunciare che il mondo americano è alla mercè del capitale straniero, che da un momento all'altro può decretarne la rovina. Ne El recurso del método la coscienza critica dello sfruttamento straniero è un particolare in più nella dimensione interiore del dittatore, malgrado non esista nella sua condotta azione conseguente con quanto egli pensa, e che, d'altra parte, significherebbe la sua perdita sicura.

La passione per la civiltà porta il «Poderoso» a modernizzare la capitale dello stato, benché la trasformazione sia da lui sentita come rovina di ciò che è la sostanza vera del suo mondo: «se angustiaba a veces ante la modificación del paisaje visto desde las ventanas del Palacio»339. Senonché la modernizzazione è anche un affare finanziario, dal quale il despota ricava ricco provento.

Grandezza e miseria del Principe, El recurso del método dà al personaggio una dimensione ancor più umana nel momento del tramonto e della perdita del potere. Con dura crudeltà l'Agente Consolare statunitense di Puerto Araguato, udendo il dittatore deposto, mormorare la frase latina «Memento homo ...»340, alla vista delle sue statue gettate in mare dalla moltitudine inferocita, lo riprende avvertendolo: «No se cante tangos con letra de Requiem»341. Quindi con gran cinismo gli presenta in prospettiva, «allá por el año 2500 ó 3000», il trionfo del nulla: quando le statue saranno ritrovate si ripeterà ciò che avvenne per quelle dei romani, e la gente si domanderà, senza trovare risposta, «¿Y quién fue ese hombre?»342.

Attraverso l'esaltato senso della polvere Alejo Carpentier condanna definitivamente il personaggio, ma al tempo stesso proietta su di lui una luce che ne rende patetica la figura. Il «Primer Magistrado» acquista, nella rovina, la dimensione toccante del principe caduto; la sua malvagità sembra cedere di fronte al dramma della sconfitta e soprattutto all'inevitabile oblio della storia. L'implacabile Agente Consolare non dà tregua al dittatore sconfitto:

«[...] Pasará lo mismo que con las esculturas romanas de mala época que pueden verse en muchos museos: sólo se sabe de ellas que son imágenes de Un Gladiador, Un Patricio, Un Centurión. Los nombres se perdieron. En el caso suyo se dirá: “Busto, estatua, de Un Dictador. Fueron tantos y serán tantos todavía, en este hemisferio, que el nombre será lo de menos”. (Tomó un libro que descansaba sobre una mesa) “-Figura Usted en el Pequeño Larousse? ¿No?... Pues entonces está jodido”... [...]»343.



Il «Principe» spodestato confessa: «Y aquella tarde lloré. Lloré sobre un diccionarioJe sême à tout vent»- que me ignoraba»344 .

Il lettore coglie con sorpresa questa nuova dimensione del dittatore nella delusione e nella sofferenza, soprattutto tenendo conto della citazione di Descartes che presiede il capitolo sesto: «... si la partida es harto desigual más vale optar por una honrosa retirada o abandonar el juego antes que oponerse a una muerte segura»345. L'avvertimento è di una pratica saggezza; il despota lo segue, ma perché non può fare altrimenti, e da questo momento la sua figura incomincia a costruirsi in dimensione umana.

Nel capitolo finale del romanzo, posto all'insegna della citazione cartesiana che allude a una ritrovata saggezza -«Y resolviéndome a no buscar más ciencia que la que pudiese hallarse en mí mismo...»346 - Carpentier racconta il triste tramonto dell'uomo che fu potente. Anche i cambiamenti effettuati nella casa parigina di Rue Tilsitt dalla figlia Ofelia, che già lo credeva -o lo sperava?- morto, sono segno del crollo del suo mondo e della sua potenza. El-Ex, come «con crispada ironía»347, ora, il «Primer Magistrado» chiama se stesso, denuncia un vertiginoso tramonto; egli non intende più, infatti, il mondo che lo circonda, e che si esprime anche attraverso un'arte nuova, pittorica, plastica, musicale, quella d'avanguardia. Nella sconfitta gli si presenta sempre più evidente la perdurabilità del genio di una Francia cartesiana, dove tutto torna a parlare di una permanenza come frutto di una civiltà superiore, che l'ex-dittatore vede manifestarsi anche nelle bottiglie di Suze, di Picón, di Raphael, di Dubonnet348. In un amaro «reencuentro» torna il ricordo degli altri dittatori caduti, miseramente finiti, trascinati per le strade o espulsi e umiliati. In questo clima non può più ripetersi la felice atmosfera parigina d'un tempo; ciò che per un istante può restituire a El-Ex l'illusione e l'euforia del passato è, significativamente, solo la casa postribolare; essa rappresenta, infatti, «lo único permanente que, desde siempre -pechos más, pechos menos- era aquí como allá, presencia y unicidad dialéctica de formas irreemplazables, común idioma de universal entendimiento [...]»349.

Da parte dell'uomo vinto e fisicamente distrutto è un tentativo drammatico di sentirsi vivo. Ciò che Carpentier, con la profonda vibrazione interiore delle sue definizioni, chiama «el gran Detenimiento de las Horas»350 , si concreta in un «sentir» che è esistere: «siento, luego soy»351 . Malgrado ciò, e malgrado il «reencuentro» con il mondo di «allá», per merito della cucina della «Mayorala», della musica popolare americana e della stampa arretrata -con gran sensibilità lo scrittore interpreta il dramma della nostalgia nell'esiliato-, l'uomo va riducendosi ombra di se stesso, una «anatomía desgastada que se esmirriaba de día en día»352. In un tempo eterno, nella monotonia del meccanico succedersi delle stagioni -«Pasaban los meses en desalojos de castanas por fresas y fresas por castañas, árboles vestidos y árboles desnudos, verdes y herrumbres [...]»353- l'Ex, il «Patriarca» come ormai lo chiama Carpentier -quasi intendendo precorrere quello di García Márquez- va restringendo sempre più l'ambito della propria esistenza. La sua rovina si manifesta anche nel logorio del cervello: «[...] era evidente que los mecanismos mentales de quien tanto había urdido, calculado, combinado a lo largo de una muy prolongada carrera, empezaban a desorganizarse»354 .

Lo scrittore ci presenta il vecchio despota ormai «catarroso y mojado», al ritorno da escursioni senza meta logica, sottolinea il suo discorrere, che è piuttosto vaneggiare, le idee fisse, ricorrenti. Si direbbe che il personaggio abbia finito per prendere del tutto la mano all'autore, tanto si umanizza. Alejo Carpentier lo presenta, infatti, nei suoi ultimi giorni, in una statura gigantesca; nel suo aspetto esiste «cierta majestad, cierta fijeza» che gli dà tono e stile, com'è frequente nei grandi caduti in rovina, «los que, durante años y años, impusieron su voluntad, hicieron la ley, en algun lugar del mundo». E aggiunge: «Bastaba que se acostara en su chinchorro, para que ese chinchorro se volviera Trono»355. Lí disteso l'Ex «se agigantaba, era inmenso en su horizontalidad de inmortal ignorado por el Pequeño Larousse»356 .

Immerso in un intermittente monologo interiore il vecchio dittatore trascorre gli ultimi giorni della sua vita. Costretto dapprima a letto, si alza di nuovo migliorato; ma è un uomo finito e solo può godere dello spettacolo delle carni generose di Elmira. Carpentier insiste sulla progressiva, e in fondo toccante, decadenza del despota. Nel personaggio si fa largo il pensiero della morte, della tomba, cui non di rado si rivolge come antidoto contro il dolore, e nel dormiveglia dell'incoscienza lo agita la preoccupazione di permanenza, la ricerca di una frase che permanga nella Storia. Ultima menzogna, l'Ex trova questa frase tra le pagine rosa del Piccolo Larousse: «Acta est fabula». Ma nessuno la intenderà chiaramente, né saprà decifrarne il significato, allorché morendo la pronuncerà. Inutile impegno di sopravvivenza.

Attraverso tanti particolari Alejo Carpentier rende umana la figura dell'ex-Primo Magistrato. Il lettore ne resta profondamente impressionato, soprattutto quando lo scrittore presenta il personaggio circondato dalla più completa solitudine, privo di affetti, accentuando il senso della sua miseria, risultato inevitabile di un'azione terrena di despota crudele, e giusta condanna.

Alla fine del capitolo sorprende una nuova citazione dal Discorso del metodo; essa campeggia in, pagina bianca: «La enredadera no llega más arriba que los árboles que la sostienen»357 . È la morale di tutta la storia, denuncia dell'inevitabile fine delle dittature. Ma ancora una citazione da Descartes richiama l'attenzione del lettore, all'inizio del breve epilogo posto sotto l'anno 1972: «... arretez vous encore un peu á considerer ce chaos...»358. La citazione è, inaspettatamente, in lingua originale, forse per far più vivo il richiamo, e per concludere meglio il «memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris»359. È l'avvertimento che Carpentier rivolge a coloro che, impadronitisi del potere con la violenza, pensano di conservarlo per l'eternità. La stessa natura dell'uomo burla le loro pretese; la morte interviene col suo significato di consumazione. E tuttavia, la data che presiede l'epilogo, 1972, indica come l'errore sia ricorrente.




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Grandezza e miseria della dittatura perpetua: «Yo el Supremo»


A distanza di quindici anni dal suo primo romanzo, Hijo de hombre (1959), che diede a Augusto Roa Bastos solida fama internazionale, lo scrittore paraguaiano pubblica, nel 1974, Yo el Supremo, un grosso volume di 467 pagine, dedicato alla figura del Dottor Francia e alla «Dittatura Perpetua», instaurata nel Paraguay agli inizi dell'Ottocento. Il personaggio era già presente in Hijo de hombre, nell'evocazione inquietante dell'ex-schiavo Macario360, come «pajarraco» enigmatico, che imponeva la sua ombra, con un che di magico e di sacro, su tutto il paese, in un alone di violenza e di arbitraria giustizia, che finiva per diventare mania ossessiva, al servizio di una visione distorta delle cose e della realtà.

A distanza di anni la ricomparsa del Dottor Francia quale protagonista di tutto un romanzo riconferma la profonda attrazione esercitata dal personaggio sullo scrittore, non in quanto motivo esterno, ma come problema vitale del mondo paraguaiano, languente ancor oggi sotto regime dittatoriale.

Per quanto attiene all'arte, gli anni che intercorrono tra Hijo de hombre e Yo el Supremo rappresentano il processo verso una maturità ora pienamente raggiunta. Se il primo romanzo era considerato uno dei testi più ragguardevoli della «nueva novela», in Yo el Supremo si esaltano le facoltà d'invenzione e di stile dello scrittore, in un libro di rilievo sicuro nella narrativa ispano-americana contemporanea. La sua struttura si presenta totalmente nuova. Il romanzo si apre con un «pasquín», che imita la scrittura e la firma del dittatore, oltre all'aspetto formale dei decreti del Supremo. Affisso clandestinamente alla porta della cattedrale, il foglio dà disposizioni per la morte del tiranno e dei suoi collaboratori: che egli sia decapitato e la sua testa sia posta su una picca «por tres días, en la Plaza de la República, donde se convocará al pueblo al son de las campanas a vuelo»361; che tutti i suoi servitori, «civiles y militares», siano impiccati, e i cadaveri «enterrados en potreros de extramuros sin cruz ni marca que memore sus nombres»362; che, infine, al termine «de dicho plazo», i resti del dittatore «sean quemados y las cenizas arrojadas al río»363 .

Fin dalla prima pagina il clima politico è ben definito. La ricerca dell'autore, o degli autori, del «pasquín» è il motivo che riaffiora, tratto tratto, nel romanzo, contribuendo a dargli unità, ma sempre più soverchiato dall'urgenza dei temi prospettati dal dittatore, intento, sembrerebbe, a tracciare la storia «fidedigna» del proprio regno, nell'ultimo mese della sua vita, quando ormai le forze Io vanno abbandonando.

Il libro si presenta costruito in modo composito: il «pasquín», dettato e riflessione, dialogo e monologo del dittatore, interventi del «fiel de fechos» Patino, accusato di «fide-indigno»364 o di «medio miliunanochero»365 , comparse continue del «Cuaderno privado» del dittatore, e una «Circular Perpetua», che egli dirige ai suoi fedeli, allorché si sparge la falsa notizia della sua morte, per rinfrancarli, rendendoli coscienti della parte che El Supremo ha avuto nella storia dell'indipendenza del paese, quindi nella storia «tout court» del Paraguay. Detta circolare serpeggia per tutto il romanzo, emergendo in dieci riprese. Il «Cuaderno privado» del dittatore compare nel romanzo in quindici occasioni; una sola volta fa la sua comparsa il «Cuaderno de bitácora». Interviene inoltre un «Auto Supremo» del tiranno, due volte «La voz tutorial», una «Convocatoria del Supremo». Il tutto in una successione tesa di brani, nei quali la voce dettante e le voci degli attori delle scene evocate si susseguono in frasi compiute, ma non distinte graficamente nel testo. Inoltre il libro reca un singolare corredo di note a pie di pagina, taluna chiarimento del «Compilador» -come si professa l'autore-, talaltra citazione di brani tratti da epistolari e da testi di testimoni della dittatura. Non di rado il «Compilador» finisce per insinuarsi col suo commento-nota fin nel testo, per chiarire e rettificare affermazioni del Supremo, o per documentare meglio i fatti con apporti testimoniali. Tali interventi, in alcune occasioni, si prolungano per più pagine, interpolati nel testo, divenendo un tutto unico con esso, nonostante la diversa caratterizzazione tipografica e su due colonne; talaltra ancora la nota ne richiama un'altra, che vi si inserisce in stretta concatenazione. E ancora, sono da ricordare gli interventi di anonimi postillatori sul «Cuaderno Privado» del Supremo, i quali vi iscrivono clandestinamente -«Letra desconocida», denuncia l'autore nel testo- propri commenti, negativi o ironici, che suscitano le ire del dittatore.

Il romanzo si allontana, quindi, vistosamente dalla struttura tradizionale e presenta interessanti novità. Esso si configura come un libro di documentazione, abilmente costruito sulle fonti impiegate, vere o false che siano. Anche l'«Appendice», che propone pareri contrastanti di storici diversi intorno all'autenticità dei resti del tiranno, è parte integrante del romanzo e contribuisce a ribadire l'atmosfera cupa di denuncia contro la dittatura. La chiave del libro sta nella «Nota final del Compilador», ma è una chiave «despistante», in quanto Roa Bastos «remata», in realtà, la finzione, affermando che, «al revés de los textos usuales», questo è stato «leído primero y escrito después»366. In una nota alla pagina 3 egli aveva alluso alla propria attività di raccoglitore di documentazione, scritta e orale, e più di una volta si era firmato nelle note come «Compilador». A questo punto Roa Bastos si dichiara apertamente «sonsacador» di un'iperbolica serie di fonti scritte -«unos veinte mil legajos, éditos e inéditos; de otros tantos volumenes, folletos, periódicos, correspondencias y toda suerte de testimonios ocultados, consultados, espiados, en bibliotecas y archivos privados y oficiales»367- e di fonti della tradizione orale, oltre «quince mil horas» di interviste registrate al magnetofono, «agravadas de imprecisiones y confusiones, a supuestos descendientes de supuestos funcionarios; a supuestos parientes y contraparientes de El Supremo, que se jactó siempre de no tener ninguno; a epígonos, panegiristas y detractores no menos supuestos y nebulosos»368. Di conseguenza, egli afferma che, invece di fare e di scrivere «cosa nueva», altro non ha fatto che «copiar fielmente lo va dicho y compuesto por otros»369 . Con questo espediente Roa Bastos, continuamente e ben presente nella sua opera, ottiene l'effetto di esaltare il clima di realtà-irrealtà in cui tutta la narrazione si muove, dichiarando, come «a-copiador», che la storia raccolta in questi «Apuntes» si riduce al fatto «que la historia que en ella debió ser narrada no ha sido narrada. En consecuencia, los personajes y hechos que fìguran en ellos han ganado, por fatalidad del lenguaje escrito, el derecho a una existencia ficticia y autónoma al servicio del no menos ficticio y autónomo lector»370 .

In Yo el Supremo la dimensione «implicante» invece ben definita. Il dittatore, in un teso avvicendarsi di dettato, di dialogo e di monologo, mira a costruire il monumento alla propria persona, rifiuta e accetta testi su di sé e sulla propria opera, anticipa il futuro intorno alla propria fine e alla sorte dei propri resti mortali, è dominato da una preoccupazione di permanenza che si rivela anche nella cura dello stile, nelle note che appone al testo per ulteriori sviluppi dello stesso. Il segretario «novelero» viene assoggettato totalmente, svuotato della sua autonomia di essere pensante; gli dice El Supremo:

«[...] guiaré tu mano como si escribiera yo. Cierra los ojos. Tienes en la mano la pluma. Cierra tu mente a todo pensamiento [...]. La presión funde nuestras manos. Una sola son en este instante. Apretemos con fuerza. Vaivén [...]»371 .



Tutto ciò in contraddizione evidente con la più volte asserita natura strettamente privata degli «Appunti». In realtà, chiarisce il «Compilatore» con intenzione maligna nei confronti del personaggio, in una nota alla pagina 75, che si arrampica su per il testo fino a introdursi in esso, prendendo da una lettera del Dottor V. Días de Ventura a fray Mariano Bel-Asco, il dittatore «tiene un almacén de cuadernos con cláusulas y conceptos que ha sacado de los buenos libros»; da essi prende frasi che colloca qua e là, «vengan o no a cuento», e «Todo su estudio se cifra en el buen estilo». Si scopre così la falsità del proposito dichiarato dal Supremo. Il quale non si accontenta di dettare, ma interviene addirittura come scrittore materiale degli «Appunti», soprattutto verso la fine della sua vita, in un esercizio che è per lui una forma di sentirsi scrittore:

«Al principio no escribía; únicamente dictaba. Después olvidaba lo que había dictado. Ahora debo dictar/escribir; anotarlo en alguna parte. Es el único modo que tengo de comprobar que existo aún. Aunque estar enterrado en las letras ¿no es acaso la más completa manera de morir? ¿No? ¿Sí? ¿Y entonces? No. Rotundamente no. Demacrada voluntad de la chochez. La vieja vida burbujea pensamientos de viejo. Se escribe cuando ya no se puede obrar. Escribir fementiras verdades. Renunciar al sacrificio del olvido. Cavar el pozo que uno mismo es [...]. De lo único que estoy seguro es que estos Apuntes no tienen destinatario [...]. Esto es un Balance de Cuentas. Tabla tendida sobre el borde del abismo [...]»372.



Sembrerebbe confermare l'intenzione «privata» dell'esercizio del dittatore la decisione di bruciare i suoi scritti prima di morire. Ciò avviene, infatti, ma dall'incendio si salvano, per la «ficción», i testi presentati dal Compilatore. Frequente è in essi, nella trascrizione del narratore, l'avvertimento «quemado», «ilegible», «roto», «quemado el resto del folio», «petrificado el plasto de los diez folios siguientes»373 . La fine dei documenti, termine del romanzo, conclude con parole che non si intende esattamente chi abbia scritto, ma certo una mano sconosciuta, e con pagine carbonizzate:

«[...] ¡Qué tal, Supremo Finado, si te dejamos así, condenado al hambre perpetua de comerte un güevo, por no haber sabido... (empastado, ilegible el resto, inhallables los restos, desparramadas las carcomidas letras del libro)»374 .



Realtà e irrealtà si fondono e si confondono efficacemente nel libro. Lo stile del Supremo è sempre teso, fiorito nel gioco di parole su cui continuamente insiste nella sua dettatura-conversazione-scrittura-diatriba. Roa Bastos, abilissimo Compilatore-Autore, dispiega qui tutto il vigore delle sue facoltà di innovatore del linguaggio, di maestro originalissimo dell'espressione. La finzione su cui ha costruito il romanzo ha pieno successo anche per l'originalità e l'efficacia espressiva. È interessante, inoltre, il gioco attraverso il quale il narratore si fa coinvolgere nel libro dal dittatore, in polemica continua contro gli scrittori, soprattutto contro quelli emigrati -e Roa Bastos è uno di essi-, che egli prevede scriveranno contro di lui «truhanerías», alle quali, nell'impunità della distanza, oseranno «cínicamente» apporre la loro firma375 . Saranno «Profetas del pasado», che nei loro libri racconteranno «sus inventadas patrañas, la historia de lo que no ha pasado, [...]»376.

Più direttamente ancora lo scrittore implica se stesso quando, citando in nota al testo dal Correa, che narra le proprie vicissitudini, durante la sfortunata missione nel Paraguay come rappresentante dell'impero brasiliano, si fa apostrofare «senhor Roa»; benché chiarisca subito, in nota, che «el lapsus y la mención no le corresponden», ma che l'«informe» confidenziale del Correa menziona testualmente il cognome, «según puede consultar se en el tomo IV de Anais, p. 60»377 . Ma chi può stabilire - almeno «a estas alturas» - l'attendibilità, non solo, ma la reale esistenza delle fonti bibliografiche cui afferma di rifarsi l'Autore?

Talvolta la nota, arrampicandosi su per il testo, finisce per spodestarlo per diverse pagine, costituendo un romanzo breve nel romanzo. Oppure, a pie di pagina, prolungandosi per più pagine, la nota attira prepotentemente il lettore, fino a fargli tralasciare il testo.

Il mondo fantastico creato da tutti questi elementi, l'atmosfera leggendaria, sono ancor più sottolineati dalla digressione del «Compilador» intorno alla magica penna del Supremo, lunga narrazione che s'inserisce, su due colonne, nel testo, tra le pagine 214 e 218. Roa Bastos «Compilador» racconta come il prezioso cimelio sia finito -favola nella favola- nelle sue mani, e illustra le straordinarie proprietà della «lente-recuerdo» incastonata nel «pomo» della penna, utensile insolito con due diverse e coordinate funzioni: «Escribir al mismo tiempo que visualizar las formas de otro lenguaje compuesto exclusivamente con imágenes, por decirlo así, de metáforas ópticas»378. Nell'opinione del «Compilador» la penna dovette esser dotata anche di una terza funzione: «reproducir el espacio fonico de la escritura, el texto sonoro de las imagenes visuales; lo que podria haber sido el tiempo hablado de esas palabras sin forma, de esas formas sin palabra»379, che permisero al Supremo di «conjugar los tres textos en una cuarta dimensión intemporal girando en torno el eje de un punto indiferenciado entre el origen y la abolición de la escritura; esa delgada sombra entre el mariana y la muerte. Trazo de tinta invisible que triunfa sin embargo sobre la palabra, sobre el tiempo, sobre la misma muerte»380.

Il clima di magia si intensifica in questa pluralità di dimensioni della scrittura. Che il Supremo intenda,, trarre da essa un significato «diverso» da quello corrente è manifesto nell'elucubrazione con cui distingue la propria opera da quella dello scrittore di romanzi; da lui detti spregiativamente «novelones»381. Ciò che egli vuole è che nelle parole che Patino scrive vi sia qualcosa che gli appartiene, avvertendo che

«[...] Quien pretende relatar su vida se pierde en lo inmediato. Únicamente se puede hablar de otro. El Yo sólo se manifiesta a través de Él. Yo no me hablo de mí. Me escucho a través de Él [...]»382



È in questo senso che il «fiel de fechos» diviene strumento passivo del dittatore nella stesura dello scritto. Il disorientamento di Patino procede dall'impossibilità di intendere e di scrivere ciò che gli viene dettato, ma che l'apposizione della firma da parte del Supremo ha il potere di rendere chiaro:

«[...] Ora que si leo el escrito una vez firmado por su Excelencia, echada la arenilla a la tinta, me resulta siempre más claro que la misma claridad»383.



La dimensione irreale si coniuga, qui, con la nota critica e satirica, che sottolinea nel grottesco la natura quasi divina del dittatore. Il Supremo sembra agire con chiara coscienza dell'unicità del suo dettato e del significato della dimensione magica che intende dare alla propria persona e alla propria opera. Nella prospettiva del tempo, a duecento anni di distanza, egli pensa a lettori che non sapranno più se si tratta «de fábulas, de historias verdaderas, de fingidas verdades»384. Solo allora sarà raggiunta Pintramontabilità: «Igual cosa nos pasará a nosotros, que pasaremos a ser seres irreales-reales. Entonces ya no pasaremos [...]»385.

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